Survey
* Your assessment is very important for improving the workof artificial intelligence, which forms the content of this project
* Your assessment is very important for improving the workof artificial intelligence, which forms the content of this project
Giovanni Sole Polpo immondo Tabù alimentari nel mondo antico RUBBETTINO Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Esprimo profonda gratitudine agli impiegati della Biblioteca Civica e Biblioteca Nazionale di Cosenza. Un particolare ringraziamento a Paola Pietramala, Rossella Belcastro, Elena Giorgiana Mirabelli e Amedeo Sole. © 2017 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Polpo immondo I sacerdoti egiziani non mangiavano pesci e consideravano i polpi immondi1. Agli ebrei era concesso mangiare i pesci muniti di pinne e squame ma erano vietati i cefalopodi perché impuri2. I pitagorici evitavano pesci e molluschi ma i motivi alla base di questa proibizione, secondo quanto scrive Plutarco, erano poco chiari: c’era chi sosteneva una cosa e chi il contrario3. 1. Vincenzo Mirabella, Delle antiche siracuse, nella stamperia di Gio. Battista Aiccardo, Palermo 1717, p. 42. 2. Deuteronomio, XIV, 9-10, in Moraldi L. (a cura di), La Sacra Bibbia. Antico e Nuovo Testamento, Rizzoli, Milano 1973, p. 160; Levitico, XI, in Vecchio Testamento che contiene il secondo e terzo libro del Pentateuco o sia l’Esodo e il Levitico, stamperia Arcivescovile, Firenze 1782, pp. 333-334. Cfr. Claude Fleury, Costumi degl’Israeliti, Federico Agnelli, Milano 1783, p. 55; Benedetto Frizzi, Dissertazione seconda di polizia medica sul Pantateuco in riguardo ai cibi proibiti ed altre cose a essi relative, Lorenzo Manini regio stampatore, Cremona 1788, pp. 42-47. 3. Opuscoli di Plutarco, tipi di Sonzogno, Milano 1827, pp. 441-447. Cfr. Ateneo, I deipnosofisti. I dotti a banchetto, IV, 161c, vol. I, Salerno ed., Roma 2001, p. 401. Salvatore De Renzi, Osservazioni sulla topografia-medica del Regno di Napoli (Dominj al di qua del Faro), tip. de’ fratelli Criscuolo, Napoli 1829, p. 202. Polpo e anima Un cibo è buono da mangiare perché è anche buono da pensare. Mangiarlo o meno dipende da costruzioni culturali che a volte resistono a eventi storici, economici e sociali. Lévi-Strauss sostiene che i comportamenti alimentari sono influenzati anche dall’immaginario e dai simboli di cui gli uomini sono portatori e, in qualche modo, prigionieri. Le ragioni inconsce per cui si pratica un’usanza sono lontanissime da quelle invocate per giustificarle, gli uomini agiscono e pensano per abitudine e la resistenza nel mantenere alcune tradizioni deriva più dall’inerzia che da volontà cosciente1. A volte le credenze resistono al tempo e sono fatte proprie da altre culture. Sulla traccia di quanto stabilito da egiziani ed ebrei, re Numa ordinò di sacrificare e consumare durante i banchetti religiosi solo pesci con pinne e squame, vietando seppie, totani, calamari, polpi e altri esseri «vestiti» in pelle perché, da impuri, avrebbero offeso gli dei2. Anche in alcuni ambienti cristiani si rispettava il divieto di mangiare polpi e cefalopodi. San Barnaba, convertitosi al cristianesimo, richiamandosi a quanto aveva detto Mosè, scriveva in un’epistola che non si dovessero mangiare pesci dalla cute molle come la murena, il grongo, il polpo e la seppia3. Pietro Rota, predicatore cappuccino, affermava che i fedeli dovessero astenersi dal consumo di pesci privi di ali e di squame poiché immondi, simili a quegli uomini esecrandi che vivevano come fossero solo carne, nuotando nel fango e sempre a caccia di piaceri mondani4. Alcuni pesci, nonostante i divieti religiosi, costituivano un alimento apprezzato nella dieta delle persone comuni. Durante il suo viaggio in Egitto, Antenore annotava che la popolazione mangiasse pesce, nonostante i sacerdoti, ritenendolo un alimento contaminato, lo bruciassero davanti alle case. Nei sette giorni antecedenti le celebrazioni di riti solenni, i chierici si astenevano dal cucinare pesci e legumi e, sin da giovani, si abituavano a vivere con scarsi alimenti5. Plutarco conferma che durante il nono giorno del mese di thoth gli Egiziani erano soliti consumare pesci arrostiti mentre i prelati, per rispetto a Osiride, si limitavano a bruciarlo davanti all’uscio poiché le loro carni erano corrotte6. Erodoto raccontava che i sacerdoti praticavano diversi riti di purificazione: radevano spesso il corpo per eliminare insetti e sporcizia, si lavavano due volte di giorno e due di notte con acqua fredda, si nutrivano solo di cibi cotti, non disdegnavano la carne d’anatra e di bue ma non toccavano fave e pesci, impuri e malefici per l’anima7. Secondo alcuni scrittori antichi, i sacerdoti egiziani rifiutavano i molluschi perché, mettendo in subbuglio l’organismo ed essendo di difficile digestione, non favorivano sogni tranquilli. Paragonavano la carne del polpo ad alcune belle poesie d’amore: dilettevoli sì, ma causa di sogni laidi e dannose per i buoni costumi8. Aristotele riteneva che polpi e fave provocassero strane visioni e torbide fantasie e che, soprattutto chi prediceva il futuro per mezzo dei sogni, dovesse astenersene9. Molluschi e polpi avevano carni contaminate, creavano nell’organismo un intorpidimento che offuscava la mente, svigorivano i sensi, favorivano orribili visioni e impedivano una corretta produzione onirica, indispensabile per conoscere il futuro. Uno dei pochi pesci considerati benefici per lo spirito e il corpo era lo scaro, secondo Ateneo tenuto così in considerazione da attribuirgli il potere di condurre alla santità chi se ne cibava10. Non sappiamo se i polpi abbiano effetti negativi sull’attività onirica, ma tale convinzione era diffusa anche in ambienti popolari e ancora oggi nei villaggi marinari si dice che calamari e polpi rendano le notti insonni11. Nell’antichità si prestava molta attenzione ai sogni: divinità e defunti visitavano gli uomini durante il sonno, i primi guarendo, i secondi divinando. Ovidio annotava che il dio Sonno fosse il più placido fra gli dei, ristorava gli uomini dal duro lavoro e li preparava a nuove fatiche. Aveva mille figli, tra cui Morfeo, artista capace di assumere qualsiasi sembianza umana, Fobetore, che si presentava con aspetto d’animale, e Fantaso che riusciva a trasformarsi in cose inanimate12. Antenore raccontava che i sacerdoti egiziani capaci di interpretare i sogni prescrivevano ai clienti bagni profumati e vivande sugose per dare maggiore leggerezza al corpo13. Gli ebrei davano molta importanza alle visioni e chi faceva sogni che portavano malinconia digiunava tutto il giorno e la sera chiamava tre amici ai quali diceva sette volte: «Buono sia il sogno che ho veduto» ed essi ogni volta rispondevano «Buono sia»14. Artemidoro scrisse un saggio sulla spiegazione dei sogni attingendo informazioni dai predecessori e prestando orecchio agli indovini che incontrava nelle fiere. Nel suo trattato si legge che sognare di mangiare pesci grandi prometteva cose utili e buone, mentre cibarsi in sogno di pesci piccoli presagiva debolezza, malinconia, inimicizie, scarsi guadagni e vane speranze. I pesci con un colore «simile ai malati» mostravano insidie e raggiri, quelli rossi annunciavano tormenti e infermità; reti e attrezzi da pesca lasciavano presagire inganni; i pesci che si «scorzavano» erano di buon augurio per i sofferenti, mentre quelli privi di scaglie o di ossa – come ortiche di mare, seppie e polpi – anticipavano guai. Le donne sterili che vedevano in sogno dentici e triglie, invece, sarebbero divenute fertili15. I sacerdoti greci più valenti nel decifrare i sogni erano molto stimati dalla popolazione perché ritenuti ispirati dalle divinità. Nei santuari «incubatori» si raccomandava ai pellegrini di coricarsi indossando vesti bianche per rendere i sogni più chiari e a notte avanzata, perché erano i sogni mattutini ad annunciare il volere degli dei16. Per riuscire a vedere in sogno il loro futuro si consigliava di seguire una «dieta sacra», nella quale erano interdetti diversi cibi che potevano intorpidire la mente17. L’esperienza insegnava che l’abbondanza o la mancanza di cibo influenzava fortemente l’attività onirica e che gli eccessi alimentari erano capaci di affaticare la mente, provocando sogni confusi o inattendibili; una dieta equilibrata, invece, favoriva sogni chiari e verosimili perché il pensiero riusciva a esprimersi liberamente. I sogni migliori si verificavano durante le prime ore del mattino, a digestione terminata, e in primavera perché, con le piante in fiore, gli uomini si nutrivano senza eccedere. I ministri del culto egiziani non mangiavano pesce e non rivolgevano alcun saluto ai pescatori perché consideravano il mare una mescolanza di materie impure che offendevano gli dei ed erano capaci di generare pestilenze18. I pitagorici, dal canto loro, non mangiavano pesci e molluschi perché li ritenevano d’ostacolo alla facoltà profetica e alla purezza dell’anima19. La loro scuola gravitava attorno al principio orfico secondo il quale l’uomo ha un’anima immortale imprigionata in un corpo mortale destinata a rinascere in altri corpi: per riconquistare definitivamente l’origine divina, era necessaria la rigorosa astinenza da animali impuri. Purezza e salvezza andavano perseguite con privazioni ed espiazioni poiché solo l’austero tenore di vita poteva preservare la sanità del corpo e, conseguentemente, quella dello spirito20. Certe privazioni alimentari, come quella dei pesci, erano probabilmente parte di un corpus di leggi che i religiosi erano chiamati a rispettare per raggiungere lo stato della perfezione, per purificare l’anima e riconquistare l’origine divina. Le proibizioni allenavano gli adepti a combattere il vizio, a reprimere le tendenze abominevoli e a controllare gli istinti animaleschi: il fine era placare le passioni per creare armonia tra corpo e anima21. I precetti pitagorici e dei sacerdoti egiziani erano finalizzati a rendere i seguaci santi e la santità si poteva raggiungere tramite rinuncia, sacrificio ed esperienza della separazione. «Santo» significava distaccato dal resto del mondo corrotto e le regole dietetiche inducevano alla meditazione, tenevano a distanza gli attentati all’integrità e allontanavano il pericolo di contaminazione con le cose impure. 1. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1998, p. 31. 2. Giuseppe Pasquali, Commento su i frammenti delle antiche leggi delle XII tavole, plebisciti e sen. consulti col di loro nascimento, progresso, mutazione e stato, e tutto con istorie dell’antichità romana adornato, appo Vincenzo Lorenzi, Napoli 1784, pp. 11-14. 3. Ibidem. 4. Pietro Rota, Giardino fiorito di varij concetti scritturali e morali sopra le domeniche doppo la pentecoste, presso Paolo Baglioni, Venetia 1661, pp. 67-68. 5. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto. Manoscritto greco trovato nell’antica Ercolano, Marotta e Vanspandoch, Napoli 1832, p. 87. 6. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 471. Cfr. Girolamo Pozzoli, Dizionario di ogni mitologia e antichità, presso Barelli e Fanfani, Milano 1823, p. 650. 7. Erodoto Alicarnasseo, pel Desiderj, Roma 1789, p. 128. 8. Giovanni Piero Valeriano, I ieroglifici overo commentarii delle occulte significationi de gl’Egittij, & altre Nationi, presso Gio. Battista Combi, Venetia 1625, p. 352. Cfr. Paolo Aresi, Imprese sacre con triplicati discorsi, per Giunti e Baba, Venetia 1699, p. 377. 9. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 457. Cfr. John Robinson, Antichità greche ovvero quadro de’ costumi, usi, ed istituzioni de’ greci nel quale si espone tutto ciò che riguarda la loro religione, governo, leggi, magistrature, procedure giudiziarie, tattica e disciplina militare, marina, feste, giuochi pubblici e particolari, banchetti, spettacoli, esercizi, matrimoni, funerali, abbigliamenti, pesi e misure, monete, edifizi pubblici, case, giardini, agricoltura ec. ec., tipografia Porcelli, Napoli 1823, p. 95. 10. Giuseppe Pasquali, op. cit., p. 12. 11. Costantino Pescatori, La mitologia greca e romana, tip. della Gazzetta d’Italia, Firenze 1874, p. 211. 12. Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, XI, 616-644, Einaudi, Torino 1994, pp. 289-291. 13. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto, cit., p. 85. 14. Leon Rabi da Modena, da Historia de riti hebraici: vita, & osservanza de gl’Hebrei di questi tempi, appresso li Prodotti, Venetia 1669, pp. 7-8. 15. Daldiano Artemidoro, Dell’interpretazione dei sogni, appresso Gabriel Gioito de Ferrari, Vinegia 1547, pp. 34-35; 56-58. 16. Giovanni Boschi, Storia biblica corredata dalle principali notizie per servire all’intelligenza storica, archeologica, cronologica, geografica e filosofica dei libri santi, stab. tip. Morelli, Napoli 1862-1865, pp. 211-212; J. Robinson, op. cit., pp. 95-96. 17. Cfr. Giulio Guidorizzi, Tabù alimentari e funzione onirica in Grecia, in Longo O., Scarpi P. (a cura di), Homo edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, Diapress, Milano 1987, pp. 169-177. 18. Ercole Mattioli, La pietà illustrata. Accademie sacre dove s’erudisce in ordine ad essa un giovane nobile, per Alberto Pazzoni e Paolo Monti, Parma 1694, p. 42; Francesco Zanotto, Dizionario pittoresco di ogni mitologia d’antichità, d’iconologia e delle favole del Medio Evo, stab. naz. di Giuseppe Antonelli, Venezia 1853, pp. 801-802. 19. Bernardino Baldi, Vita di Pitagora, tip. delle Scienze Matematiche e Fisiche, Roma 1888, p. 29; Fulvio Gherli, La scuola salernitana dilucidata: o sia lo scovrimento del vero e del falso, dell’utile e dell’inutile di questa stimatissima opera, per sapersi conservar sano, e prolungare la vita, spiegandosi tutto sul buon gusto moderno, presso Giuseppe Corona, Venezia 1733, pp. 184185; Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820, p. 168. 20. Giamblico, La vita pitagorica, in Giangiulio M. (a cura di), Pitagora. Le opere e le testimonianze, XXIV, 106-107, vol. II, Mondadori, Milano 2000, p. 397. Cfr. Francesco Grillo, Pitagora di Samo nella storia e nel mito, Cosenza 1956, estratto da Calabria Nobilissima, a. X, n. 29, 1956; Alberto Gianola, La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto, Francesco Battiato, Catania 1921, p. 201. 21. Giamblico, op. cit., XXV, 110, p. 399. Cfr. Olao Magno Gotho, Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali, appresso i Giunti, Vinegia 1565, p. 272; Plotino, Enneadi, IV, 7, 8, 26-37, Mondadori, Milano 2002, p. 1103. Polpo progenitore Gli scrittori antichi raccontano che Siri, Persiani, Fenici, Egizi, Cretesi e altri popoli non mangiavano alcuni pesci perché sacri agli dei se non addirittura, essi stessi dei1. Gli Egiziani veneravano l’ossirinco perché pensavano che uno di questi pesci avesse ingerito parti del corpo d’Osiride gettate nel Nilo dopo essere stato fatto a pezzi dal fratello minore Seth2. Gli abitanti d’Ascalona non pescavano né mangiavano i pesci del vicino lago per rispetto della regina Derceta. Venere la fece innamorare di un bellissimo giovane e dal loro rapporto era nata una bambina ma la donna, vergognandosi del peccato, allontanò l’amante, abbandonò la figlia nel deserto, si gettò nel lago e diventò pesce3. I Greci ritenevano sacro il pesce pompilo. Apollonio di Rodi racconta che Apollo, invaghitosi d’Ociroe, decise di rapirla mentre il pescatore Pompilo la stava traghettando a Mileto per partecipare a una festa in onore d’Artemide. Il dio dell’amore portò via la giovane e trasformò Pompilo in pesce, affidandogli il compito di scortare e proteggere le navi durante la navigazione4. Tra i pesci sacri Aristotele citava anche l’anthìas, perché indicava ai pescatori di spugne e d’ostriche dove immergersi per evitare bestie marine e Teocrito di Siracusa indicava sacro il leukos, in grado di riempire le reti dei pescatori5. Sembra che anche il polpo fosse oggetto di venerazione in alcune città del Mediterraneo. Secondo Ateneo, l’octopus dagli otto piedi, come la testuggine di mare, era considerato sacro a Trezene ed era assolutamente vietato pescarlo, toccarlo o mangiarlo6. Il polpo argonauta o nautilo, riconosciuto dai marinai come maestro della navigazione, era venerato nell’antichità e celebrato da diversi poeti come un essere portentoso: quando le acque erano calme agitava le braccia come remi e, se si alzava un venticello, issava le vele7. I polpi erano tenuti in gran considerazione perché, a differenza delle altre creature marine, riuscivano a vivere anche sulla terraferma e perché si autorigeneravano8. Si moltiplicavano alla maniera degli alberi: come da tanti rami strappati all’albero e conficcati nella terra nascevano altre piante, così dai tentacoli staccati nascevano altri polpi9. Gli scienziati chiamavano «polipi» gli animali con molte braccia, che, pur vivendo in acque dolci e salate, si comportavano come piante. I naturalisti del Settecento erano affascinati dai polipi poiché avevano una forza riproduttrice non riscontrabile in nessun animale terrestre o marino10. Attraverso alcuni esperimenti fu possibile osservare che si riproducevano come le piante e, per questo motivo, vennero catalogati come «piantanimali», esseri viventi posti tra il mondo vegetale e quello animale11. Riformandosi da una parte del corpo, il polpo era immortale come una divinità e alcuni eruditi immaginavano il creatore dell’universo somigliante a un mollusco gigantesco12. I pesci sacri dovevano essere rispettati, pena una severa punizione degli dei. Secondo Eliano, gli Egiziani veneravano a tal punto il pesce ossirinco da non pescare in certi periodi per timore che questi finisse nelle reti13. Pancate raccontava che Epopeo e il figlio, pescatori dell’isola d’Icaria, presero e mangiarono per fame alcuni pompili. Per non aver avuto alcun riguardo del sacro pesce, mentre calavano nuovamente la rete, il vecchio Epopeo fu afferrato da una balena e annegò nelle acque profonde. I pescatori riferivano che, mangiando le carni dei pompili, i delfini perdevano ogni vigore, diventavano «stupidi» e finivano sulla spiaggia per essere divorati dagli uccelli marini14. Mirtilo scrive che i pitagorici, ritenendo sacro il silenzio, consideravano divini i pesci perché erano muti15. Laerzio sostiene che Pitagora ordinava ai discepoli di non mangiare pesci perché sacri e ricordava spesso di avere appreso la sapienza da loro16. Giambico racconta che il filosofo aveva uno stretto rapporto con le acque al punto da parlare col fiume Nesso17. Plutarco afferma che Pitagora non aveva in odio i pesci e non li considerava nemici perché, a differenza degli animali terrestri, non danneggiavano gli uomini: la triglia non guastava i campi, lo scaro non mangiava l’uva e il muggine non raccoglieva semi18. Diversi filosofi greci pensavano che l’uomo fosse nato dal mare e che i pesci fossero suoi parenti. Ovidio scriveva che Pitagora amava ripetere di avere visto terre che prima erano oceani e che in cima ai monti si disseppellivano conchiglie marine19. Una mattina, trovandosi presso alcuni pescatori affermò di sapere quanti pesci si trovassero nella rete e, fra lo stupore dei presenti, ne indovinò il numero: come ricompensa, chiese che fosse resa la libertà ai pesci, nostri antenati20. Gli Jeromnemones, sacerdoti di Nettuno, adoravano il dio del mare Phytalmios perché loro progenitore e non mangiavano pesci perché ritenevano che l’uomo, composto di sostanza umida, in origine vivesse nel mare. Anassimandro di Mileto sosteneva che l’uomo si fosse generato dentro un pesce e, una volta allevato, avesse abbandonato le acque per stabilirsi sulla terra: mangiare pesci, dunque, era come mangiare il padre e la madre21. L’uomo era figlio del mare e nel mare doveva tornare. In diversi villaggi lungo le coste del Mediterraneo si gettavano nelle acque i corpi dei morti affinché tornassero nel luogo d’origine: i pesci che avevano nutrito gli uomini in vita, li utilizzavano come pasto dopo la morte22. Fra tutti i pesci antenati e consanguinei dell’uomo, quello che aveva con lui maggiore vicinanza era il polpo. La testa, gli occhi e la pelle del cefalopode, somigliavano a quelli umani; come l’uomo, camminava sulla terra, nuotava nell’acqua e cambiava colore secondo gli stati d’animo. In alcuni centri del Mediterraneo si usava portare in dono alle puerpere un polpo affinché il figlio avesse le sue doti. Diversi racconti evidenziavano il rapporto tra mollusco e gestanti. Il cappuccino Egidio, nato a Castellaneta nel 1537, stimato in terra d’Otranto per il suo spirito profetico, presagì a una giovane donna di Lequile che il parto sarebbe stato dolorosissimo e il feto sarebbe stato simile a un polpo23. Ad Acireale, nel 1723, Venera Greco, moglie di un pescatore, partorì fra dolori un grosso cefalopode per aver osservato a lungo un polpo24. Mangiare polpi, esseri della stessa stirpe degli uomini, era un atto di cannibalismo. Gli umani erano legati da vincoli di parentela anche alle fave poiché, esposte ai raggi solari, emanavano l’odore del liquido seminale; inoltre, sotterrandone i fiori in un vaso di terracotta, dopo novanta giorni s’intravedeva la testa di un bambino oppure un sesso femminile25. Le fave, come i polpi, avevano la stessa natura degli uomini e bastava aprire un baccello fresco e guardare il seme per capire che esso fosse simile al feto di un bambino. Eraclide Pontico raccontava che da una fava gettata nel letame, dopo una gestazione di quaranta giorni, il tempo di fioritura della pianta, nasceva un uomo26. Nel mondo antico era diffusa l’idea che dalla putredine potessero venire al mondo degli esseri viventi e Gian Battista della Porta affermava che alcuni pesci nascessero dalle «intestine della terra»27. Uomini e pesci avevano un profondo legame. Oannes o Euhandes, secondo i siriaci mezzo uomo e mezzo pesce, ogni mattina usciva dal Mar Rosso e si recava nella città di Babilonia per iniziare gli abitanti alle scienze e alle arti; i sacerdoti caldei sostenevano che avesse insegnato ai loro padri ogni cosa utile e che da allora l’umanità non avesse più scoperto niente d’importante28. Il mare era popolato da esseri metà pesce e metà uomini. Le sirene, secondo Aristotele numerose nel braccio di mare tra Cuma e Posidonia, erano fanciulle marine che ingannavano i naviganti con il loro aspetto e il loro canto: dal capo fino al ventre avevano il corpo umano e, dal ventre in giù, avevano code squamose che celavano nei gorghi29. Ovidio narrava che le divinità come Tritone, Proteo ed Egeone fossero di colorito azzurro e che Doride e le figlie, dopo aver nuotato in acque salate o navigato in groppa a grossi pesci, asciugavano al sole i verdi capelli30. Secondo Plinio alcuni ambasciatori provenienti da Olsipone raccontarono all’imperatore Tiberio che in una grotta era stato visto un Tritone suonare la conca. Quel mare era pieno di Nereidi, donne col corpo ispido di squame e si narra che alcune persone, attratte da un triste canto, ne videro morire una sulla spiaggia31. Viaggiatori e marinai, durante la notte, avevano avvistato nell’Oceano Gaditano un uomo marino così pesante da affondare le imbarcazioni sulle quali si posava32. Rondelezio, professore di medicina, in un trattato scientifico d’ittiologia del 1554 descrive alcune specie di pesci dalle forme incredibili tra cui il de monstro leonino, il de pisce monachi habitu e il de pisce episcopi habitu di cui forniva anche dettagliati disegni33. Nel 1565 Olao Magno scriveva che in mare vivevano pesci tanto mostruosi che a guardarli riempivano di spavento e stupore. Alcuni, dalle rosse pupille e coperti da peli spessi e lunghi, affondavano agevolmente grandi navi e sopprimevano robusti marinai; altri ne sovrastavano gli alberi e le inondavano d’acqua, facendole inabissare; altri ancora avevano bocche così grandi da distruggere enormi vascelli azzannandoli a prua o a poppa34. Vallisneri affermava che in mare esistessero pesci con volti, braccia, mani e busto simili a quelli degli uomini ed erano in grado di vivere per molto tempo fuori dell’acqua35. Rossi raccontava di aver acquistato e portato a Roma un pesce «vocale» dalla forma di un vitello che stette fuori dell’acqua per più di un mese36. Nel 1403 fu catturata una donna marina, gettata in un lago dalle onde dell’oceano e, poco dopo, un uomo marino con barba, capelli e peli che mangiò pane e altre cose37. Al tempo di papa Eugenio fu preso a Selenico un pesce che somigliava in tutto all’uomo ma con la pelle come le anguille, in testa due piccole corna, le mani con due dita e i piedi palmati come ali di pipistrello38. Ortensio Lando raccontava che navigando verso la Sicilia vide con i compagni un uomo marino che saliva sulla poppa della nave e si rituffava in acqua. Il giorno dopo osservarono un gran numero di Tritoni e Nereidi dal corpo peloso ed effige umana; una notte, navigando ad alcune miglia dalla costa, udirono il dolce canto di cento sirene simile a un coro d’angeli discesi dal cielo39. Beluacense sosteneva che al tempo di re Ruggero di Sicilia, mentre un giovane nuotava nelle acque notturne, prese per i capelli una donna muta: i due si sposarono ed ebbero un bel bambino. Insospettitosi che la moglie fosse un pesce, minacciò di uccidere il figlio se non avesse detto la verità, ma la donna si gettò in mare col bambino e nessuno ebbe più notizie di entrambi40. Se pesci-uomini lasciavano il mare per vivere sulla terra, uominipesce che vivevano sulla terra amavano stare in mare. Sotto il regno di Federico II viveva in Sicilia un famoso «immergitore», chiamato «Pescecola» o «Niccolò il pesce». L’uomo pescava coralli, ostriche e conchiglie che rivendeva poi al mercato ed era un nuotatore talmente esperto da riuscire a sopravvivere quattro o cinque giorni in mare nutrendosi di pesce crudo. Si diceva che avesse mani come i palmipedi e che stesse sott’acqua come un mammifero marino. Il re, trascorrendo dei giorni a Messina, seppe delle imprese di Niccolò e gli chiese di esplorare il gorgo di Cariddi. Pescecola si tuffò in mare, emerse tre quarti d’ora dopo e raccontò al sovrano che tre cose rendevano inaccessibile quel luogo: trombe d’acqua che sorgevano minacciose dal fondo, rocce dalla punta aguzza e polpi col corpo d’uomo e braccia lunghe dieci piedi. Il re gli chiese di esplorare ancora il gorgo invogliandolo con una borsa piena di monete d’oro ma Pescecola fu divorato dai grandi polpi41. 1. Emiliano Janitsch, Concordia della religione naturale colla rivelata in confutazione de’ sedicenti filosofi moderni, presso Michele Morelli, Napoli 1793, p. 36; Antonio Epifania, Trattato elementare di mitologia universale, dalla tip. dell’Osservatore Medico, Napoli 1827, p. 149. Cfr. Angelo De Gubernatis, Zoologia mitologica dei pesci, in Archivio per l’antropologia e la etnologia. Organo della società italiana di antropologia e di etnologia, stab. tip. G. Pellai, Firenze 1872, pp. 121-137; Dizionario d’ogni mitologia e antichità, presso Batelli e Fanfani, Milano 1823, pp. 649-654. 2. Francesco Zanotto, op. cit., pp. 797-798; Girolamo Pozzoli, op. cit., p. 653; Domenico Valeriani, Nuova illustrazione istoricomonumentale del Basso e dell’Alto Egitto, presso Paolo Fumagalli, Firenze 1836, pp. 485-489. 3. Francesco Sansovino, Le antichità di Beroso Caldeo sacerdote, et d’altri scrittori, così Hebrei, come Greci, & Latini, che trattano delle stesse materie, alla Libraria della Fortezza, Vinegia 1583, p. 19. 4. Ateneo, op. cit., VII, 283d, p. 676. Cfr. Oppiano, Della pesca e della caccia, appresso il Tartini e il Franchi, Firenze 1728, pp. 189190; Carlo Antonio Vanzon, Dizionario universale della lingua italiana, dalla stamperia di Paolo Vannini, Livorno 1838, p. 786; Eugenio Raimondi, Delle Caccie, per Labaro Scoriggio, Napoli 1626, pp. 405-406. 5. Ateneo, op. cit., VII, 282d-284d, vol. II, pp. 673, 677. 6. Ivi, VII, 317c, vol. II, p. 769. 7. Michele Lessona, Dopo il tramonto, tip. de’ Sordo-Muti, Genova 1865, p. 6; Notizia sull’Argonauta Argo del Linneo, in Memorie di matematica e di fisica della Società Italiana delle Scienze, dalla tip. Gambaretti e Compagno, Verona 1809, t. XIV, p. II, pp. 122-127. 8. Opere di Francesco Redi gentiluomo aretino e accademico della Crusca, dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1811, p. 376. 9. Filippo Arena, La natura e coltura de’ fiori fisicamente esposta in due trattati con nuove ragioni, osservazioni e esperienze, appresso Angelo Felicella, Palermo 1767, pp. 32-33. 10. Gianbattista Moratelli, Nozioni elementari di storia animale per le donne, tipografia Francesco Sonzogno, Milano 1808, pp. 267-272. 11. Novelle letterarie pubblicate in Firenze l’anno MDCCXLV, t. VI, nella stamperia della SS. Annunziata, Firenze 1795, pp. 287-288; Carlo Bonnet, Contemplazione della natura, presso Giovanni Vitto, Venezia 1781, pp. 226-248; Charles Bonnet, Considerazioni sopra i corpi organizzati dove si tratta della loro origine, del loro sviluppamento, della loro riproduzione, appresso Francesco di Niccolò Pezzana, Venezia 1781, pp. 36-45; Filippo Cavolini, Memorie per servire alla storia de’ polpi marini, s.e., Napoli 1785. 12. Vincenzo Palmieri, Analisi ragionata de’ sistemi e de’ fondamenti dell’ateismo e dell’incredulità, presso Delle Piane Stampatore della Prefettura, Genova 1811, p. 52. 13. Francesco Zanotto, op. cit., p. 798. 14. Ateneo, op. cit., VII, 283d, vol. II, p. 675. Cfr. Li tre libri di Nicolo Leonico de varie historie, nuovamente tradotti in buona lingua volgare, per Michele Tramezzino, Venetia 1544, p.109. 15. Ibidem. 16. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 34, in Giangiulio M. (a cura di), op. cit., p. 223. Cfr. François Della Motta Le Vayer, Scuola de’ prencipi e de’ cavalieri cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica e la fisica, appresso Nicolò Mezzana, Venezia 1684, pp. 220-221. 17. Giamblico, op. cit, XXVIII, 134, p. 417. 18. L’Odissea di Omero, per l’Erede di Alberto Pazzoni, Mantova 1778, p. 256. 19. Publio Ovidio Nasone, op. cit., XV, 262-272, p. 617. 20. Vincenzo Cuoco, Platone in Italia, stamperia Carmignani, Parma 1820, p. 240. 21. Opuscoli di Plutarco, cit., pp. 441-447. Cfr. Cécile Guérad, Piccola filosofia del mare. Da Talete a Nietsche, Guanda, Parma 2010; I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, RomaBari 2002. 22. Pierre Muret, Cerimonie funebri di tutte le nazioni del mondo, presso Gio. Battista Recurti, Venezia 1722, pp. 136-138. 23. Silvestro da Milano, Annali dell’Ordine de’ frati Minori Cappuccini, nella stamperia di Pietro Antonio Frigerio, Milano 1744, p. 217. 24. Antonino Mongitore, Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili che contiene quanto si è osservato di raro nel mare siciliano, suo littorale, pesci, pescagioni, cose maritime, tempeste, assorbimenti, ed inondazioni, acque, bagni, monti, grotte, terre, e pietre memorabili della Sicilia, nella stamperia di Francesco Valenza Regio Impressore della Santissima crociata, Palermo 1743, p. 21. 25. Porfirio, Vita di Pitagora, in Giangiulio M. (a cura di), op. cit., vol. II, 43-44, p. 283. Cfr. Giovanni Sole, Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. 26. Ileana Chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci, ed. dell’Ateneo, Roma 1968, p. 39. 27. Giovanni Battista Della Porta, Della magia naturale, appresso Antonio Bulifon, Napoli 1677, pp. 47-49. 28. Federigo Leopoldo di Stolberg, Storia della religione di Gesù Cristo, nella stamperia della S. Congregazione, Roma 1824, pp. 507508; Aurelio Bianchi-Giovini, Storia degli Ebrei e delle loro sette e dottrine religiose durante il secondo tempio, tip. Pirotta e C., Milano 1844, p. 321. 29. Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, Studio Tesi, Padova 1997, p. 45. Cfr. Corrado Bologna, Liber monstrorum de diversis generibus, Bompiani, Milano 1977. 30. Publio Ovidio Nasone, op. cit., II, 9-14, p. 47. 31. Plinio, Storia naturale, Einaudi, Torino 1999, vol. II, p. 301. 32. Ibidem. 33. Gulielmi Rondeletii, Libri de piscibus marinis, in quibus verae piscium effigies expressae sunt, apud Matthian Bonhomme, Lugduni 1554, pp. 491-494. Cfr. William Swainson, Discorso preliminare sullo studio della storia naturale, G. Pomba, Torino 1843, pp. 1314. 34. Olao Magno Gotho, Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali, appresso i Giunti, Venezia 1565, p. 163. 35. Antonio Vallisneri, Istoria della generazione dell’uomo e degli animali, appresso Gio. Gabbriel Hertz, Venezia 1721, p. 433. 36. Pio Rossi, Convito morale per gli etici, economici, e politici ordinato et intrecciato si della ragion di stato, come delle principali materie militari, appresso i Guerigly, Venetia 1639, p. 358. 37. Giovanni Botero, Relazioni universali divise in quattro parti. Arricchite di molte cose rare, e memorabili, con l’ultima mano dell’Autore, per li Bertani, Venetia 1671, p. 50. 38. Teodoro Albmair, I quattro elementi spiegati in venticinque discorsi, ne’ quali si ragiona delle cose principali, che nascono in essi, cioè, Delle pietre preziose; Del muschio; Dell’ambra, Del balsamo; Del zibetto; De’ metalli; De’ fiori più rari, e della coltura di essi; Dell’erbe; Degli agrumi, e del modo di moltiplicargli, e conservargli; Degli alberi; Delle frutte; Degli animali quadrupedi dimestichi, e salvatichi, De’ serpenti, e delle serpi; Degl’insetti, e altri animalazzi; Degli uccelli dimestichi, e di rapina; De’ fiumi più principali; e de’ pesci di essi; Del mare e de’ pesci, e mostri di esso; Del fuoco, e di alcuni animali, che (dicesi) vivono esso. Delle quali cose, dimostrandosi la virtù, si scoprono bellissimi segreti, all’insegna della Stella, Firenze 1668, p. 211. 39. Ortensio Lando, Commentario delle più notabili, & mostruose cose d’Italia, & altri luoghi, appresso Giovanni Bariletto, Venetia 1569, p. 9. 40. Antonino Mongitore, op. cit., p. 65. 41. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820, pp. 504-507. Cfr. Antonino Mongitore, op. cit., pp. 66-67; Benedetto Chiarello, Chimica filosofica ò vero problemi naturali sciolti in uso morale, nella stamperia di D. Antonio Maffei, Messina 1702, p. 158. Polpo libidinoso Per gli scrittori antichi, il polpo era libidinoso e le sue carni afrodisiache. In molti era diffusa la convinzione che i pesci fossero più fecondi e ingordi sessualmente degli animali terrestri. Nell’Ottocento alcuni studiosi rilevavano che nei villaggi lungo le coste, la popolazione, grazie a una dieta a base di pesce, era più prolifica di quella che viveva nelle zone interne1. In un trattato di polizia medica si legge che i pesci, alterando la costituzione del corpo umano, aumentavano la libidine e che la gran fecondità nelle città marittime dipendesse dall’eccessivo consumo di pesce. Uomini santi che vivevano in luoghi di mare, si flagellavano e si tormentavano in mille modi per reprimere le pulsioni libidinose che senza colpa si destavano in loro2! Tra tutti i pesci, quelli maggiormente lascivi e viziosi erano i polpi. Gli egiziani dipingevano un polpo per indicare un uomo incapace di staccarsi da una donna e sostenevano che solo l’erba pulicaria riuscisse a farlo desistere dal coito3. La bramosia sessuale dei polpi li spingeva ad accoppiarsi ripetutamente ed erano così insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla propria corona di tentacoli. Cicerone in una lettera, utilizza questo simbolismo quando si riferisce all’episodio di un polpo tinto di porpora e camuffato da testa di Giove, servito alla tavola di Peto Papirio4. Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume» svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale persino tra i deboli. A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che desideravano procreare figlioli, acquistavano a caro prezzo i polpi essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del Mediterraneo5. Per favorire il concepimento le donne inghiottivano pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro, coriandolo e cumino6. Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale e per gli stessi cefalopodi era causa della breve esistenza. Plinio e altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione7. Il naturalista Minasi confermava che fosse proprio la loro brama sessuale a condurli alla morte di tabe prima del compimento di due anni8. Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici9. L’arcivescovo Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il veemente coito, si debilitavano a tal punto da essere portati via dalle loro tane e divorati lentamente da fragili pesciolini10. Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le sue carni spingevano alla copula; vietava anche il consumo d’ortiche marine perché, bollite o fritte, erano anch’esse afrodisiache11. I polpi a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini12. La brama sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno all’altro, erano tirati sulla barca13. Per Freud i tabù avevano un’origine legata alla sfera sessuale. Egli sostiene che se un nevrotico ossessivo decide che mangiare qualcosa può provocargli una grave disgrazia, da quel momento rispetta rigorosamente la rinuncia: tale proibizione è la manifestazione di una situazione irrisolta, una fissazione psichica generata da un conflitto permanente tra divieto e pulsione. L’origine di questi divieti, che mutano quando l’imposizione perde la sua carica, è legata alla sessualità. Il divieto non elimina la pulsione ma la rimuove relegandola nell’inconscio. La matrice sessuale del divieto del polpo appare fin troppo evidente. I polpi erano il simbolo della libidine e della sensualità, le loro carni avevano una forza erotica che induceva gli uomini in tentazione e, poiché tale «malattia» era contagiosa, attraverso il tabù, il desiderio proibito si relegava nell’inconscio. La funzione del tabù è quella di rammentare agli uomini le pulsioni rimosse verso le quali permane una forte inclinazione; astenersi dal toccare o dal mangiare il polpo era un modo per espiare ma anche per risarcire la pulsione verso una cosa negata. Il tabù è una nevrosi privata divenuta collettiva grazie all’autorità. Il nevrotico, anche se inconsapevolmente, sceglie i suoi oggetti di contaminazione richiamandosi spesso a un patrimonio culturale comune. I tabù erano divieti antichissimi imposti in una determinata epoca a una generazione di uomini e trasmessi con la forza a quella successiva grazie all’autorità esercitata dalla famiglia e dalla società14. 1. Dizionario delle date, dei fatti, luoghi ed uomini storici o repertorio alfabetico di cronologia universale, stab. naz. di G. Antonelli, Venetia 1847, p. 795. 2. Johann Peter Frank, Sistema compiuto di polizia medica, Bertani Antonelli e C., Livorno 1836, p. 28. 3. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 352. 4. Giovanni Fabrini (a cura di), Le lettere familiari latine di M. Tullio Cicerone e d’altri autori commentate in lingua volgare toscana, appresso gli Heredi di Marchio Sessa, Venetia 1568, p. 121. 5. Paolo Giovio, Libro de’ pesci romani, Venetia, appresso il Gualtieri, 1560, pp. 181-183; Ulyssis Aldrovandi, De reliquis animalibus exanguibus, Baptistam Bellagambam, Bononiae 1606, pp. 5-6. Cfr. Francesca Lugli, Massimo Vidale, Le Gargoulettes (orci perforati) per la pesca del polpo a Gerba (Tunisia), in «Archeologia postmedievale», n. 4, ed. all’Insegna del Giglio, 2000, pp. 123-135. 6. Opere compiute d’Ippocrate, co’ tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli, Venezia 1838, p. 592. 7. Plinio, op. cit., vol. II, p. 347; Paolo Giovio, op. cit., p. 180. 8. Antonio Minasi, Dissertazione seconda su de’ timpanetti dell’udito scoverti nel granchio paguro e sulla bizzarra di lui vita con curiose note e serie riflessioni, nella stamperia Simoniana, Napoli 1775, pp. 54-55. 9. Giovanni Rho, Delle orazioni sacre, per il Balba, Venetia 1652, p. 634. 10. Olao Magno Gotho, op. cit., pp. 272-273. 11. Saverio Macrì, Memoria intorno a tre nuove specie di meduse del mar Tirreno, in Atti della Reale Accademia delle Scienze. Sezione della Società Reale Borbonica, nella Stamperia Reale, Napoli 1825, vol. II, p. 68. 12. Olao Magno Gotho, op. cit., p. 272. 13. Dizionario delle scienze naturali nel quale si tratta metodicamente dei differenti esseri della natura, considerati o in loro stessi, secondo lo stato attuale delle nostre cognizioni, o relativamente all’utilità che ne può risultare per la medicina, l’agricoltura, il commercio e le arti, per V. Battelli e comp., Firenze 1847, vol. XVIII, p. 203. 14. Sigmund Freud, Totem e tabù, Mondadori, Milano 2001, p. 27. Polpo adulatore Zenobio citava un proverbio greco in cui si diceva che l’uomo, come il polpo, deve adattarsi alle usanze del luogo e agire ora in un modo ora in un altro1. Diogeniano ne citava un altro che consigliava di adattarsi alle circostanze così come il polpo si adegua al colore della pietra su cui si avvinghia2. Clearco suggeriva al figlio Anfiloco di essere come un polpo e di conformarsi agli usi e ai costumi delle città visitate3. Odisseo Megaclide scriveva che, frequentando popoli diversi, l’uomo doveva ispirarsi al polpo che si mostra simile allo scoglio a cui si accosta4. Sofocle consigliava a una donna prossima a sposarsi di mettere da parte ogni schietto pensiero e di disporsi nei confronti del marito così come il polpo prende il colore delle rocce5. Erasmo da Rotterdam osservava che i greci dicevano «comportati come il polpo» quando esortavano un uomo ad assumere atteggiamenti mutevoli per adeguarsi alle circostanze. «Il luogo dove ci si trova rappresenta la legge», sentenziavano i saggi per ricordare che ogni popolo aveva le proprie abitudini e che, quando si era accolti, non bisognava condannare o giudicare ma, per quanto possibile, imitare e assumere le usanze e i costumi di chi dava ospitalità. Erasmo ricordava che il greco Alcibiade era stato un grande statista perché si era comportato come un polpo: ad Atene scherzava con facezie e motti arguti, allevava cavalli e viveva in modo elegante, a Sparta si radeva, si lavava con acqua fredda e portava il palio, in Tracia combatteva, mangiava e beveva smisuratamente, a Tissaferne si diede alla mollezza, ai piaceri e al fasto. Chi condannava le abitudini straniere era selvaggio, scorbutico e ignorante e lo stesso Omero apprezzava il «versatile» Ulisse capace di confrontarsi con le culture più svariate. Per Europoli l’uomo di mondo si comportava come un polpo e Plutarco, citando Pindaro, scriveva che adottando la condotta del polpo intratteneva buoni rapporti con i forestieri. I grandi uomini spesso erano stati costretti a indossare panni diversi: Ulisse mentì nella grotta di Polifemo e si vestì da mendicante per ingannare i Proci, Bruto finse di essere stolto, Davide diede l’impressione d’essere folle e l’apostolo Paolo si servì dell’astuzia per evangelizzare gli ebrei6. Nell’apologetica cristiana il polpo era, invece, indicato come metafora del male e paragonato al demonio perché, grazie all’abilità nel travestirsi, circuendo le anime ingenue con lusinghe, le avvolgeva nei tentacoli, le soffocava e le divorava7. Il polpo era immondo ed empio in quanto si occultava abilmente per provocare la morte altrui e detestabile perché nuotava nelle limacciose acque dei fondali8. Libidinoso e vorace, frutto della metamorfosi diabolica, era l’immagine di ciò che sarebbe accaduto agli uomini se avesse trionfato l’Anticristo, un monito per i cristiani affinché non si lasciassero sopraffare dalla materialità e dalle passioni. Il gesuita Salas ricordava che Gesù Cristo, durante la peregrinazione sulla terra, non aveva mutato le sue idee neanche di fronte alla morte e che i profeti della buona novella non avevano mai ossequiato i sovrani alla maniera dei polpi che assumono il colore degli scogli ove sono attaccati9. Sant’Ambrogio mostrava il polpo come simbolo di piaceri, lussuria e carnalità e san Basilio ne faceva l’emblema dell’adulazione. I predicatori lo additavano come personificazione di tentazione e perfidia: assumendo i colori dell’ambiente circostante mutava lesto per ottenere vantaggi e compiere nefandezze e, grazie all’abilità nel travestirsi, si aggirava pericolosamente per corrompere gli animi10. San Girolamo paragonava gli eretici agli octopus poiché sotto false vesti raggiravano gli ingenui fedeli cristiani per allontanarli dalla fede e dalla salvezza11. Uomini col cappuccio si muovevano dolcemente come i polpi ma, quelle vesti, celavano traditori simili a Giuda Iscariota, diavoli che al pari dei cefalopodi erano privi di cuore12. Aresi, vescovo di Tortona, paragonava il polpo alle donne. I latini lo chiamavano pesce molle per la morbidezza delle sue carni ma con i potenti tentacoli stringeva e soffocava le vittime, proprio come quelle donne senza scrupoli che, fingendo di amare, depredavano i poveri malcapitati. Il polpo simboleggiava le femmine ingorde che, dopo avere intenerito con vezzi e carezze il più duro dei cuori, lo spolpavano senza pietà; che abbandonavano le proprie famiglie per andare in giro senza vesti a caccia di nuove prede; che dopo aver succhiato con bocca vogliosa il sangue delle vittime, le disprezzavano e le lasciavano; che entrando di notte nelle case altrui arraffavano il cibo apparecchiato per gli altri. I maschi, se catturati dalle donne assatanate, dovevano recidere i loro «tentacoli» senza esitazione, proprio come facevano gronghi e murene con i polpi13! 1. Zenobio, Epitome della raccolta di Didimo e del Terreo ordinata alfabeticamente, I, 24, in Lelli E. (a cura di), I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e Diogeniano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 75. 2. Diogeniano, Proverbi popolari, I, 23, in Lelli E. (a cura di), op. cit., p. 253. 3. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769. 4. Ivi, XII, 513e, vol. III, p. 1275. 5. Ivi, XII, 513d, vol. III, p. 1276. 6. Erasmo da Rotterdam, Adagia, Salerno editrice, Roma 2010, pp. 89-101. 7. Luigi Polidori, Del pesce come simbolo di Cristo e dei cristiani, dalla tip. Boniardi-Pogliani, Milano 1843. 8. Battista Gallicciolli (a cura di), Lettera universale di San Barnaba apostolo. Traduzione dal greco, dalla tip. di Antonio Curti, Venezia 1797, p. 109. 9. Luigi Salas, La cattività de’ Giudei in Babilonia, stamperia degli Eredi di Alessio Pellecchia, Napoli 1759, p. 6. 10. Carlo Gregorio Rosignoli, Opere spirituali e morali. Meraviglie della natura, ammaestramenti di moralità, nella stamperia Baglioni, Venezia 1723, vol. II, p. 20; Pierre Denys de Montfort, op. cit., p. 452. 11. Paolo Biscioli, Tre discorsi sopra la lettera di Baruc profeta scritta à gl’Ebrei captivi in Babilonia. Ne i quali s’applicano le maligne qualità de gl’idoli, e de l’idolatria, à gl’eretici, & eresia, per Baldasar Arcione, Como 1620, p. 55; Carlo Gregorio Rosignoli, op. cit., p. 20. Cfr. Giulio Cesare Capaccio, Trattato delle imprese, appresso Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, Napoli 1592, p. 42; Emanuele Tesauro, La filosofia morale derivata dall’alto fonte del grande Aristotele stagirita, appresso Nicolò Mezzana, Venetia 1673, p. 260. 12. Antonio Vieira, Seconda parte delle prediche, a spese di Gio. Battista e Giuseppe Corvi, Roma 1686, p. 291; Ferdinando Zucconi, Lezioni sacre sopra la Divina Scrittura, nella stamperia Baglioni, Venezia 1724, p. 144. 13. Paolo Aresi, Imprese sacre con triplicati discorsi illustrate & arricchite, presso Giacomo Sarzina, Venetia 1629, pp. 435-469. Polpo avido e tiranno Per definire un balordo, Alceo scriveva che era uomo sciocco e aveva il cervello di un polpo1. Ateneo, Aristotele e Clearco giudicavano stupido il polpo poiché, malgrado fosse dotato d’astuzia, a volte si lasciava catturare facilmente dal nemico2. Plinio scriveva che il polpo era considerato talmente tonto da nuotare verso la mano del pescatore, ma in realtà era un animale intelligente, capace di districarsi nei labirinti e usare ogni artificio per difendersi o procurarsi il cibo3. Eliano e Teognide di Megara annotavano che i polpi si acquattavano sotto le rocce e ne assumevano il colore così da sembrare anch’essi rocce: i pesci si avvicinavano a loro credendoli scogli e, impreparati a un attacco, erano fatti prigionieri4. Giovio confermava che il polpo era molto intelligente poiché durante la caccia escogitava vari trucchi per impossessarsi della preda. I pescatori raccontavano che il cefalopode poneva tra le valve delle ostriche una pietra per impedire loro di chiudersi e poterle mangiare; quando stava per soccombere lanciava l’inchiostro contro gli inseguitori per disorientarli e si trascinava spesso sulla terra per depredare i frutti degli alberi5. Un guerriero doveva essere forte ma anche astuto e il polpo era un animale scaltro, intelligente e versatile poiché, trasformandosi meglio di un camaleonte, scherniva le insidie degli avversari; si aggirava placidamente tra gli scogli ma, nel momento del bisogno, sfrecciava rapido nell’acqua, staccava i tentacoli per sfuggire al nemico e schizzava inchiostro per oscurare il campo di battaglia6. Il polpo usava l’astuzia per evitare il rivale ma non si sottraeva alla battaglia e si lasciava uccidere piuttosto che scappare. I suoi otto tentacoli dotati di potenti ventose erano forti come le braccia di Ulisse aggrappato allo scoglio per non essere trascinato via dai potenti flutti7. I pescatori raccontavano che quando afferrava una preda la stritolava con vigore e solo la ruta riusciva a immobilizzarlo o spaventarlo8. Da alcuni scrittori i polpi erano indicati come tra i più feroci abitatori delle acque, robusti e coraggiosi al punto da attaccare addirittura gli uomini9. I polpi giganti erano talmente forti da battersi anche contro un leone o da combattere in aria con un’aquila, farla precipitare nell’acqua e mangiarla10. Fermi sulle rocce apparivano tranquilli, ma stimolati dall’appetito o minacciati, montavano in furia, il corpo fremeva, la pelle s’increspava, gli occhi diventavano carboni ardenti e le «braccia» armate si muovevano minacciosamente11. Il polpo era vorace e si scagliava con avidità su tutto ciò che potesse satollarne la fame: come una tigre beveva il sangue delle vittime e ne disdegnava la carne, si lanciava sulle prede con balzi per soffocarle, uccideva molto più di quello che mangiava12. Diquemarre sosteneva che il polpo negli scontri si batteva sino alla morte e notò che, anche gravemente ferito, non mollava mai la preda. A causa dell’intensa cupidigia uccideva in maniera spietata anche quando non aveva fame e non era aggredito13. Non aveva rivali nei fondali rocciosi, uno dei pochi animali che riusciva a sconfiggerlo era la murena. Oppiano scriveva che il polpo tentava di avvolgerla e stringerla con i lacci dei tentacoli ma, grazie al corpo liscio, la murena si liberava dalla morsa e con la terribile mascella dai denti aguzzi, lo lacerava e ne faceva banchetto14. Si raccontavano diverse storie su vitalità e forza dei polpi. Lungo il litorale di Palermo detto Espera, un esperto pescatore che voleva dare prova di maestria, trasse un gran polpo dalla tana con un uncino ma il mollusco gli si avventò contro avvincendo con i tentacoli il collo per affogarlo15. Tartaro, il feroce alano irlandese di Bulifon, fu aggredito da un polpo gigantesco che «russava» con forza, vibrava vigorosi colpi di frusta e, nonostante fosse ferito, riuscì a trascinare il cane tra gli scogli. Lo studioso scriveva che quell’animale gli era parso tanto feroce nell’avventarsi sulla preda che avrebbe preferito domare una tigre anziché addomesticare un polpo16. Il polpo era un astuto e forte guerriero ma superbia, avarizia e voracità spesso lo conducevano alla morte. Ghiotto d’olive, andava a mangiarle sugli alberi e i pescatori, conoscendo questa sua golosità, calavano una fronda d’ulivo nelle acque alla quale il mollusco ingordamente si avvinghiava sino a essere tirato sulla barca. A volte usciva di notte per andare a saccheggiare i pesci salati e i salumi conservati nei magazzini ma finiva per essere ucciso dai guardiani che lo appostavano con zappe, asce e forconi17. Eliano racconta che aveva uno stomaco prodigioso e una tale voracità da sbranare, in caso di fame, persino i propri piccoli18. Oppiano annotava che durante le tempeste, acquattato nella tana, per soddisfare la fame mangiava i propri tentacoli come fossero carni altrui19. Gli egiziani solevano dipingere il polpo con i piedi tronchi poiché il mollusco, quando non era in grado di trovare cibo, si pasceva dei propri tentacoli20. Esiodo e Ferecrate confermavano che i polpi vivevano d’olive selvatiche e, nelle giornate rigide e senza sole, per sfamarsi rodevano le braccia che poi ricrescevano21. Difilo raccontava a un amico di un polpo con tutti i tentacoli integri poiché non aveva divorato se stesso e in una commedia Giovambattista della Porta faceva dire a Morfeo: «Avrei preferito che la natura mi avesse fatto polpo così nella gran fame avrei mangiato le mie braccia!»22. Il polpo mangiava se stesso come aveva fatto Erisictone, re della Tessaglia, uomo empio che non temeva la collera degli dei. Ovidio racconta che il re profanò un recinto sacro a Cerere nel quale si ergeva una gigantesca quercia votiva. L’uomo ordinò ai servitori di tagliare la pianta sacra e, poiché questi esitavano, strappò dalle mani di uno loro la scure e vibrò decisi colpi contro l’albero fino ad abbatterlo. Per punirlo, Cerere stabilì una pena esemplare: sarebbe stato divorato dalla terribile Fame. Erisictone fu così preda della smania di mangiare da richiedere una quantità di vivande che avrebbe sfamato un popolo intero. Alla fine, consumate tutte le risorse, sventurato cominciò a rosicare il proprio corpo23. Il polpo era considerato un animale rapace e paragonato dagli antichi a un sovrano insaziabile che con i suoi tentacoli arraffava tutto, un essere talmente ingordo che andava a saccheggiare persino i frutti degli alberi24. Gli Egiziani solevano dipingere un polpo per indicare un uomo che non aveva rispetto per le cose utili, era occupato unicamente ad accumulare robe e divorava avidamente ogni cosa25. L’octopus aveva quel piacere soverchio del goloso che mangiava squisite vivande ed era privo di quello stesso piacere perché, nella continua ricerca di nuovi sapori, consumava e gettava via i cibi senza gustarli. Simbolo dell’ingordigia era una donna vestita di color ruggine che nella mano sinistra teneva un polpo: il color ruggine era dato dal fatto che divorasse anche il ferro e il polpo perché, in mancanza di cibo, si nutriva della sua stessa carne26. Il polpo era rappresentato come un animale immondo e non a caso, come si legge in un dizionario del Settecento, i pescatori lo classificavano nella razza «bestina»: pesci viscidi, orridi e puzzolenti che camminavano lentamente e vivevano nella melma, a differenza dei pesci «nobili» che con le pinne nuotavano in acque alte e pulite27. Capaccio scriveva che nel mondo antico coloro che usavano il tempo solo per accumulare ricchezze erano paragonati al polpo che depredava e serbava tutto nella spelonca28. Nei geroglifici la seppia rappresentava un uomo che mancava alla parola data, mentre il polpo simboleggiava il principe tiranno che angariava il popolo con arroganza29. Secondo Mirabella, sulla moneta d’argento della Repubblica di Siracusa, la figura di un polpo da un lato e di donna dall’altro, rappresentava l’eterna lotta tra tirannia e repubblica. Il polpo, in quanto incarnazione di vizi immondi e odiosi, raffigurava il dispotismo del tiranno Dionigi, che per anni aveva vessato i Siracusani30. L’octopus era indicato come un simbolo negativo da oratori e filosofi che predicavano temperanza e moderazione. Pitagora ricordava ai concittadini che occorreva estirpare con ferro, fuoco e ogni altro mezzo la dismisura delle cose: alla logica distruttiva dell’eccesso, contrapponeva la logica costruttiva dell’equilibrio31. Giamblico annotava che per i pitagorici l’uomo non doveva essere libero di fare ciò che voleva perché, abbandonato a se stesso, cadeva nella malvagità e nel vizio32. La vita dissoluta portava alla rovina e le guerre non recavano così tante morti quanto la gola: l’uomo doveva mangiare per vivere e non vivere per mangiare, l’astinenza era madre della santità e l’intemperanza del demoniaco. Nel mondo popolare, un uomo arrogante e avido lo si chiamava «polpo» poiché con i suoi tentacoli arraffava tutto avidamente33. A Venezia chiamavano «folpo» una persona goffa, tozza e malfatta mentre in Sicilia si chiamava «purpu» chi era senza cuore e interessato solo ai suoi beni34. Nel 1432, dopo l’omicidio del gran siniscalco Sergianni Caracciolo a opera di Pietro Paganiani, i ragazzi napoletani cantarono per le vie della città una canzone dal ritornello: «Morto è lo pulpo e sta sotto la preta, morto è ser Janne figlio de poeta». Sergianni era odiato dal popolo a causa della tendenza ad agire in modo scellerato per i propri fini35. Il colonnello Filippo Nardoni, cavaliere e segretario della gendarmeria pontificia nel governo di Pio IX, accusato dai romani di turpitudini, vizi e scelleratezze, era chiamato dalla plebe «polpo» perché usava il potere per arraffare tutto quello che poteva ed egli stesso nelle lettere, amava firmare con tale nomignolo36. Gli uomini accecati da egoismo, avarizia e cupidigia avrebbero, tuttavia, fatto una brutta fine. Nei geroglifici il polpo era scolpito o dipinto anche per rappresentare il condottiero che a causa dell’egoismo non aveva conservato le sue conquiste e il sovrano che per insaziabile avidità dilapidava tutti gli averi37. «O ppurpo se coce comme co ll’acqua soja» si sentenziava a Napoli per indicare che la persona avida si castigasse da sé, mentre si diceva «comme a ppurpo lo vatte» per le persone che non si «cocevano» bene se prima non erano battuti con una canna38. Un lucerniere di bronzo trovato a Pompei rappresenta un polpo intento a consumare la preda, un delfino che sta per piombargli addosso e un amorino che sembra difenderlo perché simbolo dei piaceri. Il polpo nella scultura è l’emblema dello scellerato che proprio nel momento del delitto pagava il suo misfatto39!. Ancora oggi, il polpo è simbolo degli uomini che avvolgono la società, dell’alta finanza che strozza e annichilisce i popoli senza pietà, della mafia tentacolare che controlla il territorio, delle sette occulte che cospirano minacciosamente. Gli ebrei, nonostante aborrissero i cefalopodi perché impuri e immondi, sono stati sempre paragonati a giganteschi polpi che con i tentacoli ghermiscono il mondo. In Sardegna i pescatori chiamavano «pruppu bonu» o «pruppu veru» il polpo verace, mentre «pruppu giudeu» quello rosso e meno pregiato40. Nazisti e fascisti associavano gli ebrei alle piovre che, mutando colore, erano capaci di confondersi tra la gente per succhiarne il sangue e vivere alle spalle altrui. Gli ebrei divennero il simbolo dell’anticristo, una minaccia per l’umanità da sopprimere senza pietà. Piovra mostruosa e gigantesca era definita anche la Massoneria che, tramite i tentacoli delle logge segrete, s’insinuava nei gangli più importanti sino a controllare l’intero mondo. Alla fine dell’Ottocento un giornale cattolico scriveva che la comunità dei cristiani era simile a una nave assalita da un mostruoso cefalopode dalla testa mostruosa, due occhi ciclopici in fronte e otto tentacoli disseminati di ventose; la bestia, dopo averla avviluppata e stretta, provava a capovolgerla e affogarla: questo «polpo gigante» era la Massoneria41! 1. Ateneo, op. cit., VII, 316b, vol. II, p. 766. 2. Ivi, VII, 316b-317c, vol. II, pp. 766-769. 3. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345. 4. Eliano, Storie varie, I, Adelphi, Milano 1996, p. 33; Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768. Cfr. Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 37-38. 5. Paolo Giovio, op. cit., p. 180. 6. Sigismondo Negrelli, Alcuni panegirici sacri, appresso Andrea Poletti, Venezia 1707, p. 356. 7. Odissea di Omero tradotta da Ippolito Pindemonte, presso Gaetano Schierati, Milano 1830, p. 102; Odissea, Einaudi, Torino 1995, vv. 432-440, pp. 152-153. 8. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 46; Cesare Ripa, Iconologia nella quale si descrivono diverse imagini di virtù, vitij, affetti, passioni humane, arti, discipline, humori, elementi, corpi celesti, provincie d’Italia, fiumi, tutte le parti del mondo, ed altre infinite materie, appresso gli Heredi di Matteo Florimi, Siena 1613, p. 99. 9. Giuseppe Virey, Storia dei costumi e dell’istinto degli animali con una metodica e naturale distribuzione di tutte le classi, nella tipografia di Pietro Bizzoni, Pavia 1826, p. 195. 10. Le opere di Buffon nuovamente ordinate ed arricchite della sua vita ed un ragguaglio dei progressi della storia naturale dal MDCCL in poi dal conte di Lacépéde, al negozio di libri all’Apollo, Venezia 1824, pp. 353-358; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 7; 3334. 11. Le opere di Buffon, cit., p. 389. 12. Melchiorre Gioia, Esercizio logico sugli errori d’ideologia e zoologia ossia arte di trar profitto dai cattivi libri, coi tipi di Giovanni Pirotta, Milano 1824, pp. 204-205. 13. Emanuele Kant, Geografia fisica, dalla tip. di Giovanni Silvestri, Milano 1808, vol. II, pp. 168-169. 14. Oppiano, op. cit., pp. 255-260. Cfr. Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 26-28; Nicolai Parthenii Giannettasi, Halieutica, ex officina Jacobi Raillard, Neapoli 1689, pp. 61-63. 15. Antonino Mongitore, op. cit., p. 89. 16. Le opere di Buffon, cit., pp. 362-363; 381. 17. Giovanni Rho, op. cit., p. 639. 18. Eliano, op. cit., p. 33. 19. Oppiano, op. cit., p. 255; Cfr. Dizionario delle Scienze naturali, vol. XVIII, Battelli e Comp., Firenze 1817, pp. 203-204. 20. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 349. 21. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Le opere di Esiodo, Ferdinando Baret, Milano 1815, p. 74. 22. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Giovambattista De La Porta, La fantesca, in Commedie di Giovambattista De La Porta napoletano. L’olimpia, la fantesca, la tabernaria, la carbonara, nella stamperia a spese di Gennaro Muzio, Napoli 1726, p. 37. 23. Publio Ovidio Nasone, op. cit., VIII, 738-878, pp. 331-339. Cfr. Biografia universale antica e moderna. Parte mitologica, ossia storia, per ordine d’alfabeto, de’ personaggi, de’ tempi eroici e delle deità greche, italiche, egizie, indiane, giapponesi, scandinave, celtiche, messicane, ecc., presso Gian Battista Missiaglia, Venezia 1838, vol. II, pp. 8-9. 24. Giovanni Rho, op. cit., p. 635. 25. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 349. 26. Cesare Ripa, Iconologia overo descrittione di diverse immagini cavate dall’antichità, & di propria invenzione, trovate e dichiarate, Appresso Lepido Facij, Roma 1603, p. 232. 27. Abate D’Alberti di Villanuova, Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana, nella stamperia di Domenico Marescandoli, Lucca 1797, t. I, p. 254. Cfr. Benedetto Frizzi, op. cit., p. 42. Cfr. Basilio Puoti, Vocabolario domestico napoletano e toscano, dalla stamperia del Vaglio, Napoli 1850, p. 359. 28. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 10. 29. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 350; Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 13; Ferdinando Cospi, Museo Cospiano annesso a quello del famoso Ulisse Aldrovandi, per Giacomo Monti, Bologna 1677, p. 410; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 30-32. 30. Vincenzo Mirabella, op. cit., pp. 41-43. 31. Porfirio, op. cit., 22, p. 269. Cfr. Antonio Cocchi, Del vitto pitagorico per uso della medicina, Napoli, Venezia, appresso Simone Occhi, Napoli 1744; Vincenzo Corrado, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de’nobili e de’ letterati, Napoli, nella stamperia dei fratelli Raimondi, Napoli 1781; Discorsi di Luigi Cornaro intorno alla vita sobria. L’arte di godere della sanità perfetta di Leonardo Lessio e discorso di Antonio Cocchi sul vitto pitagorico, per Giovanni Silvestri, Milano 1841. 32. Giamblico, op. cit., 203, p. 467. 33. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 13. 34. Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, tip. di Giovanni Cecchini, Venezia 1856, p. 278; Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Stamperia di Pietro Pensante, Palermo 1853, p. 693. 35. Augusto di Platen, Storia del Reame di Napoli dal 1414 al 1443, presso l’editore Alberto Dekten, Napoli 1864, p. 160; Giulio Petroni, Del gran palazzo di giustizia a Castel Capuano in Napoli, stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1861, p. 10. 36. Aurelio Angelo Bianchi-Giovini, La corte del papa. Memorie di un carabiniere, tip. Sarda di Calpini e Cotta, Torino 1859, p. 104. 37. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 350; Sebastiano Erizzo, Discorso sopra le medaglie de gli antichi. Con la dichiaratione delle monete consulari, & delle medaglie de gli imperadori romani. Nella qual si contiene una piena & varia cognitione dell’istoria di quei tempi, appresso Giovanni Varisco & Compagni, Vinegia 1571, p. 229. 38. Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime degli Accademici Filopatridi, presso Giuseppe Maria Porcelli, Napoli 1789, p. 51. 39. Bernardo Quaranta, Memoria sopra un licnuco pensile di bronzo dissotterrato in Pompei, in Memorie della Reale Accademia Ercolanese di Archeologia, dalla Stamperia Reale, Napoli 1856, vol. VIII, pp. 281- 312. 40. Atti del Comitato Direttivo della Prima Esposizione Sarda, Cagliari, tip. ed. dell’Avvenire di Sardegna, Cagliari 1872, pp. 139140. 41. Civiltà cattolica, Anno quarantesimoprimo, Alessandro Befani, Roma 1890, vol. VII, p. 401. Polpo mostro La figura del polpo era molto apprezzata nel mondo antico: l’animale campeggiava, infatti, su vasi, monete, quadri e gioielli1. In bellissimi mosaici erano riprodotti octopus con lunghi tentacoli che si libravano nell’acqua, aggredivano ostriche e aragoste, combattevano con murene o erano attaccati dai delfini. In una moneta di Taranto si scorge Nettuno a cavallo di un delfino che afferra con la mano destra il tridente e con la sinistra un polpo; in un’altra medaglia il dio del mare ha il polpo in una mano e nell’altra un delfino con una conchiglia. In due monete di Siracusa, una di rame e una d’oro, su una faccia è rappresentato un polpo e sull’altra la testa di una donna velata2. Il polpo non suscitava paura e ripugnanza, non era spaventoso né terribile e gli studiosi ne rimarcavano il carattere solitario, timido e pauroso. Aristotele scriveva che l’octopus possedeva otto braccia con due filiere di ventose per mezzo delle quali assumeva il cibo e che proprio grazie all’abitudine di gettare fuori dalla tana i gusci dei piccoli bivalvi di cui si nutriva, i pescatori riuscivano a scovarlo. Maschio e femmina si accoppiavano d’inverno avviluppandosi l’uno all’altro e, durante la copula, il maschio deponeva il seme attraverso un condotto detto «sifone». La femmina generava uova a grappoli in primavera e rimaneva a covarle nella tana, difendendole fino alla schiusa da possibili predatori3. Come gli altri cefalopodi, i polpi avevano due denti vicino alla bocca e, in luogo della lingua una parte carnosa con la quale gustavano i cibi. Dalla cavità orale partiva un lungo esofago, cui faceva seguito un gozzo simile a quello degli uccelli e, subito dopo lo stomaco, un intestino fino all’orifizio. Per potersi difendere i molluschi avevano il cosiddetto «inchiostro», raccolto in una tasca membranosa, con la quale intorbidivano l’acqua per farsene scudo. Se l’inchiostro della seppia era nero e abbondante perché era unico strumento di difesa, il polpo schizzava inchiostro rossastro in quantità minore, potendo utilizzare i tentacoli o cambiare colore4. Aristotele notava che i cefalopodi, privi di sangue, erano freddi e paurosi e, se spaventati, restavano immobili emettendo «residui» e alcuni, come il polpo, erano capaci di mimetizzarsi5. Nonostante le rassicurazioni degli esperti, alcuni scrittori del mondo antico indicavano il polpo come uno degli animali più pericolosi. Secondo Trebio Nigro non vi era pesce più spietato nell’uccidere poveri naufraghi o nuotatori: li afferrava con le otto braccia, li soffocava e li svuotava con le ventose6. Plinio racconta che a Carteia un polpo usciva dalle acque per saccheggiare i pesci salati conservati dai marinai in grandi vasche vicino alla costa. Non sapendo chi fosse il ladro, i guardiani costruirono degli sbarramenti intorno al fabbricato che l’astuto e vigoroso animale superava salendo su un albero. Una notte, mentre ritornava al mare, il polpo fu circondato dai cani e i pescatori capirono che fosse il ladro a causa dell’orrendo fetore che emanava imbrattato com’era di salamoia. Di dimensioni gigantesche, iniziò a colpire le bestie con i poderosi tentacoli e a fatica fu ucciso con armi taglienti. La testa, mostrata a Lucullo, aveva la grandezza di una botte capace di contenere 15 anfore, e i tentacoli, che a malapena si stringevano con entrambe le braccia, erano lunghi 30 piedi e forniti di ventose grandi come catini e della capacità di un’urna. I resti pesavano complessivamente 700 libbre7! La storia del polpo che usciva dalle acque e passeggiava indisturbato nei villaggi era un topos utilizzato da diversi autori. Eliano, ad esempio, narra che a Pozzuoli un gigantesco polpo, penetrando attraverso una condotta sotterranea usata per scaricare in acqua l’immondizia, saccheggiava le derrate dei magazzini di alcuni mercanti iberici. I pescatori che si accorsero del furto, non sapendo spiegare l’accaduto – la porta del fabbricato non era forzata, né le mura erano sfondate – decisero di nascondersi per sorprendere il ladro. La notte seguente, un guardiano vide arrivare nel magazzino un polpo gigantesco che, rotti i vasi con i tentacoli, si mise a divorarne il contenuto. Terrorizzato dal mostruoso animale, l’uomo non lo affrontò ma raccontò l’accaduto ai compagni che decisero di appostarsi in gruppo il giorno seguente: quando il polpo entrò nei magazzini, serrarono la condotta e con falci e coltelli, a guisa di potatori di vitigni, tagliarono i tentacoli e uccisero l’animale8. Gli scrittori erano concordi nell’affermare che il polpo dalla fame insaziabile spesso usciva dalle acque per arrampicarsi sugli alberi d’ulivo e cogliere i frutti di cui era particolarmente ghiotto. Oppiano racconta che l’octopus camminava spavaldamente, si avvinghiava all’albero di Minerva, mangiava avidamente tutte le olive e, una volta satollo, tornava soddisfatto nelle acque. Era così goloso d’olive che bastava immergere un ramo della pianta nelle acque dove pascevano per tirarne su diversi aggrappati al ramo9. Ateneo conferma che i polpi uscivano spesso dal mare ed era possibile vederli avvinghiati agli ulivi mentre, con i lunghi tentacoli, raccoglievano i frutti10. Clearco, invece, sosteneva che i polpi fossero particolarmente ghiotti di fichi e che d’estate fosse possibile vederli impegnati a raccoglierli dagli alberi vicino al mare11. Questi racconti furono confermati da altri scrittori nei secoli seguenti. Il polpo, spinto da una fame insaziabile, si recava sulla terra e Dicquemare lo vide addirittura uscire dalle finestre, arrampicarsi sulle muraglie e salire sopra i tetti per far razzie12. Giovio scriveva che il polpo se ne stava sugli scogli a prendere il sole e spesso, spinto dalla sua voracità, si trascinava lungo il litorale, saccheggiava le piante ed entrava nelle case per razziare le dispense13. Serpetro annotava che i polpi si saziavano di tutto ciò che trovavano sottomano e, spesso, si arrampicavano sugli alberi da frutto o, attratti dall’odore, si avvicinavano ai pescatori impegnati ad arrostire pesci sulla spiaggia14. Nell’Ottocento, in un trattato sui cefalopodi, il naturalista francese Pierre Denys de Monfort, riportò diversi racconti su polpi mostruosi che aggredivano e affondavano le navi. Lo spunto della poderosa ricerca sembra sia stato un dipinto conservato in una chiesa di SaintMalo. Il quadro ritraeva la lotta tra la ciurma di una nave e un gigantesco mostro ed era stato commissionato dagli stessi marinai come ex voto per essere scampati alla terribile avventura. Il polpo colossale descritto dallo studioso era un animale malefico con un’attitudine alla distruzione ma, ancora più spaventoso, era il kraken o «pesce montagna», l’essere più maestoso della terra. Lungo centinaia di metri, dotato di tentacoli più grossi degli alberi di una nave e coperto da alghe marine, era spesso scambiato dai naviganti come una piccola isola galleggiante. Polpi giganteschi e kraken erano stati avvistati in alcune parti del mondo tanto che viaggiatori e marinai raccontavano di essere sfuggiti miracolosamente alle loro grinfie miracolosamente o dopo battaglie estenuanti15. Denys de Montfort fu deriso dai colleghi per i suoi racconti e lo stesso Kant muoveva seri dubbi sull’esistenza del kraken, essere mostruoso della lunghezza di un quarto di miglio che con braccia grandi come tronchi trascinava i navigli negli abissi16. Alcuni studiosi, definendo racconti «favolosi» le testimonianze sui polpi grandi come cetacei e capaci di rovesciare una nave, precisavano che in mare vivevano solo alcuni polpi abbastanza grandi da avvolgere un uomo con i tentacoli17. I racconti di pescatori e marinai su polpi dalla dimensione di un’isola erano certo delle farneticazioni, ma le narrazioni del naturalista francese influenzarono così diversi scrittori che persino in alcuni dizionari scientifici era possibile leggere che negli oceani vivevano kraken spaventosi e di smisurata grandezza18. Non sappiamo se Denis de Montfort credesse all’esistenza dei polpi montagna ma, secondo Lessona, si divertiva pensando alla credulità dei lettori. «Se il mio kraken è preso sul serio», diceva a un amico, «la prossima volta lo metterò con i piedi che toccheranno dall’una all’altra sponda dello stretto di Gibilterra»; ad un altro compagno confessava che se i lettori si erano convinti dell’esistenza del polpo colossale che avvolgeva un bastimento, nella seconda edizione gli avrebbe fatto avvinghiare un’intera flotta19. Polpi, kraken e piovre affascinarono tuttavia alcuni romanzieri francesi che raccontarono storie avvincenti e fantastiche. Michelet scriveva che i polpi non uccidevano per nutrirsi ma per il solo desiderio di distruggere ed erano talmente potenti da mettere in pericolo la stessa natura20. Hugo narrava la terribile lotta tra Gilliat e un polpo che chiamava «piovra», una bestia ripugnante che rappresentava la somma di tutti gli orrori, testimonianza negativa del dio creatore, la prova dell’esistenza di Satana21. Verne descriveva la lotta del capitano Nemo contro un misterioso mostro marino somigliante a un polpo che affondava le navi con gli immensi tentacoli22. Il Conte di Lautréamont scriveva che il polpo Maldoror era così maestoso da abbracciare con i tentacoli un pianeta23. Dumas annotava che polpi antidiluviani infestavano le acque del Mediterraneo, avvolgevano gli uomini facendo loro subire le pene dell’inferno e, pericolosi quanto i serpenti di mare, attaccavano e affondavano le navi con le loro lunghe braccia armate di ventose24. Questi autori descrivono il polpo come un essere votato alla carneficina e all’annientamento, la minaccia più grande per gli uomini costretti a frequentare il mare. Il fatto che l’octopus fosse lontano dal loro orizzonte culturale, secondo Caillois ha facilitato le fantasticherie dei francesi. Racconti di polpi giganteschi che avvolgevano grandi vascelli, di pescatori che tagliavano con le asce i tentacoli o di marinai che li infilzavano con arpioni in un mare nero e tempestoso, attraevano l’attenzione del pubblico. Da sempre considerato più commestibile che temibile, il polpo, grazie alla fervida immaginazione, fu trasformato in un mostro capace di suscitare un orrore iperbolico25. Il polpo innocente e ornamentale, a volte prudente e a volte sensuale, presentato da alcuni scrittori antichi, lasciava il posto a un mostro gigantesco, espressione del male assoluto, protagonista della nuova mitologia popolare. Questo mollusco fu improvvisamente oggetto di un’attenzione sproporzionata in quanto dotato di caratteristiche capaci di agire sull’immaginazione con eccezionale efficacia. Il successo che il polpo ebbe tra i lettori dei romanzi di Hugo, Verne, Dumas non era accidentale, era come se la sua figura dormisse nell’immaginazione umana e aspettasse il momento di venire a galla26. Secondo Caillois, uno degli aspetti del polpo capace di stimolare la fantasia dei romanzieri e dei lettori, era lo sguardo commovente o terribile. Gli occhi umani del mollusco, nei quali ognuno vedeva a piacere inquietudine o ferocia, tristezza o fermezza, esercitavano una forte seduzione. Il polpo sembrava essere una sorta di Medusa con occhi profondi in grado di pietrificare e ipnotizzare le vittime27. Con la testa incappucciata e lo sguardo penetrante ricordava il torturatore di una setta misteriosa, grazie ai tentacoli a raggiera somigliava a un anemone carnivoro che minacciosamente si apriva e si chiudeva, la sua pelle vischiosa lo rendeva simile a un ragno le cui zampe costituivano la ragnatela, con le orride ventose sembrava un essere vellutato bevitore di sangue umano28. Per Caillois, il polpo rispondeva positivamente alle sfide titaniche che pervadevano i sentimenti di molti romantici dell’Ottocento. La nuova sensibilità spingeva a considerare con occhio avido quell’animale sconosciuto e a estasiarsi davanti alla sua maestosa ripugnanza: era una figura bestiale e primigenia, figlia del male e del demoniaco contro cui combattevano eroi animati da grandi ideali e spirito di sacrificio. Le osservazioni di Caillois sono giuste ma il kraken non è un’invenzione dell’Ottocento. Lessona scriveva che poeti e filosofi antichi consideravano l’octopus un animale piacevole, elegante, leggiadro, grazioso e intelligente ma altri lo avevano descritto come un essere spaventoso e malefico che ispirava orrore e ribrezzo29. Nelle leggende dei villaggi marini il polpo è stato sempre considerato come un animale cattivo e solo in una si mostra amico dell’uomo. Si narra che a Tellaro, un borgo fortificato del golfo di La Spezia, quando nel 1660 di notte i saraceni stavano per sbarcare sulla costa, un gigantesco polpo uscì dalle acque, si arrampicò lungo il campanile e con i tentacoli suonò energicamente le campane della chiesa di San Giorgio per svegliare gli abitanti. Lessona ricordava che menzionando uno di questi animali feroci, Plinio sosteneva che pesasse 350 chilogrammi, avesse braccia lunghe dieci metri e una testa grande come una botte di quindici anfore. Olao Magno raccontava le gesta di un polpo colossale lungo almeno un miglio e Bartolino riferiva che il vescovo di Nidaros aveva confuso uno di questi giganteschi animali con un’isola e, improvvisato un altare, vi aveva celebrato sopra addirittura la messa. Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, sosteneva che vi erano kraken talmente grandi che sul dorso avrebbe potuto manovrare un reggimento di soldati, mentre Sonnini narrava di un cefalopode che con i tentacoli aveva avvolto con facilità un bastimento30. Polpi giganteschi e malefici che emergevano silenziosamente dagli abissi e avvinghiavano i bastimenti in una stretta fatale con i tentacoli armati da formidabili ventose, furono descritti anche prima dell’Ottocento. Nel Seicento, Buondelmonte scriveva che, di fronte all’isola di Santorini, aveva visto un polpo afferrare una nave genovese che riuscì a sfuggire dalla morsa dei tentacoli solo grazie al forte vento. Pochi giorni dopo, tuttavia, cinque galee veneziane di ritorno da Baruti furono rovesciate da quel cefalopode smisurato e fortunosamente la gran parte dei marinai riuscì a salvarsi31. Albmair annotava che nel mare vivevano polpi con una tale forza da prendere un marinaio dalla nave, trascinarlo in mare e saziarsi delle sue carni. Nessuno poteva liberarsi dai loro abbracci mortali, si staccavano dalla preda solo se gli si lanciava «qualche cosa fetida» perché non sopportavano certi odori32. Nel Settecento, un sacerdote della Compagnia di Gesù, scriveva che, «animalazzo» ingordo, il polpo grazie alla continua crapula cresceva a tal punto da rovesciare grandi vascelli; diversi testimoni ne videro uno nei pressi dell’isola di Rodi ribaltare senza sforzo una «peota» veneziana33. Kossin, affermava che nel mondo animale non vi erano esseri più crudeli e più forti dei polpi: quelli di grandi dimensioni a volte si accostavano silenziosamente alle navi e, servendosi dei lunghi tentacoli, avvinghiavano i poveri marinai per poi trascinarli negli abissi e farne banchetto34. La nave del capitano napoletano Daniele Montagna, diretta verso la Catalogna, fu attaccata da un polpo di grandezza inaudita. Durante la notte, l’animale, dopo essersi «aviticchiato» sotto la chiglia, afferrò undici uomini dell’equipaggio trascinandoli in mare. I marinai si armarono e la notte seguente, quando il mostro ritornò alla carica, gli recisero un tentacolo che fu fatto a pezzi e distribuito in porzioni di quattro «onzie» ai duecento uomini del vascello. Montagna per sfuggire al mostro spinse la nave verso la costa ma il polpo ferito restò minacciosamente al largo ad aspettarla. Il capitano, fece innescare un pesce porco a una piccola ancora gettandola nelle acque. L’octopus gigantesco, inghiottì l’esca con ingordigia e venti marinai impiegarono più di un’ora per tirarlo con l’argano a bordo. La ciurma mangiò per dodici giorni le sue carni e ciò che rimase fu messo sotto sale in quattrocento barili35. Il conte di Lacépéde raccontava la lotta tra polpo gigante e balena, signori dei mari: il primo, con le otto braccia così lunghe da formare un recinto di oltre duecentocinquanta piedi, attaccava con temibili assalti e con la rapidità di un lampo, la balena a volte riusciva a metterlo in fuga con i colpi dell’enorme coda36. Alcuni esseri viventi, per l’apparenza o per il comportamento, stimolano l’immaginazione umana, inducono sogni e fantasticherie, suscitano ripugnanza e terrore, ispirano favole complesse e immaginifiche37. In ogni epoca il polpo ha rappresentato il simbolo di un mondo oscuro che spaventa e affascina l’umanità. Con la testa simile a un cappuccio, occhi profondi e tentacoli come braccia umane, l’octopus di grandi dimensioni e forme repellenti emergeva dalle acque, avvolgeva navi e divorava marinai. Era un mostro feroce, sanguinario e terrificante, un essere immane che rappresentava la completezza assoluta del male. Il polpo mostruoso confermava la radicata convinzione dell’esistenza nel mare di esseri infernali dotati di potenza smisurata che aggredivano, soffocavano e risucchiavano gli uomini nelle profondità degli abissi. Gli equipaggi delle navi, sorpresi dalle tempeste, rimanevano paralizzati dalla forza immensa e oscura delle acque, perdendo il controllo di sé e della realtà38. La violenza e i pericoli del mare contribuirono in maniera decisiva all’invenzione di creature orribili come il «kraken»: frustrati dalle lunghe giornate di navigazione, frastornati dai cocenti raggi del sole, spaventati dalle onde gigantesche e dal cielo nero, i marinai materializzavano le paure in mostri orribili. Il contatto con l’abisso faceva riaffiorare angosce primordiali che producevano narrazioni popolari in cui la realtà era distorta e trasformata in mito. Albmair nel 1668 redigeva un lungo elenco di mostri marini descrivendone caratteristiche e abitudini. Il robusto Bue del mare era talmente iracondo e violento da uccidere le sue femmine; il vorace Abune nascondeva la testa dentro il corpo e, se tormentato dalla fame, si nutriva delle proprie carni; la Martora marina aveva denti così potenti da spezzare grandi pietre in mille briciole; il Chaab era maestoso, senza ossa e con piedi simili alla vacca; il feroce Equiuolo, con gambe e unghie come il coccodrillo, sfondava le navi facendole affondare; il mostro Cavallo, dalla lunga chioma, i piedi di mucca e la coda di porco, viveva sia in acqua che in terra; le Nereidi, bestie irsute e ispide, ridevano e piangevano come gli uomini; il Pister era il terrore dei marinai perché vomitava sui vascelli grandi quantità d’acqua facendoli affondare; la Scilla dai denti orribili, il ventre bestiale e la coda di delfino, si nutriva unicamente di carne umana; l’orrido Zidrac aveva il capo di un destriero, il corpo di un dragone e la coda di serpente; il Soldato del mare teneva in testa un elmetto di pelle rugosa, al collo appeso un grande scudo, il corpo coperto di squame che resistevano agli archibugi e mani con cui colpiva violentemente; il pesce Serra, nuotando silenziosamente sotto le navi, le segava per affondarle e saziarsi dei marinai; le Sirene dal ventre in su erano donne, il corpo come le aquile, la coda di pesce e i piedi con unghie acute per lacerare le carni dei poveri marinai addormentati dal loro dolce canto; il crudele Dragone marino aveva il capo piccolo rispetto al corpo ma con una bocca orribile con cui lacerava gli uomini; la Loligine viveva nelle profondità delle acque ma grazie alle sue grandi ali andava a volare con gli altri uccelli; il Monoceronte aveva un corno al centro della testa col quale forava le navi facendole inabissare39. Alcuni «mostri», come i feroci pescecani e le orche marine, erano reali. Swinburne nel Settecento scriveva che i mari calabresi erano continuamente attraversati da branchi di orche marine. Di notte i pescatori calavano in mare canestri di rami di mirto intrecciati ma le orche, con i robusti denti, le distruggevano per divorare i pesci e, come aveva appreso da fonti attendibili, spesso avanzavano sulla riva mangiando perfino l’uva che cresceva vicino alle spiagge40. Stolberg scriveva che a Scilla la lotta tra i «cani di mare» e i pesce spada era incessante. Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia uno xiphias gladius e uno carcharodon carcharias: il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la spada e a nuotare liberamente, era morto insieme a lui41. Per De Tavel non bisognava assolutamente immergersi nel mare di Calabria perché le acque erano infestate da pescecani che strappavano gambe e braccia agli incauti bagnanti42. Numerosi sono i racconti sugli squali mangiatori di uomini. Il 20 agosto 1649 gli equipaggi dell’Armata reale diretti a Napoli, passando vicino al faro di Messina, videro un mostro marino che si avventava con ferocia sui corpi di alcuni uomini che galleggiavano. Secondo alcuni era una «canesca» lunga almeno quindici passi e larga cinque, con testa spaventosa, occhi sanguinosi e denti acutissimi a guisa di coccodrillo. Arrivati a Napoli i marinai appresero che probabilmente lo stesso mostro avesse divorato alcuni pescatori di Pozzuoli, due giovani intenti a raccogliere frutti di mare vicino alla Conciaria e tre persone vicino al mare di Chiaia. Dopo diversi colpi di moschetto e di cannone, la «canesca» era riuscita a sfuggire grazie alla sua rapidità e la gente di mare, ormai sfiduciata e arresa, pregava chiedendo un intervento del Padre Eterno43. Nel giugno del 1721, fu aggredito e divorato da un pescecane un uomo che pescava molluschi nel mare del Ponte della Maddalena. Il 6 giugno, dopo una faticosissima caccia, i marinai lo circondarono con alcune barche e lo catturarono. Il canis carcharias, lungo 20 palmi e dal peso di 12 cantaia, nel ventre aveva una testa umana, probabilmente quella del giovane pescatore. Il mostro fu sotterrato astenendosi dal consumarne le carni dato che si nutriva di esseri umani ma gli furono estirpati i denti aguzzi perché erano utilizzati come amuleti per preservare i fanciulli dalla paura e per far passare il mal di denti44. Le leggende sui mostri nascevano anche perché molte specie di pesci o mammiferi marini erano sconosciute agli stessi pescatori45. Il 17 gennaio 1724, nel golfo di Napoli, fu catturato un essere mostruoso con «peli di mostaccio» capace di camminare e vivere fuori dall’acqua. Secondo una dettagliata relazione, la creatura era giunta nel golfo partenopeo dai mari del Nord, perché allettata dall’esca di «umani cadaveri» gettati dai vascelli. Per ammirare tale «meravigliosa curiosità» accorsero aristocratici e alti prelati tra cui il cardinale viceré con la sua corte. Qualcuno ipotizzò che si trattasse di un pesce che i caldei chiamavano «dio dabut», i greci «labor», i romani «tigre marina» e Plinio «foca»46. Lacépède scriveva che l’immaginazione dell’uomo volgare chiedeva con impazienza di pascersi della vista e della descrizione di esseri strani e meravigliosi e ciò spingeva alcuni editori a pubblicare ridicoli e bizzarri racconti di pesci mostruosi47. A volte questi animali straordinari erano equipaggiati con oggetti prodotti dall’uomo. Nella Città del Sole, l’Ammiraglio raccontava al Gran Maestro che sulle pareti esterne del terzo girone vi erano dipinti il pesce Vescovo, Catena, Corazza, Chiodo, Stella e altri meravigliosi esseri marini48. Bernardino Moretti scriveva che il 19 luglio 1623 nelle acque della Vistola era stato avvistato un pesce lungo 35 piedi, con orride squame, la faccia umana, una croce in bocca, una corona sul capo, un cannone sulla schiena e spade, pistole, stendardi e alabarde sul corpo49! Moretti forniva un dettagliato disegno dell’animale marino identico a un altro presente in un opuscolo che raffigurava un pesce preso nei pressi del golfo di Salerno il 16 aprile 1730! Nella relazione si legge che il mostro era stato catturato con grande fatica e aveva vissuto per ben quindici giorni fuori dall’acqua. L’orrendo pesce, di smisurate dimensioni, aveva scaglie così grandi e dure da non essere scalfite neanche dai colpi di schioppo. Lungo dodici braccia e mezza, aveva la testa umana, una corona sul capo, una croce in bocca, un collare da schiavo, un cannone sulla schiena, la coda quadrata, le zampe d’aquila e, sul dorso, un teschio, una spada, tre pistole, un’alabarda e due bandiere con differenti lettere50! Le narrazioni su polpi giganteschi e voraci, erano funzionali alla società poiché rinsaldavano la coesione sociale, rafforzavano la fede e dettavano regole a cui tutti dovevano sottomettersi. La minaccia del kraken volgeva un conflitto interno verso l’esterno, allentava la tensione, riaffermava l’ordine vigente e rendeva visibili i valori comunitari. Il mito del polpo feroce e gigantesco era una narrazione apparentemente debole dal punto di vista della logica ma efficace per fornire un aspetto naturale a un’ideologia. Con le sue forme repellenti, il kraken rappresenta il passaggio dall’animalità all’umanità, la fase primordiale, mai superata e dominata dagli istinti bestiali, nella quale gli uomini, per mancanza di regole, possono precipitare in qualsiasi momento. L’immagine del mostro è ciò che sta negli abissi, pronto a riemergere per riportare il disordine, la bestia non ancora domata, il caos che si ripropone di nuovo e che può avere il sopravvento sul cosmo. Il kraken è funzionale alla società: rappresentando la deformità, le comunità sanzionano la normalità, creando il disordine sanzionano l’ordine. Mettendo in discussione l’ordine esistente, il polpo mostruoso spinge la società a riorganizzarsi; l’unità sociale non può prescindere dal suo contrario: la luce del giorno prevede la notte, la normalità presuppone la mostruosità, il disordine giustifica l’ordine. In latino monstrum significa «prodigio», qualcosa fuori del comune e la parola si lega ai verbi monere, ammonire e monstrare, indicare una via da non seguire51. Il kraken costituiva la proiezione mitologica di paura, terrore e morte, l’immagine dell’alterità e del mondo sotterraneo, una costruzione complessa per addomesticare quella parte del mondo ostile e per espellere il terrore oltre i confini della comunità. Il polpo gigantesco e la società sono due universi distinti e separati ma con profonde relazioni, il loro rapporto somiglia molto a quello tra il ricamo e il rovescio. Capovolgendo l’immagine nitida della figura ricamata, se ne vede un’altra senza forma, fatta di fili che s’intrecciano disordinatamente; ma in quella figura aggrovigliata ci sono molti elementi che la uniscono a quella nitida e creano un forte legame tra le due immagini. Nel ricamo ogni filo che si unisce ad altri per creare contorni nitidi e pieni di significato, corrisponde a fili che s’intrecciano ottenendo figure senza forma e senza significato. Per essere chiara la figura ha bisogno di quel groviglio di fili, della sua profondità, di ciò che le dà la forza d’essere tale: quando quei fili in qualche modo si spezzano, anche la figura del ricamo perde chiarezza, il groviglio senza forme che sta sul rovescio rappresenta la vera forza ed essenza del ricamo. Ogni ordine nasce dal disordine: la società ha un rovescio, un mondo caotico e magmatico da cui ricava sicurezze e sapienza; dietro la cultura «chiara» che caratterizza la vita degli uomini ce n’è una nascosta che le dà forza, ci sono miti da cui ricava certezze. Il trascendente è avvertito come diverso e misterioso, ma in realtà è parte della vita quotidiana; il mostro mette in discussione la società ma ne è anche il riflesso, rende visibili sentimenti spesso celati ma centrali nella cultura e che contribuiscono alla coesione. Il mostro riflette la società e la società riflette il mostro, l’uno non può stare senza l’altra; apparentemente la società nega i valori del mostro ma in realtà lo porta in grembo e se ne serve per trovare conferma ai propri valori. Il kraken segna il confine che non può essere valicato, la linea che taglia due mondi inconciliabili. La sua immagine non deve essere troppo lontana, altrimenti la sicurezza interna e l’ordine rischierebbero di andare in frantumi. Il mostro mette in discussione le regole che si è data la collettività e genera instabilità; così facendo legittima l’ordine esistente e ricorda agli uomini un tempo remoto privo di ordine. Per difendere norme e tradizioni, la società dà un volto a ciò che maggiormente la minaccia: orrore e mostruosità non sono sconfitti nella comunità ma localizzati e posti in un luogo sicuro. 1. Roger Caillois, La piovra, Franco Maria Ricci, Milano 1975 p. 21. 2. Le opere di Buffon, cit., p. 453; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., p. 36. Cfr. Mariangela Puglisi, Il simbolismo del polpo, in Caccamo Caltabiano M., Castrizio D., Puglisi M. (a cura di), La tradizione iconica come fonte storica. Il ruolo della numismatica negli studi di iconografia, in Atti del I Incontro di Studio del Lexicon Iconographicum Numismaticae (Messina, 6-8 marzo 2003), Falzea Editore, Reggio Calabria 2004, p. 159; Francesco De Dominicis, Repertorio numismatico per conoscere qualunque moneta greca tanto urbica che dei re e la loro respettiva stima, tip. Varà, Napoli 1826, t. I, p. 481. 3. Ateneo, op. cit., VII, 316e-317c, vol. II, pp. 767-770. 4. Aristotele, Parti degli animali, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973, vol. II, pp. 801-803. Cfr. Hippolyto Salviano, Aquatilium animalium historiae, Romae, s.e., 1554, pp. 159-164; Gulielmi Rondeletii, Libri de piscibus marinis, in quibus verae piscium effigies expressae sunt, Lugduni, apud Matthian Bonhomme, 1554, pp. 513-519; Joannes Jonstonus, Historiae naturalis de exanguibus acquaticis, in Historiae naturalis de piscibus et cetis, Impensa Matthei Meriani, Francofurti ad Moenum 1649, libro V, pp. 5-9; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 3-5; 9-17; 22-23; Stefano Delle Chiaie, Animali invertebrati della Sicilia Citeriore osservati vivi negli anni 1822-1830, stab. tip. di C. Batelli e comp., Napoli 1841, pp. 1-7. 5. Aristotele, Parti degli animali, cit., p. 732. Cfr. Hippolyto Salviano, op. cit., pp. 159-164; Gulielmi Rondeletii, op. cit., pp. 513-516. 6. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345. 7. Ivi, p. 349. 8. Memorie della Regale Accademia Ercolanese di Archelogia, nella Stamperia Reale, Napoli 1856, vol. VIII, pp. 304-305. 9. Oppiano, op. cit., pp. 362-365. Cfr. Gio. Battista Della Porta, Della magia naturale, appresso Antonio Bulifon, Napoli 1677, p. 440; Carlo Gregorio Rosignoli, op. cit., p. 20. 10. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769. Cfr. Torquato Tasso, I dialoghi, Le Monnier, 1859, Firenze p. 423. 11. Ivi, p. 770. 12. Le opere di Buffon, cit., p. 375. 13. Paolo Giovio, op. cit., p. 180. 14. Nicolò Serpetro, Il mercato delle maraviglie della natura, overo istoria naturale, per li Tomasini, Venetia 1653, p. 340. 15. Pierre Denys de Montfort, op. cit., pp. 548-567. 16. Emanuele Kant, op. cit., pp. 165-184. 17. Alphonse Chevallier, Achille Richard, Dizionario delle droghe semplici e composte o nuovo dizionario di storia naturale medica, di farmacologia e di chimica farmaceutica, ed. tip. Girolamo Tasso, Venezia 1831, t. IV, p. 285. 18. Dizionario delle scienze naturali, Battelli e Comp., Firenze 1817, vol. XVIII p. 204. 19. Michele Lessona, La Pieuvre. Cenni intorno ai cefalopodi, Tommaso Vaccarino, Torino 1867, p. 35. 20. Jules Michelet, La mer, Hachette, Paris 1861. 21. Victor Hugo, Le travailleurs de la mer, Lacroix, Paris 1866. 22. Jules Verne, Vingt mille lieues sous les mers, Hetzel, Paris 1870. 23. Lautréamont, Les chants de Maldoror, Blanchetiére, Paris 1927. 24. Alexandre Dumas, Grand dictionnaire de cusine, Alphonse Lemerre Editeur, Paris 1873, pp. 388-394. 25. Roger Caillois, op. cit., p. 128. 26. Ivi, p. 99. 27. Ivi, pp. 182-188. 28. Ivi, pp. 213-220. Cfr. Alfredo Cattabiani, Simboli miti credenze e curiosità sugli esseri delle acque, Mondadori, Milano 2002. 29. Michele Lessona, La Pieuvre. Cenni intorno ai cefalopodi, cit., pp. 7-8. 30. Ivi, pp. 34-35. 31. Thomaso Porcacchi da Castiglione, Le isole più famose del mondo, appresso Paolo et Francesco Galignani, Padova 1620, p. 120. 32. Teodoro Albmair, op. cit., p. 206. 33. Ferdinando Zucconi, Lezioni sopra la Sacra Scrittura, Firenze, per Michele Nestenus, Firenze 1702, t. II, p.120. 34. Dionisio Kossin, L’eroismo ponderato nella vita di Alessandro il Grande, illustrata con discorsi istorici, politici e morali, per Paolo Monti, Parma 1716, p. 510. 35. Verissima, e distinta relazione d’un spaventoso mostro marino ritrovato il mese caduto l’anno presente nell’acque di Cadiz dal capitan Daniel Montagna da Napoli, e si ritrova presente a Corfù e in breve verrà in Venezia. Nella quale s’intende la morte di undici uomini uccisi nella sua nave, ed altri danni, appresso Gio. Battista Occhi, Venezia 1764. 36. Etienne Lacépède, Le avventure del gigante del mare rinvenuto morto ne’ primi giorni di maggio 1827, presso Otranto, città del Regno di Napoli, dalla tip. di Angelo Trani, Napoli 1827, pp. 36-37. 37. Ivi, pp. 13-14. 38. Cfr. Laura Sannia Nowé, Maurizio Virdis (a cura di), Naufragi, Atti del Convegno di Studi, Cagliari 8-9-10 aprile 1992, Bulzoni, Roma 1993. 39. Teodoro Albmair, op. cit., pp. 202-212. 40. Henry Swinburne, Viaggio in Calabria (1777-1778), Effe Emme, Chiaravalle Centrale 1977, p. 139. 41. Friedrich Leopold von Stolberg, Viaggio in Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986, p. 30. 42. Duret De Tavel, Lettere dalla Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1985, p. 102. 43. Il nuovo racconto dello spaventevol mostro, detto canesca, ò drago marino del Faro di Messina, dove s’intende le rovine, occisioni, e devoramenti d’huomini, che hà fatto, e fà giornalmente in Napoli, li 20 agosto 1649, nella stamperia del Grignani, Roma 1649. 44. Distinta relazione del mostruoso pesce preso da’ pescatori napolitani nella spiaggia detta il Ponte della Maddalena il dì 6. Giugno 1721, per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi, Napoli & Bologna 1721. 45. Massimo Centini, Mostri marini. Creature misteriose tra mito, storia e scienza, Magenes, Milano 2016; Armand Landrin, Les monstres marins, Librairie Hachette, Paris 1875. 46. Relazione del meraviglioso pesce condotto da Napoli a Roma e del modo come fu preso, e delle sue virtù, che possiede in se medesimo, il quale si vede vivo con ammirazione universale, nella stamperia dell’App. Gen. della Carta, Livorno 1724. 47. Etienne Lacépède, Le avventure del gigante del mare rinvenuto morto ne’ primi giorni di maggio 1827, presso Otranto, città del Regno di Napoli, dalla tip. di Angelo Trani, Napoli 1827, p. 106. 48. Tommaso Campanella, La città del sole, tip. di G. Ruggia e C., Lugano 1836, p. 10. Cfr. Giovanni Botero, op. cit., p. 50. 49. Il tremendissimo prodigio d’un pesce che è stato preso nel fiume Istola, che sempre corre torbido, vicino alla nobilissima città di Varsavia dove risiede la Maestà del re di Polonia, alle Scale di Badia, Venetia-Firenze 1624. 50. Distinta relazione del mostruoso pesce ritrovato nel porto di Salerno. Al di 16. aprile 1730, il Sardi, Salerno & Padova 1730. 51. Corrado Bologna, Mostro, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1980, vol. IX, p. 562. Cfr. Georges Balandier, Il disordine. Elogio del movimento, Dedalo, Bari 1991. Polpo archetipo Jung sostiene che gli archetipi sono contenuti psichici dell’inconscio collettivo, rappresentazioni comuni, immagini universali presenti sin dai tempi remoti1. Il polpo gigantesco è un archetipo, espressione di modelli culturali inconsci che resiste tenacemente all’usura del tempo. Il suo mito rimanda a una realtà primordiale, un patrimonio carico di significati profondi; la sua immagine, inscritta nell’architettura dello spirito umano, è una proiezione simbolica di ricordi antichissimi già fissati dalla coscienza collettiva. Il polpo è una figura prototipica che concerne le origini stesse dell’umanità, una rivelazione originale della psiche preconscia della coscienza umana che non ha bisogno di essere spiegata e che ha contenuti uguali per tutti gli individui. È un’immagine archetipica che riflette lo spirito formatosi in un’epoca in cui l’uomo era meno soggetto a condizionamenti del pensiero conscio, in cui la conoscenza era frutto soprattutto della percezione, in cui il senso era legato alla forma e il significato s’identificava col significante. È un simbolo prodotto in un mondo preistorico nel quale la mente umana si esprimeva non tramite il pensiero astratto ma tramite figure che inglobavano forma e contenuto. Il polpo gigantesco è una forma d’espressione simbolica remota, un modello che nel corso del tempo si è frammentato conservando nelle continue scissioni una struttura solida; presente nella memoria e nell’inconscio degli uomini, produce emozioni non molto diverse da quelle del passato. È una figura mitica che si sottrae ai condizionamenti storici e non si lascia rinchiudere nelle gabbie di tempo e spazio: un’esperienza immaginaria che è stata vissuta nel passato, è vissuta nel presente e probabilmente sarà vissuta nel futuro. Gli esseri mostruosi dalla forma di polpo variano da un luogo all’altro e nel corso del tempo ma il disegno centrale rimane inalterato: feroci più di qualunque animale, divorano gli uomini ricorrendo a forza, seduzione e inganno, sono orribilmente grandi, dimorano negli abissi e sembrano voler difendere un luogo che separa il mondo conosciuto da quello sconosciuto. Il kraken rappresenta la narrazione della creazione, di ciò che è accaduto quando il mondo era caratterizzato dalla lotta tra esseri primordiali, una forza ctonia che desta inquietudine e turbamento, il perturbante di cui parla Freud, quella sorta di spaventoso rimosso dagli uomini che riemerge a loro insaputa2. Raffigura il pericoloso del mondo ignoto che tutti vogliono conoscere per superare le paure, immagine archetipica che affiora nell’animo istintivamente; personifica la voragine buia nella quale niente è distinto, un’esperienza onirica che capovolge la realtà e dà spazio all’irrazionale che abita nelle profondità dello spirito, che trasporta gli uomini in un mondo agitato da forze misteriose e oscure alla ragione. La figura del polpo colossale getta nell’oblio, produce una catarsi e coinvolge gli uomini in una vicenda di rovesciamento le cui ragioni trascendono le verità. Il suo simbolo rinvia a una struttura segreta e minacciosa, espressione di desideri inconsci e pulsioni affettive che si manifestano nei sogni, nei fantasmi delle nevrosi o nell’aspirazione al sacro; proietta la realtà nel mondo fantastico che popola le visioni oniriche, incarna la presenza del mostruoso e dell’inclassificabile. È una figura che indica una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale e tra due nature, l’umana e l’animale; è la rappresentazione dell’inizio ma anche il rischio della fine, rammenta agli uomini che il disordine può nuovamente impadronirsi della loro vita e che in ogni momento si può precipitare nel caos. La narrazione mitica riconosce e rinnova la potenza del disordine e allo stesso tempo traccia un confine e lo addomestica, permette che il mondo abbia un sopra e un sotto, un centro e una periferia, spazi che per essere tali devono essere continuamente attraversati. Attraverso il racconto delle piovre gigantesche e orrende gli uomini rendono chiare le paure che dominano la vita e allo stesso tempo le neutralizzano. Il mitico kraken è una costruzione intellettuale logica il cui fine è armonizzare il rapporto tra uomini e natura, spiega la trasformazione del caos in cosmo, il passaggio dalle tenebre alla luce, dall’acqua alla terraferma, dall’informe alla forma, dal nulla alla creazione. Le storie mitiche dei polpi giganteschi hanno coerenza interna, danno ordine all’universo e spiegano ciò che è accaduto non mediante teorie scientifiche ma tramite archè o storie dell’origine. La figura archetipica del polpo è tuttavia sottoposta ai nuovi condizionamenti culturali e materiali. Un essere mitico scompare se non trova un equilibrio nelle sue molteplici funzioni e se viene meno il flusso di credenze tramandate da una cultura all’altra. Il kraken è un archetipo ma non può essere isolato dal contesto sociale e culturale. Per non rischiare di generalizzare e avanzare interpretazioni diverse e perfino opposte, bisogna collocare il mito nel tempo in cui nasce e si sviluppa, inserito nel processo di trasformazione sociale, esso non si sottrae alla dinamica interna delle forze creative umane. In passato lo straordinario aveva connotazioni diverse: la minore capacità di controllo sulla natura offriva meno sicurezze e favoriva il proliferare di divinità con cui l’uomo doveva rapportarsi e riconciliarsi, la gente propendeva fortemente verso il meraviglioso, l’intervento soprannaturale era parte integrante della trama culturale. Gli dei greci non solo non avevano creato il mondo ma essi stessi erano stati creati da temibili potenze primordiali esistenti. Zeus non condizionava il destino del mondo e degli uomini con i quali era persino imparentato; l’universo divino era popolato da esseri mostruosi con cui le divinità dovevano fare i conti e contro i quali erano anche impotenti3. Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha creato nuovi orizzonti e affermato un’idea razionale del mondo, la sfera del sacro va sempre più restringendosi e si assiste alla desacralizzazione di tempo e spazio. Molte paure degli uomini legate al mare – e con esse le proiezioni mitiche e le immagini che costituivano strumento di spiegazione e di protezione –sono scomparse o si sono attenuate. Tanti studiosi ritengono che non si possa pensare ai primitivi e al passato con l’attuale sistema mentale poiché le storie che adesso sembrano ingenue, assurde, ambigue e fantastiche, in un lontano passato erano razionali e logiche. Levy-Bruhl sostiene che l’universo mentale dei primitivi era dominato da affettività e misticismo e che tra il pensiero dei selvaggi e il nostro c’è una distanza incolmabile4. È difficile tuttavia immaginare che l’uomo primitivo fosse talmente privo di strumenti di conoscenza da pensare che ogni cosa fosse soprannaturale e prodotta da potenze sconosciute. Chi ascoltava racconti su polpi grandi due miglia e dai tentacoli lunghi come gli alberi di una nave, rimaneva sconcertato e meravigliato. Il processo logico è attivo nel pensiero primitivo come in quello moderno, non c’è un passaggio da uno stadio psicologico a uno stato razionale, una barriera tra mentalità prelogica e pensiero scientifico, uno spazio mitico e simbolico che appartiene solo a determinati periodi della storia, una coscienza strutturale che caratterizza alcune epoche e non altre. Il kraken che suscitava sgomento tra i marinai si è inabissato per sempre nel mare e tuttavia la sua immagine rimane nella coscienza degli uomini. Le modifiche del mostruoso nel corso dei secoli sono profonde, ma ci sono simboli, miti e rituali che resistono nel tempo. Tanti sentimenti, bisogni e comportamenti dell’uomo antico non sono diversi da quelli dell’uomo moderno, molti atteggiamenti psicologici, individuali e collettivi non hanno subito grandi cambiamenti nel corso dei secoli. L’uomo moderno come i suoi antenati sfida continuamente la paura, si sforza di superare le minacce reali e immaginarie esorcizzandole con rappresentazioni favolose. Oggi, come in passato, l’uomo teme le forze distruttrici della natura, ha il terrore di trovarsi da solo di fronte a potenze più grandi, crede che ci siano divinità che minacciano la sua integrità. La vita d’ogni individuo è sempre esposta al rischio della fine, nessuno può sottrarsi alla possibilità di essere sopraffatto o d’essere semplice spettatore ed evitare che il dolore irrompa nella sua esistenza. Razionalità, desacralizzazione e rimozione hanno forse finito per aumentare nell’uomo il senso di precarietà, l’accentuata secolarizzazione lo ha privato di punti di riferimento, disorientato, impoverito e posto in una condizione d’angoscia e smarrimento forse maggiori che in passato. Il polpo gigantesco che con tentacoli muniti di ventose succhia e inghiotte le vittime costituisce ancora oggi una delle paure più elementari. In forme diverse il mostro continua ad agire perché è una forza che proviene dalle profondità dello spirito. Grazie alla rivelazione di contenuti universalmente umani, il mito supera i limiti sociali e spazio-temporali ricordando agli uomini il rischio di sprofondare negli abissi. L’incontro col kraken è materializzazione del rischio della paura ma anche metafora di quella via d’uscita che da sempre caratterizza le imprese umane. Nelle comunità l’uomo si preoccupa di rassicurare se stesso e il proprio universo, di porre dei limiti, rendere familiari gli spazi, allontanare e respingere verso l’esterno ciò che può essere pericoloso o turbare la propria esistenza. A volte, però, accade che gli equilibri si rompano, che lo spazio conosciuto non sia più visibile, che orientamenti e confini si perdano, che nel proprio ambiente l’uomo viva un senso di sradicamento e di perdita dell’appartenenza. Quando le forze cominciano a vacillare, per non brancolare nell’oscurità e trovare risposte alle proprie angosce, l’individuo si separa dalla sua gente, avverte un disperato bisogno di allontanarsi e perdersi oltre il confine per trovare delle nuove coordinate. Non sempre ciò che si trova oltre i limiti del suo ambiente appare ambiguo e spaventoso, quel mondo lontano e sconosciuto, considerato da sempre pericoloso, è necessario per ritrovare se stesso. Nel momento in cui vive un forte disorientamento, l’uomo avverte il senso di perdita della presenza, si sente minacciato dal terrore della fine e non ha forze sufficienti per andare avanti, cerca di fuggire il tempo storico andando verso l’ignoto. Per evitare di precipitare nel nulla si fa errante, alla ricerca di un luogo che gli restituisca il dominio dell’esistenza; il bisogno di sicurezza lo spinge a ricercare un fondamento e una garanzia che lo pongano al riparo dal disordine che lo minaccia. L’uomo ha bisogno di affrontare l’ignoto, di dominare la paura di smarrirsi e misurarsi con l’angoscia dell’estraneo. Fromm scrive che l’individuo, perduto il paradiso - ossia il sentimento di far intrinsecamente parte della natura - è diventato l’eterno pellegrino, costretto a camminare senza sosta nel tentativo di sapere ciò che non è ancora conosciuto. Parte per rispondere agli interrogativi supremi che angosciano l’umanità e per ritrovare una nuova armonia che lo ricongiunga alla natura e a se stesso5. Per superare l’incubo del caos l’uomo deve raggiungere il mondo dell’assolutamente «altro», quel luogo lontano dal mondo che tuttavia ha creato sia l’uomo che il mondo; per forgiare una nuova dimensione dell’essere deve affrancarsi da una cultura ordinata dalle norme, navigare in un tempo e in uno spazio magico di un mondo originario definitivamente perduto. Per ritrovare il fondamento dell’ordine deve spingersi sino al limite estremo, verso il confine tra essere e non essere, deve ritornare al tempo mitico della creazione in cui dal caos si creò il cosmo. Arrivando sino al limen, ai confini del mondo, liberandosi di ciò che è terribile e spaventoso, potrà ristabilire l’armonia originaria che esisteva un tempo tra uomo e natura. Per incontrare l’assolutamente altro l’uomo deve sottoporsi a prove e fronteggiare pericoli, affrontare l’ignoto, attraversare un mondo indecifrabile e navigare nel mare aperto. Il mare è il luogo del non luogo, dello spazio che non è spazio, delle paure ataviche dell’inconscio; nel mare i limiti sono assenti, non vi è centro, non vi sono punti di riferimento; viaggiare verso l’orizzonte infinito dell’oceano è rischioso, il naufragio è possibile in ogni momento. Il mare è un luogo selvaggio e sconosciuto, infido e misterioso, avversario beffardo, crudele persecutore e annientatore implacabile. L’uomo che viaggia lungo rotte sconosciute non è sostenuto dall’antico sistema di certezze, davanti ha solo l’orizzonte senza fine, un mondo inquietante e pauroso dove può smarrirsi e perdersi per sempre. Kraken, piovre e polpi giganteschi rappresentano gli ostacoli posti agli estremi dell’universo che gli uomini devono oltrepassare per conoscere la verità e per trovare risposta agli interrogativi fondamentali della sua vita. I mostri marini sono la personificazione della minaccia che incombe sull’uomo, la paura dell’inghiottimento e della caduta negli abissi, rappresentano l’infinita potenza selvaggia che sbarra e segna la fine d’ogni cammino. I luoghi in cui vivono sono la frontiera che contrappone e separa il mondo naturale da quello divino, ma anche il punto nel quale universi distinti comunicano. Gli abissi sono il posto del caos, il territorio dell’origine, il punto della creazione dell’universo, lo spazio fuori della storia in cui presente, passato e futuro coincidono. Gli uomini che arrivano in quel luogo proibito hanno paura ma respirando il tempo mitico della creazione, ricongiungendosi al primordiale e vivendo l’esperienza del disordine, s’impossessano di un sapere che permette loro di ristabilire l’ordine. I mostri che vivono nel mare rappresentano la conoscenza. Nel suo viaggio, combattuto tra l’ansia per la patria e la passione per il sapere, Ulisse tura le orecchie ai propri compagni per evitare che ascoltino il canto pericoloso delle sirene ma egli si fa legare per ascoltarlo senza cedere alle lusinghe6. L’uomo naviga nel mare immenso e misterioso ma anche dentro se stesso, nel passato più oscuro, verso le proprie radici. Il suo è un cammino che affina lo spirito, un percorso iniziatico verso la trascendenza, un errare volto a scoprire la verità assoluta; si spinge fino al limite estremo delle capacità e raggiungere le profondità della coscienza. L’uomo non accetta la compiutezza della vita e l’ineluttabilità della morte, navigando nel mare aperto supera la finitezza e proietta l’esistenza in una realtà soprannaturale, il suo errare è un morire per rinascere, un rigenerarsi attraverso la fine. Il viaggio in mare e l’incontro col kraken sono il desiderio dell’uomo di trascendere l’esistente per ricercare un ethos valorizzante, sono la rivalutazione della vita, il tentativo di risollevarsi dalla finitezza dei bisogni immediati per non perdersi e non annullarsi, la ribellione contro limiti invalicabili e un destino di sofferenza e di morte, la volontà di negare il dolore e il male, il bisogno di fronteggiare l’incubo del caos. L’uomo vive per risolvere problemi materiali e nel contempo desidera elevarsi per meditare e trovare risposta alle questioni supreme; non tenta solo di guarire dalla crisi ma di migliorare la propria vita conferendole una dimensione sacra. Il viaggio dell’uomo verso il kraken è reale e mitico allo stesso tempo. Illuminato dalla fede e avanzando nella direzione dell’escathon attua la comunione col divino, eleva lo spirito al supremo grado di purezza, diviene santo egli stesso. L’umanità non può restare immobile in contemplazione di quel che accade, poiché non esiste un posto sulla terra nel quale è possibile fermarsi. Gli uomini sono costretti a vagare senza tregua proprio perché desiderano fermarsi, pervasi dal bisogno di muoversi per poi riposare, andranno avanti sino a quando non troveranno risposte7. La storia dell’uomo è una storia inquieta. Egli intraprende il viaggio per conoscere ma il suo desiderio non sarà mai appagato interamente, poiché quel che cerca, verità ineffabile e oscura, si estende aldilà dei limiti stessi del pensiero e dell’agire umano. Per evitare di precipitare negli abissi, per trovare risposte alle domande l’uomo dovrà mettersi nuovamente in viaggio alla ricerca di un luogo che gli restituisca il dominio sull’esistenza. Il bisogno di sicurezza lo spingerà a cercare il fondamento che lo preservino dal disordine; il desiderio di sconfiggere l’angoscia lo spingerà a risalire verso l’origine, a rinascere a se stesso, a riprendere il controllo di sé, ad aprirsi alla dimensione trascendente dell’essere. L’uomo è condannato a non avere fissa dimora perché è escluso dalla verità. Finché avrà il bisogno di riaffermare la propria identità e liberarsi dalle inquietudini, sarà costretto a errare e navigare in mare aperto dove lo attendono mostri. Il mondo umano non è fissato in un ordine, ma ostinatamente muore e rinasce. L’uomo del mondo ordinario ha regole morali cui è legato ma, come dice De Martino, sa che costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere nel mondo ma il dover esserci; è consapevole del rischio radicale di non essere in alcun mondo possibile e quindi decide di partire, di trascendere l’esistenza per cercare un ethos valorizzante8. Attraverso il viaggio, l’uomo supera l’esistente, traspone in un’altra dimensione gli interrogativi della vita, rende visibili energie vitali e istinti repressi, mostra in un’atmosfera irreale e sacrale i desideri inespressi e insoddisfatti. Gli uomini hanno bisogno di andare oltre e ciò costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza. Per esistere, ogni società deve progredire oltre la naturalità e trascendere la vita: l’ethos del trascendimento è il vissuto umano per eccellenza. L’uomo è consapevole di non poter restare sulla terraferma a contemplare la nave che periclita nella tempesta; l’alternativa all’abisso non è la fuga, non c’è posto al mondo in cui ritenersi al sicuro. Nella perigliosa traversata dell’esistenza è contemplato il pericolo del naufragio, in ogni angolo della terra ci sono kraken a ostacolarne la rotta. Il distacco dell’uomo dal mondo costituisce l’ethos primordiale, la volontà originaria di cultura e storia che resiste alle tentazioni del nulla. Il viaggio dell’uomo è il desiderio di trascendere l’esistente, il tentativo di risollevarsi dalla finitezza dei bisogni immediati: terrore, panico e paura forniscono la spinta verso la conoscenza. Polpi giganteschi incalzano l’uomo mantenendolo in uno stato d’inquietudine, mutano nomi e forma ma continuano ad aspettarlo per sopprimerlo. Viaggiare per terre e per mari spinge l’uomo a creare mostri mitici che lo sollevino dalla sua umana condizione rendendolo mitico9. 1. Carl Gustav Jung, L’archetipo della madre, Boringhieri, Torino 1990, p. 4. 2. Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere. 1917-1923. L’io e l’es e altri scritti, Bollati-Boringhieri, Torino 1989; Tobia Nathan, La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria, Ponte alle Grazie, Firenze 1990; Otto Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, SugarCo, Milano 1972. 3. Jean-Pierre Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1981, pp. 97-114. 4. Lucien Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1981. 5. Erich Fromm, Psicanalisi e religione, Ed. di Comunità, Milano 1971, pp. 26-27. 6. Cfr. Giovanni Sole, Scilla. Interpretazioni di un mito, Università della Calabria, Centro Editoriale e librario, Rende 2000; Id., Il tabù degli stretti: il mito di Scilla e Cariddi, in Teti V. (a cura di), Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli, Roma 2003, pp. 167-188. 7. Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 673. 8. Ibidem. 9. Cfr. Ludwig Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972. Polpo e identità Per difendere potere e identità, caste sacerdotali e sette religiose dovevano elaborare continuamente strategie per differenziarsi dal mondo esterno. Non mangiare alcuni cibi era un modo per distinguersi dalla società, un precetto categorico che gli adepti dovevano rispettare senza discutere poiché rafforzava i valori della setta. Una società chiusa, come quella pitagorica, era caratterizzata da un equilibrio frutto di un continuo superamento delle contraddizioni interne. La risoluzione dei conflitti avveniva anche tramite i divieti: osservando i tabù, gli adepti mostravano all’esterno la natura segreta della loro scuola e allo stesso tempo avevano consapevolezza della propria diversità. La setta era costantemente minacciata da contaminazioni e, per difendersi, doveva stringersi intorno alle sacre obbligazioni. Astenersi da alcuni alimenti che erano sulle tavole delle persone comuni, era un efficace mezzo di coesione, un modo per distinguersi dal mondo profano. I tabù costituivano un mezzo formidabile per la coercizione reciproca: la costruzione del consenso e l’osservanza delle regole offrivano il privilegio di appartenere a un gruppo, rafforzava i valori comuni e rimarcava l’identità1. I «non fare» di Pitagora erano un codice morale che proteggeva la società da comportamenti che potevano distruggerla. Erano inseriti in una struttura di pensiero che tendeva a fissare dei confini per proteggere la setta da minacce esterne e conflitti interni, rappresentavano un codice morale che creava uno steccato contro le contaminazioni rendendo gli adepti consapevoli della propria diversità2. I discepoli dovevano essere assoggettati a regole e prescrizioni che orientavano la loro esistenza. L’interesse del singolo individuo e quello dei suoi compagni coincidevano: i tabù dovevano essere onorati e, chi non lo faceva, doveva essere punito o allontanato. Si racconta che quando un pitagorico trasgrediva una regola o un divieto, era considerato morto e si erigeva una lapide col suo nome. Empedocle e Ippaso furono mandati via in maniera infamante per aver violato i segreti della scuola e si riteneva che il secondo fosse morto in un naufragio voluto dagli stessi dei, per punirlo della sua empietà3. I divieti alimentari erano fondamentali per riprodurre la struttura sociale, comandamenti la cui violazione faceva sorgere un senso di colpa che era ancora più forte se la proibizione era inspiegabile, aveva un’origine oscura e si presentava come insensata. I divieti avevano lo scopo di contribuire a consolidare la scuola e proteggerla da comportamenti che potevano danneggiarla, creavano un muro invalicabile con altre culture che rischiavano di contagiare i suoi adepti. Per imporre un tabù, specie se bizzarro e illogico, c’era bisogno di un’autorità riconosciuta da tutti. «Egli l’ha detto», dicevano i pitagorici per affermare che nessuno poteva mettere in discussione ciò che aveva sentenziato il maestro, infallibile al pari di un nume. Pitagora, come scrive Timeo, era così rispettato che i sodali dovevano ascoltare i suoi insegnamenti senza poterlo vedere finché non avessero superato il giudizio d’ammissione. Come Apollo Pizio, comunicava le verità con un linguaggio oracolare e teneva in gran considerazione quei discepoli in grado di individuare il segno nascosto dei suoi simboli4. Aristotele sostiene che per i pitagorici, oltre alla specie umana e divina, esisteva una terza specie di esseri come Pitagora, e cioè individui ispirati, intermediari tra il mondo terreno e ultraterreno. I biografi lo descrivono come un dio capace di volare da una parte all’altra e di trovarsi contemporaneamente in posti diversi, in grado di sedare tempeste, guarire ammalati, incantare animali e prevedere il futuro5. In un certo senso il filosofo rappresentava egli stesso un tabù: alcuni allievi non potevano rivolgergli la parola o guardarlo in faccia sino a quando non avessero conosciuto e appreso le verità sacre6. Nella comunità pitagorica vigeva una struttura gerarchica che garantiva il rispetto verso tutto ciò che diceva o faceva il maestro. Le proibizioni nella scuola, come in altre esperienze settarie e religiose, erano legate a una struttura di tipo gerarchico; il grado inferiore era soggetto al veto di quello superiore e la proibizione era esercitata per mezzo del tabù. Il capo era il depositario della tradizione segreta e la gerarchia nell’ordine era indiscussa perché, se fosse venuta meno, si sarebbe compromesso l’equilibrio nella setta. I tabù, dunque, rinsaldavano le gerarchie e allo stesso tempo erano prove che gli adepti dovevano superare per dimostrare di meritare il grado successivo. L’ammissione degli allievi era subordinata a un giuramento e a rigorosi esami in cui il catecumeno doveva dimostrare fedeltà e fermezza nei propositi. L’elite di giovani a cui erano rivelati i segreti più profondi della comunità era divisa in «acusmatici» e «matematici»: ai primi era imposto il silenzio e una rigida disciplina di apprendimento, i secondi avevano la facoltà di porre quesiti ed esprimere opinioni personali. Il giovane iniziato era un uomo in viaggio: più soffriva la fatica e rinunciava ai piaceri più si avvicinava alla luce, più viveva in un mondo altro da sé, più raggiungeva il sapere. La verità sacra si apprendeva come salendo una scala: ogni gradino che l’adepto oltrepassava, acquisiva nuove conoscenze. «Arrivato alla frontiera non tornare indietro», diceva un «simbolo» di Pitagora e il senso era quello di invitare i sodali a non cedere alla fatica, alle privazioni e allo scoraggiamento che li accompagnavano durante il cammino verso la conoscenza. Per una comunità con un pensiero oligarchico e teocratico come quella di Pitagora, rimarcare le differenziazioni culturali verso il mondo esterno era fondamentale. Le minacce che provenivano da fuori spingevano gli adepti ad avere un sostegno spirituale e simbolico che andava verso l’integrità e la purezza. In una struttura piramidale come la setta pitagorica, i tabù avevano la funzione di tenere gli adepti lontani dal mondo esterno ed erigere differenze tra gli stessi adepti. Un maestro accresceva il proprio potere e il proprio carisma imponendo tabù a se stesso e agli altri e non aveva importanza se avevano un senso etico o morale, se erano utili o inutili, se erano logici o illogici. Al contrario, più i divieti erano indecifrabili più erano efficaci, più erano misteriosi più aumentavano l’autorità, più erano strampalati più accrescevano il carisma. Con l’avvento del cristianesimo molti tabù alimentari del mondo antico erano destinati a scomparire. I cristiani non avevano cibi proibiti dalla legge e non pensavano che ci fossero alimenti cattivi per loro natura. San Paolo, nella lettera agli Ebrei, ricordava che tutte le cose create dalle mani di Dio fossero monde e che nessuna cosa era impura per se stessa7. La Chiesa, nel corso dei secoli stabilì, tuttavia, che in alcuni periodi dell’anno e in occasione di riti solenni, i fedeli dovessero praticare il digiuno e astenersi dal consumare alcuni alimenti. Su cosa mangiare il dibattito rimase aperto e diversi chierici che facevano una differenza tra i cibi, erano accusati di «giudaizzare» i fedeli. Lunghe discussioni si accesero anche sulle caratteristiche «buone» e «cattive» degli alimenti. Nel Settecento, ad esempio, mentre diversi frati sostenevano che chi bevesse una chicchera di cioccolata peccasse poiché soddisfaceva più la gola che il ventre, altri erano del parere che la dolce bevanda non interrompesse il digiuno quaresimale e rinforzasse solo il ventricolo contro i pungoli della fame8. I chierici erano concordi tuttavia nell’affermare che il diavolo non tentasse i fedeli con i cibi vietati ma li spingesse a eccedere: non bisognava riempire smoderatamente il ventre poiché aggravava lo spirito e offuscava l’intelletto. Per san Tommaso chi mangiava alimenti che sapeva essere nocivi o chi mangiava di soverchio unicamente per soddisfare la gola, peccava mortalmente. Il digiuno era stato istituito per vincere le tentazioni e avvicinarsi a Dio e bisognava consumare i frutti della natura non elaborati dall’arte dei cuochi. La Chiesa condannava i fedeli che non osservavano il digiuno non perché rimanessero contaminati dagli alimenti, quanto perché non rispettassero le sue leggi divine: disobbedire alla Chiesa era come disobbedire a Dio. I fedeli che non osservavano il digiuno commettevano lo stesso peccato di Adamo ed Eva: il Padre Eterno aveva permesso di mangiare i frutti del paradiso terrestre, eccetto quelli dell’albero del bene e del male, ma i due, tentati dal demonio, disobbedirono e persero l’immortalità. Gli ordini monastici prevedevano severe condanne per i frati che mangiavano cibi proibiti9. I monaci dell’Ordine di san Francesco di Paola, durante i digiuni non dovevano toccare carne e latticini poiché l’astinenza corporale sollevava il sentimento, umiliava il cuore, toglieva la concupiscenza, smorzava la libidine e accendeva il lume della castità. Chi contravveniva al voto quaresimale era deposto da qualsiasi ufficio e imprigionato per tre mesi a pane e acqua10. Per i fedeli che trasgredivano i digiuni erano previsti: due giorni di pane e acqua per chi mangiava prima dell’ora stabilita, venti giorni di pane e acqua per chi trasgrediva il digiuno, sette giorni di penitenza per chi violava le privazioni nella Quaresima e quaranta per chi trasgrediva il digiuno dei «quattro tempora»11. Se l’autorità della Chiesa non era in grado di smascherare i trasgressori, ci pensava il Padre Eterno. Alcuni gentiluomini nolani diretti a un convento per la Pentecoste, avevano fatto portare a un servitore, di nascosto, carne e formaggio: improvvisamente il cielo diventò nero e scoppiò una terribile tempesta. Spaventato il servitore confessò al decano del monastero la sua colpa e, quando andò a prendere i cibi, li trovò pieni di vermi: il superiore li fece ridurre in cenere e la tempesta cessò12. Un anziano monaco di Ravenna che durante la sera di Natale si era abbuffato di vino e carne, mentre in cielo cantavano gli angeli e gli uomini festeggiavano la nascita di Gesù, pur essendo robusto e sano improvvisamente morì13. Un principe, rispettato e amato dai suoi sudditi perché viveva da buon cristiano e osservava i digiuni, si sentì male e morì dopo aver mangiato in occasione della Quaresima alcuni cibi proibiti14. 1. Cfr. Giovanni Sole, Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; Id., Pitagora e il tabù delle fave, in Il ritorno di Pitagora, «Quaderni di Pitagora», n. 3, Castello Fortezza di Crotone (4-5-6 settembre 2003), Amministrazione Comunale, Crotone 2005, pp. 33-61. 2. Cfr. Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna 1975. 3. Giamblico, op. cit., XVIII, 88, p. 383. 4. Ivi, XXIX, 161, p. 437. 5. Ivi, XXVIII, 135, p. 419; XXIII, 104, p. 395; XXIX, 161, p. 437. 6. Ivi, XXIV, 107, p. 397. 7. Cfr. Arnaud Bernard Duquesne, Lettere di san Paolo agli ebrei, a spese di Francesco Alessandri, Venezia 1794. 8. Daniele Concina, Memorie storie storiche sopra l’uso della cioccolata in tempo di digiuno, appresso Simone Occhi, Venezia 1748; Memorie veridiche contrapposte alle memorie istoriche sull’uso del cioccolate il giorno di digiuno, s.e., s.l., 1748. 9. Agostino Calmet, Commentario letterale, istorico, e morale sopra la Regola di S. Benedetto, per Michele Bellotti, Arezzo 1751, p. 81. 10. Regola de’ frati dell’ordine de’ Minimi di Francesco di Paola, da’ torchi di Raffaele Miranda, Napoli 1824, pp. 14; 62-63. 11. Daniello Concina, La disciplina antica e moderna della romana chiesa intorno al sagro quaresimale digiuno, appresso Simone Occhi, Venezia 1742, p. 37. 12. Marco De Masellis, Iconologia della madre di Dio Maria Vergine, per Onofrio Savio stampatore della Corte, Napoli 1654, p. 208. 13. Serafino Razzi, Giardino d’essempi, overo fiori delle vite de i santi, presso Daniel Zanetti, Venetia 1599, p. 6. 14. Lodovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa, appresso Sebastiano Domenico Cappuri, Lucca 1742, p. 314. Polpo e storici Le notizie degli scrittori antichi sui tabù alimentari devono essere utilizzate con cautela. Diogene Laerzio sostiene che Pitagora si nutrisse di miele, favo, pane, verdure e raramente pesci, ripetesse ai discepoli di non contaminare il corpo con pietanze empie e proibisse di sopprimere o nutrirsi d’animali poiché condividevano con gli uomini il privilegio dell’anima1. Secondo Porfirio, Pitagora raccomandava di non danneggiare o abbattere piante fruttifere e non sopprimere e mangiare bestie innocue per l’uomo2. In un frammento di Eudosso si legge che oltre a non mangiare animali, non si accostasse neanche a macellai e cacciatori3. Gli scrittori nei loro resoconti cadevano, tuttavia, in evidenti contraddizioni. Riguardo alle proibizioni alimentari, ad esempio, Diogene Laerzio affermava che il filosofo non uccidesse bestie per le divinazioni ma sacrificasse galli, capretti, porcellini e si astenesse dal mangiare solo il bue e l’ariete4. Giamblico confermava che Pitagora non immolasse nessun essere vivente e considerasse sacro il gallo ma poco dopo sosteneva che di tanto in tanto offrisse in sacrificio galli, agnelli e altre bestie5. Gellio assicurava che si nutrisse di carne e pesce ed era persino ghiotto di fave che consigliava vivamente per le loro qualità energetiche6. Aggiungeva, inoltre, che il musicologo Aristosseno, appassionato cultore di letteratura antica, affermasse che Pitagora di nessun altro legume facesse maggiore uso che delle fave, convinto che questo cibo rilassasse il ventre7. Secondo alcuni biografi lo stesso maestro e i suoi allievi erano contraddittori. Diogene, citando Timone, ricordava che Pitagora, sempre a caccia di discepoli per la sua scuola, «inclinava ad avere opinioni ammalianti»8. Cratino sosteneva che i pitagorici quando incontravano un profano, per dare sfoggio della loro bravura, gli confondevano la testa a suon di definizioni, antitesi e divagazioni9. Per altri, Pitagora, come Orfeo in Tracia, riuniva in sé le professioni di sacerdote, mago e sciamano, un demone capace di veri e propri «incantamenti»10. Era un despota bizzoso e superstizioso che sottoponeva i suoi allievi a regole di vita non sempre fondate sul buon senso e, per Timeo di Taormina, era insolente, arrogante e presuntuoso11. Eraclito scriveva che Pitagora fosse un «inventore di raggiri» e con una cultura in bilico tra l’erudizione e la ciarlataneria, tra la scienza e la magia12. E Aristofonte annotava che i pitagorici fossero frugali perché non avevano il «becco di un quattrino» e si dichiarava pronto a farsi impiccare dieci volte se, dinnanzi a un succulento piatto di pesce o carne, un pitagorico non si fosse mangiato anche le dita13! I documenti di cui disponiamo non sono sufficienti a ricostruire un’immagine autentica delle idee di Pitagora. La sua scuola era fondata su vincoli di segretezza e il filosofo stesso non ha lasciato alcun testo scritto, le regole della sua setta erano trasmesse oralmente da maestro a discepolo e, chi avesse svelato i dogmi ai non iniziati, veniva allontanato in maniera infamante. Apuleio annotava che il primo insegnamento di Pitagora era tacere: alle parole che i poeti definivano «alate» bisognava strappare le ali e serrarle dentro la cerchia dei denti14! I discepoli, dopo la sua morte, riportavano quanto aveva detto ma le loro testimonianze mostravano contraddizioni tali che, non a caso, Aristotele iniziò ad appellarli «cosiddetti pitagorici», sollevando forti dubbi che si limitassero a trasmettere la dottrina del maestro. Giamblico racconta che Ippodemonte di Argo, della cerchia degli acusmatici, sosteneva che Pitagora avesse fornito l’interpretazione di tutti gli akousmata ma, una volta tramandati da persone sempre più incolte, col passare del tempo se n’era perduta la spiegazione razionale15. Le vite di Pitagora, scritte molto tempo dopo la morte, appaiono come fantasiose e grossolane narrazioni basate su frammenti e testi anonimi, vere e proprie opere agiografiche in cui si rimarcano gli aspetti «miracolosi» e «meravigliosi». Il maestro che vola da una parte all’altra, trovandosi contemporaneamente in posti diversi, in grado di guarire, prevedere il futuro e che vive in maniera ascetica e rifugge dalle ricchezze, sembra più un santo cristiano che un filosofo greco! Le notizie degli storici sugli usi e i costumi delle popolazioni, erano spesso false o inattendibili. Polibio criticava duramente Timeo per avere prodotto le sue storie affidandosi unicamente a quanto era stato scritto dai suoi predecessori e, come tanti altri, aveva scelto questa via perché le informazioni desunte dai libri non comportavano rischio e fatica, spese e sacrifici16. La scienza storica richiedeva un attento studio delle fonti scritte, una conoscenza dei loro autori e delle idee relative a determinati paesi17. Gli storici dell’antichità riportavano quanto detto dai loro predecessori anche quando le notizie erano inverosimili e, per ricostruire le vicende umane, utilizzavano topoi, racconti non collegati a un tempo e a un luogo18. «Si dice», «ho appreso», «si narra», così scrivevano quando citavano fatti raccontati da altri, e, in tal modo, ognuno poteva dire ciò che preferiva poiché non era possibile stabilire la fonte. Pur mettendo a volte in rilievo i limiti dei colleghi, gli storici riportavano le loro narrazioni senza badare all’attendibilità dei documenti, lasciando ai lettori il compito di discernere il vero dal falso. Gli autori finivano così per copiarsi a vicenda, consegnando indigeste compilazioni di vecchie fantasticherie e aggiungendone di nuove quando s’imbattevano in qualche difficoltà19. Le cronache degli storici erano impermeabili alla critica in quanto attingevano a un fondo inesauribile di varianti alternative: la veridicità dei fatti, stava nella loro modificabilità e nella possibilità di raccontare nuove versioni. I racconti, non sottoposti ad alcuna regola, erano contrassegnati da un’arbitrarietà tipica delle storie leggendarie. Gli scrittori, probabilmente senza rendersene conto, finivano per essere creatori di miti, inventavano vicende eccezionali mettendole al servizio della storia, elaboravano racconti inverosimili presentandoli come veri, attuavano in definitiva un processo di storicizzazione degli eventi mitici. Non sappiamo se gli storici credevano realmente a certe narrazioni per noi ingenue, assurde e fantastiche. Veyne sostiene che, guardando il mondo greco con i nostri criteri, non capiremo mai perché furono incapaci di distaccarsi dalle loro menzogne20. Le stesse divinità ricorrevano alla menzogna pur di raggiungere i loro scopi: uomini e dei si riconoscevano nell’arte di dire il falso. Ulisse, simbolo dell’astuzia greca, era lodato per la capacità di mentire: raccontava spesso storie ingannevoli nelle quali riusciva a mescolare abilmente il vero e il falso tanto da raggiungere il verosimile21. Gli storici rispettavano le verità raccontate dagli altri perché come gli altri volevano essere creduti sulla parola, erano consapevoli che i lettori preferissero storie immaginarie a quelle vere e così, per commuoverli, impressionarli e coinvolgerli, raccontavano fatti inverosimili e fantastici. Diodoro Siculo affermava che una storia doveva procurare una qualche utilità senza essere noiosa22. Per catturare l’attenzione del pubblico erano inclini a un uso disinvolto delle fonti e, per rendere meno tediosi e prevedibili i racconti, mescolavano realtà e finzione. Tucidide ricordava ai lettori che la maggior parte degli storici, per non affaticarsi nella ricerca della verità, preferiva rivolgersi a versioni già pronte, senza tener conto che i poeti, con i loro «abbellimenti», le avevano esagerate per renderle più gradevoli all’ascolto23. Lo storico greco era consapevole che l’assenza del favoloso rendeva le sue narrazioni meno piacevoli, ma chi voleva la verità su ciò che era accaduto in passato, avrebbe apprezzato il suo modo di raccontare. Le sue storie erano scritte come un «possesso per sempre», piuttosto che come un «pezzo per competizione da ascoltare sul momento»24. Gli scrittori antichi, consapevoli dell’interesse diffuso per le culture esotiche e stravaganti, avevano creato un genere letterario in cui forte era l’attenzione verso etnografia, geografia e mitologia, genere che si sviluppava accanto alla storiografia. Senza preoccuparsi del controllo e del confronto delle fonti, proponevano un corso della storia costituito da eventi memorabili e sensazionali. Non eliminavano gli elementi mitici dagli eventi storici: i confini tra narrazione storica e narrazione mitica erano labili, esisteva un profondo legame tra storia e mito. Cicerone e altri eruditi dell’antichità rimproveravano ad alcuni scrittori di avere narrato la storia con la stessa fantasia con la quale si erano dedicati ai componimenti poetici25. Non possiamo escludere l’ipotesi che le narrazioni mitiche fossero considerate dagli scrittori come verità storiche e che valutassero come veri, fatti leggendari. Probabilmente alcuni storici pensavano che mettere per iscritto una tradizione orale non determinasse la creazione di un falso: per stabilire la verità era necessario correggere racconti poco credibili. Le storie di Ateneo o Eliano, ad esempio, erano chiaramente racconti ricchi di pathos per tenere desta l’attenzione dei lettori. Nel riportare gli eventi tendevano a ingigantire o mitizzare il passato, travestivano prodotti della fantasia con i panni di un’opera storica, cambiavano fatti inverosimili per farli apparire come veri. Diodoro Siculo lamentava che gran parte delle storie prodotte in passato avesse una scarsa utilità poiché gli autori avevano una visione limitata e perché, non avendo documenti sufficienti per scriverle, «trapassarono il racconto delle favole»26. Tucidide aggiungeva quanto fosse difficile credere a tutte le narrazioni storiche e che fosse necessario analizzare bene le fonti perché i testimoni spesso non restituivano la stessa versione degli avvenimenti ma li raccontavano seguendo le proprie simpatie27. Ecateo di Mileto, considerato il padre della storiografia greca, affermava di riportare solo quei fatti che a lui sembravano veri poiché i testi storici erano molteplici e ridicoli28. Arrivò a mettere in discussione una serie di vicende mitiche del passato ma Erodoto sosteneva che era un esaltato: a Tebe, ad esempio, rivendicò origini divine, collegando la sua stirpe a un dio della «sedicesima generazione»29. Ogni autore aveva una soglia che delimitava il meraviglioso dal normale. Alcuni, ad esempio, erano assertori dei fenomeni prodigiosi e dell’influenza delle manifestazioni divine sulle vicende umane. Erodoto non narra un passato leggendario e, a differenza d’Omero, non fa intervenire un dio in ogni evento, ma è convinto che le divinità, attraverso segni premonitori o per bocca d’oracoli, agissero per avvertire un popolo quando stava per essere colpito da grandi sventure30. A proposito dei vaticini, come quelli «chiari» fatti da Bachide, affermava che nessuno poteva mettere in discussione i suoi poteri e smentire la veridicità delle sue predizioni31. Non conosciamo bene quale fu la funzione degli storici nel mondo antico ma si può ipotizzare che il loro potenziale pubblico fosse più vasto rispetto a quello di un retore. Lo storico diventava l’oratore ideale per trasmettere insegnamenti paradigmatici e lo scopo delle loro avvincenti narrazioni non era solo quello di stupire il pubblico ma affermare la propria ideologia. I racconti epici e apologetici degli storici avevano un uso politico: rivalutare o disprezzare una parte del passato e proporre valori morali che contribuissero a formare una nuova coscienza. L’obiettivo degli storici era mostrare la verità e, a tale scopo, l’efficacia rivelatrice dei racconti era più importante dell’attendibilità dei documenti: per dare credibilità alle proprie idee usavano in maniera disinvolta le fonti, i fatti erano modificati se non addirittura inventati, il non vero era mescolato al vero risultando, a volte, più credibile di quest’ultimo. I racconti leggendari attraverso il loro fascino affermavano principi che divulgati, pur se fondati su fonti false, diventavano plausibili. Il tempo avrebbe dato autorità e attendibilità alle narrazioni. Anche se inconsapevolmente, gli autori mettevano in atto un meccanismo simile alla calunnia: calunniare, calunniare, calunniare, perché alla fine qualcosa resti32. Gli storici antichi non volevano raggirare i lettori ma affermare un modello di ethos dominante, stabilire ciò che era giusto e ciò che non lo era; non erano uomini al di fuori della società ma comunicavano esigenze condizionate dal proprio ambiente. Esprimevano la tradizione che avevano ereditato ed erano essi stessi prodotto della storia, il loro lavoro era esistenziale oltre che conoscitivo: comprendere il passato per mezzo del presente e il presente per mezzo del passato; studiare gli avvenimenti passati per comprendere, giustificare o condannare il presente. Dialogare col passato era anche un mezzo per risolvere problemi attuali e dare forma al futuro. Diodoro Siculo spiegava ai lettori che i compiti principali della storia fossero: esaltare la patria, togliere le «seduzioni e tentazioni de’ misfatti» e minacciare i cattivi di «infamia perpetua»33. A volte, consapevole della poca attendibilità dei racconti, lo storico precisava di riportare fatti appresi da altri senza sentirsi obbligato a credervi, altre volte prendeva le distanze da chi lo aveva preceduto e ne criticava aspramente il lavoro. Polibio, ad esempio, accusava Timeo di essere fazioso: riportava cose false deliberatamente e non per mancanza di conoscenza degli eventi34. Egli rimproverava molti autori di aver scritto le storie unicamente per ricercare la popolarità, proprio come quei ciarlatani che vendevano farmaci e utilizzavano ogni occasione per ingraziarsi il pubblico allo scopo di guadagnarsi da vivere35. Plutarco criticava Ctesia per avere inserito nei libri un variopinto miscuglio di cose non credibili che mortificavano il suo mestiere36. E Diodoro Siculo rimproverava Erodoto perché nei racconti faceva prevalere gli elementi inverosimili e sbalorditivi37. Polibio affermava in maniera chiara che il mestiere dello storico non si limitasse a riportare i fatti, ma anche a ricercare le ragioni per le quali i fatti fossero accaduti. Parlando della storia degli Achei nel Peloponneso, riguardo ad alcuni avvenimenti, scriveva che fosse inopportuno parlare di “fortuna” e che sarebbe stato meglio ricercarne le cause. Senza le cause, infatti, non accadeva nulla, né ciò che sembrava avvenire secondo ragione, né ciò che sembrava avvenire contro ragione38. La nuda esposizione degli avvenimenti avvinceva ma non recava utilità, la storia era fruttuosa solo se si individuavano le cause, anche se molti, poiché era faticoso e difficile, preferivano «ammucchiare frasi nei libri»39. Per questo motivo molti storici apparivano come certi conferenzieri i quali, dispensatori di banalità, sostenevano che in tempo di guerra ciò che al mattino sveglia gli uomini è il suono della tromba, mentre in tempo di pace è il canto del gallo; la guerra è simile alla malattia, mentre la pace è simile alla salute; in tempo di pace i vecchi vengono sepolti dai giovani, mentre in tempo di guerra avviene il contrario; in guerra non esiste sicurezza neanche nella propria casa, mentre in pace si estende oltre ai confini40. 1. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 19, p. 215; VIII, 13, p. 211. Cfr. Carmelo Fucarino, Pitagora e il vegetarianismo, Giannone, Palermo 1982. 2. Porfirio, op. cit., 39, p. 279; Giamblico, op. cit., XXIV, 108, pp. 179; 397-399. 3. Porfirio, op. cit., 7, p. 261. 4. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 20, p. 215. 5. Giamblico, op. cit., XXVIII, 147, p. 427; 150, p. 429. Cfr. Marcel Detienne, Jean-Pierre Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino 1982. 6. Aulo Gellio, Le notti Attiche, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1992, vol. I, p. 437. 7. Ibidem. 8. Diogene Laerzio, op. cit., 36, p. 225. 9. Ivi, 37, pp. 225-227. 10. Giamblico, op. cit., XXV, 114, p. 403. Cfr. Eric Robertson Dodds, Parapsicologia nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1991. 11. Ateneo, op. cit., 163e, p. 13. 12. Maurizio Giangiulio (a cura di), op. cit., p. 3. 13. Cfr. Maria Timpanaro Cardini (a cura di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 379. 14. Apuleio, Florida, XV, Editrice Torinese, Torino 1984, XV, pp. 492-493. 15. Giamblico, op. cit., XVIII, 87, p. 383. 16. Polibio, Storie, XII, 26, 2-4, Rusconi, Milano 1987, p. 831. 17. Ivi, XII, 25, 1-5, p. 821. 18. Cfr. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 21-28. 19. Cfr. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, cit., pp. 131-144; Cfr. Id., Il barbaro buono e il falso beato. Sull’invenzione della storia e della tradizione in una città di provincia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013; Id., L’invenzione del calabrese. Intellettuali e falsa coscienza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015. 20. Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, il Mulino, Bologna 1984, p. 153. 21. Cfr. Marcel Detienne, Jean Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1999. 22. Biblioteca storica di Diodoro Siculo, I, Proemio, tip. Gio. Battista Sonzogno, Milano 1820, p. 6. 23. Tucidide, Le storie, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino 1982, vol. I, pp. 121-123. 24. Ivi, I, 22, 4, pp. 123-125. 25. Marco Tullio Cicerone, Arringa in difesa di Lucio Flacco, 4, 9, in Le Orazioni, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino 1981, p. 1039. 26. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, cit., p. 5. 27. Tucidide, op. cit., pp. 121-125. 28. Cfr. Carlo Del Grande, Hybris. Colpa e castigo nell’espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia Antica (da Omero a Cleante), Ricciardi, Napoli 1947, p. 213; Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, cit., pp. 63-73. 29. Erodoto, Storie, II, 143, 1, Newton, Roma 1997, p. 153. 30. Ivi, VI, 27, 1, p. 332. 31. Ivi, VIII, 77, p. 464. 32. Ivi, VII, 10, 2, p. 330. 33. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, cit., pp. 2-3. 34. Polibio, op. cit., XII, 12 (7), 1-7, pp. 802-803. 35. Ivi, XII, 3-7, pp. 821-822. 36. Plutarco, La vita di Artaserse, I, 4, in Plutarco, Le vite di Arato e di Artaserse, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, p. 119. 37. Diodoro Siculo, op. cit., X, 24, 1, p. 92. 38. Polibio, op. cit., II, 39, p. 505. 39. Ivi, XII, 25b, 1-2, p. 818. 40. Ivi, XII, 26, 1-8, p. 827. Diogene e il polpo Il successo di un alimento non è legato solo a motivazioni simboliche o rituali ma anche al gusto, non solo alle strutture mentali ma anche alla qualità delle singole derrate. Se alcuni cibi sono buoni da pensare, dipende dal fatto che sono buoni da mangiare: il cibo deve soddisfare lo stomaco prima che la mente1. L’ostilità dei sacerdoti ebrei ed egiziani nei confronti dei polpi probabilmente era dovuta al fatto che fossero difficili da cuocere, non appetitosi e poco digeribili. Astenersi dalle loro carni era una norma d’ordinaria prudenza, un consiglio per non andare incontro a dei rischi. I pitagorici legavano il buono da mangiare non solo al sapore ma anche alle proprietà degli alimenti per tenere in salute il corpo e l’anima2. Giamblico sosteneva che fossero particolarmente attenti alla dieta e che furono i primi a studiare con cura gli alimenti e la loro preparazione3. Porfirio annotava che per Pitagora esistevano due specie di piaceri: quello che compiaceva il ventre e i sensi in modo stravagante e dispendioso, paragonabile al canto omicida delle Sirene e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, confrontabile all’armonia delle Muse4. Il vitto dei pitagorici, per Laerzio, era soprattutto a base di vegetali perché si potevano mangiare anche crudi e ripudiavano le «varie misture» perché generavano insani moti nel corpo e nell’anima5. Giamblico scriveva invece che Pitagora rifiutava quei cibi che producevano disordine all’organismo ed esortava a evitare tutto ciò che era d’ostacolo alla facoltà profetica e alla purezza dello spirito6. Per essere buono da pensare un cibo deve anche essere buono da mangiare ma lo stesso alimento può essere prelibato in un luogo e ripugnante in un altro, può essere apprezzato in un’epoca e disprezzato in un’altra. In un trattato sul vitto e sulle cene degli antichi, Averani precisava che il modo in cui gli uomini gustavano i sapori non erano gli stessi e che carestia e abbondanza, prezzo eccessivo e vile, davano e toglievano il sapore alle vivande. La stessa età influiva su ciò che era buono da mangiare: i cibi che allettavano i giovani, ad esempio, non erano apprezzati dai grandi7. Denys de Montfort, nel saggio sui cefalopodi, scriveva che i polpi erano ricercati nei convivi degli antichi greci ma che nel corso del tempo non furono più apprezzati e pochi fra i greci moderni se ne cibavano. Lo studioso, inoltre, osservava che un cibo simbolo di lusso e delizia per un popolo fosse considerato nauseabondo e disprezzabile da un altro e che in uno stesso popolo la fortuna di un cibo fosse destinata a mutare nel corso del tempo8. Ai tempi della guerra di Troia si servivano canestri di pane e si arrostivano allo spiedo succulenti pezzi di bue, pecora, capra o maiale serviti dalle ancelle ai commensali. Ateneo scriveva che alla mensa d’Agamennone, offerta ai capi militari, non fosse gradita la varietà o la ricercatezza dei cibi e che Omero, nonostante la pescosità del mare greco, non accennasse mai a pranzi di pesce9. Menelao e i suoi uomini avevano mangiato pesce solo perché costretti dalla fame e Anassila scriveva che servire pesce arrostito fosse come trattare gli ospiti da malati e che sarebbe stato meglio cuocere grugni e piedi d’animali10. Il mangiatore di carne più noto della Magna Grecia era Milone, figlio di Diotimo, vincitore di ben sei Olimpiadi11. Diodoro racconta che in occasione della battaglia contro i Sibariti, si presentò sul campo cinto dalle corone che aveva conquistato nei giochi e, vestito con pelle di leone e armato di clava come Ercole, grazie alla sua straordinaria forza fisica mise in fuga le schiere nemiche12. Pausania sostiene che fosse in grado di tenere in mano una melagrana senza farla danneggiare nonostante più persone tentassero di strappargliela con la forza; reggendosi in piedi su un disco cosparso di grasso, ridicolizzava chi cercava di buttarlo giù e riusciva a spezzare una corda legata intorno alla fronte trattenendo il fiato e gonfiando le vene13. Strabone scrive che a Crotone salvò i sodali della scuola pitagorica riuniti in un tempio, sostenendone da solo il soffitto prossimo al crollo14. Ateneo, citando Teodoro di Ierapoli, riferisce che a tavola bevesse tre boccali di vino e mangiasse dieci chili di carne e altrettanti di pane15. A Olimpia prese un toro di quattro anni, lo caricò sulle spalle, lo portò per lo stadio, lo uccise con un pugno, lo squartò e lo mangiò16. Filarco narra che Milone divorò un toro stando seduto di fronte all’altare di Zeus e il poeta Dorieo aggiunge che sollevò l’animale come se fosse un agnello17. Dorieo, infine, afferma che stupore e prodigio più grandi ci furono quando dinnanzi a un altare di Pisa, macellò e mangiò da solo un toro mai aggiogato che aveva portato in processione18. Il pesce non era un cibo adatto ai guerrieri e agli eroi, ma Ateneo assicura che gli antichi greci, anche se pensavano che non dava benefici, mangiassero molto pesce, compresi crostacei e molluschi19. Timeo di Tauromenio riferisce che diversi filosofi, come lo stesso Aristotele, prediligevano il consumo di pesce e che Aristippo, discepolo di Socrate, fu rimproverato da Platone perché ne comprava in abbondanza20. L’oratore Demostene rinfacciava a Filocrate dissolutezza e ingordigia perché spendeva tutto il denaro intascato con i suoi loschi affari in pesce e prostitute21. Diocle, era talmente ghiotto di pesce che ne inghiotte uno così, caldo da bruciargli seriamente la volta del palato e da giungere a vendere le proprie terre per acquistarne in quantità22. Quando morì Carmo, suonatore di aulo molto ingordo di pesce, Tecnone, decano degli auleti, fece grigliare sulla sua tomba del pesce23. Aristodemo racconta che il ghiottone Eufranore, appena seppe che un suo amico era morto per aver divorato un trancio di pesce troppo caldo, esclamò: «La morte è proprio una ladra sacrilega!»24. Demilo, gran mangiatore, durante il banchetto di un nobile sputò su un piatto di pesce pregiato per gustarlo da solo25. Antifane scriveva che Matone avesse messo alle sue dipendenze tutti i pescatori della città per paura di rimanere senza scorte, aveva messo alle sue dipendenze i pescatori della città mentre Diogitone, nonostante fosse un democratico, aveva convinto i pescatori a lavorare solo per lui per avere sempre pesce fresco26. Al tempo di Pericle, quando Atene giunse al massimo grado di potenza, sulle tavole si vedevano pesci preparati in vari modi in luogo dei grandi pezzi di carne27. Eliano racconta che a Rodi chi mangiava pesce fosse considerato colto e raffinato ed era elogiato dai concittadini, mentre chi propendeva per la carne era reputato rozzo e ingordo28. Archestrato di Gela, secondo alcuni precursore di Epicuro, annotava che nella mensa dei coloni greci i pesci fossero il cibo più gradito: in alcune città, come Sibari e Siracusa, l’arte della cucina era stimata al pari delle scienze e vi erano cuochi che preparavano i pesci con grande maestria. In un trattato di gastronomia dedicava molta attenzione ai pesci indicandone le specie più rinomate, i luoghi di provenienza, le stagioni in cui si pescavano e il modo di prepararli. Riguardo ai polpi scriveva che ottimi erano quelli che si catturavano in Caria, Taso e Corcira e, se erano di grandi dimensioni e con la carne dura, per esaltarne il sapore era sufficiente bollirli e condirli con sale e olio29. Antenore scriveva che nelle polis greche il lusso era stato introdotto anche nei pranzi dove si servivano le vivande più costose e diversi oratori erano costretti a condannare quegli apparecchiatori di tavole che passavano la loro vita a ingrassare i ventri30. I nobili chiamavano cuochi di professione per i loro convivi e gareggiavano per fasto e magnificenza. Fra i patrizi greci che si recarono a Sicione per partecipare alle gare di corsa e lotta, il nobile Smindiride, secondo Eliano, arrivò al porto con una galea di cinquanta remi e con un seguito di mille cuochi, mille uccellatori e mille pescatori, superando, quindi, le magnificenze dello stesso re31. Gli storici raccontano che i Sibariti amassero vivere nel lusso e secondo Timeo, non era un caso che avessero rapporti soprattutto con Etruschi e Ioni, popoli dediti a ogni tipo di piacere32. Erano amanti del cibo e incredibilmente ingordi e Zenobio annota che si diceva «mensa sibarita», quando si volevano indicare lusso smodato e vivere voluttuoso33. Organizzavano frequenti banchetti e i cuochi che meglio avevano apparecchiato le vivande erano premiati e i loro nomi proclamati solennemente durante i sacrifici e le gare sportive34. Ateneo ricorda che la legge sanciva la possibilità di sfruttare solo dopo un anno le ricette dei cucinieri artefici di pietanze gustose e raffinate35. I simposi dei Sibariti erano celebrati dovunque per la rarità dei piatti e perché gli ospiti erano allietati da grandiosi spettacoli, come le danze dei cavalli al suono degli auli36. Gli Spartani si comportavano diversamente. Il cuoco Miteco, stimato dai greci nell’arte della cucina quanto Fidia in quella della scultura, recatosi a Sparta per mostrare le sue doti, fu invitato dal magistrato a ripartire immediatamente dato che i Lacedemoni non avevano bisogno di cibi delicati, sdegnavano i condimenti e si giovavano di cibi semplici che li facevano crescere come leoni37. Antenore scriveva che, a differenza degli altri Greci, desinavano nelle case solo quando tornavano tardi dalla caccia o quando dovevano fare sacrifici agli dei. Ogni giorno si recavano nelle pubbliche mense, dette fiditie, dove il re, gli efori e i cittadini d’ogni classe mangiavano attorno a tavole di quindici posti con rozze panche di legno. Tutti portavano mensilmente farina, olio, vino, formaggio e monete per comprare carne che i cuochi cocevano lentamente in un brodo nero con l’aggiunta di sale e aceto. Fanore riconosceva che quello era un modo meschino di desinare e tuttavia tutti mangiavano con grande appetito, mentre Demonace precisava che per i cittadini le migliori pietanze fossero la fratellanza e l’allegria38. Col tempo la dieta alimentare cambiò anche a Sparta. Lo storico Filarco racconta che a un certo punto i cittadini cominciarono a non frequentare più le mense comuni perché troppo austere, e a consumare i pasti nelle case, dove ostentavano coppe preziose e pietanze preparate in mille modi. Areo e Acrotato cominciarono a ispirarsi ai fasti della corte persiana, ma furono superati nel lusso da alcuni nobili al punto che i loro convivi apparivano semplici e frugali39. Teopompo scriveva che all’epoca di Filippo i nobili imbandivano tavole sontuose, avevano a servizio rinomati cuochi, occupavano un gran numero di servi e spendevano per pranzi e cene più di quanto prima occorresse per feste e sacrifici40. I Romani nei primi secoli mangiavano soprattutto carne, ma a un certo punto divennero talmente ghiotti di pesce che, senza badare alle spese, cominciarono a importarli da tutti i porti del Mediterraneo. Plinio racconta che Asinio Celere, console del principato di Caligola, sfidò gli «amatori di triglie» acquistandone una per ottomila sesterzi41. Secondo Plutarco, erano considerati «golosi» quei cittadini che andavano spesso in pescheria e così grande era la loro passione per il pesce di aver preso il cognome di Murena o Orata42. Licinio Murena costruì vivai per avere a disposizione ogni specie di pesce e Lucullo fece tagliare una montagna nei pressi di Napoli per aprire un canale che si congiungesse al mare. Gaio Irrio aveva fatto costruire una peschiera per le cene trionfali di Cesare che arrivava a contenere seimila murene e presso Bauli, nella parte verso Baia, l’oratore Ortensio aveva una murena che amava a tal punto da piangere quando morì43. Nei secoli seguenti la presenza del pesce nelle mense aristocratiche subì una forte riduzione a vantaggio della carne. Platina agli inizi del Cinquecento notava che i pesci raramente arrivassero sulle tavole dei ricchi poiché la loro «umida natura» generava sangue flemmatico, mentre il baccalame danneggiava il corpo per il sale eccessivo44. Gli studiosi scrivevano che gli animali marini fossero poco salubri e nutrienti e, soprattutto alcune specie, come quelli senza squame, rendessero denso il sangue, diminuissero la traspirazione e provocassero malanni come elefantiasi, scorbuto, lebbra e melanconia45. Diversi medici rilevavano che le famiglie dei pescatori si ammalassero più facilmente di scorbuto e lebbra perché mangiavano pesci e ne respiravano il fetore quando andavano in putrefazione46. Alcuni storici sostenevano che gli ebrei erano stati cacciati dall’Egitto perché diffondevano la lebbra e ciò aveva spinto i rabbini ad aborrire alcuni pesci perché provocavano la malattia47. In un trattato di polizia sanitaria si legge che la lebbra colpisse soprattutto nei paesi marini: i Greci, cibandosi solo di pesci, ne erano più contagiati dei Turchi che consumavano esclusivamente carne48. In Italia la lebbra sembrava attecchire nei villaggi lungo la costa; un’inchiesta dell’Ottocento sulla salute pubblica rilevava che nelle famiglie dei pescatori siciliani, soprattutto quelle di Trapani, la malattia fosse endemica49. I medici spesso avanzavano teorie non suffragate da ricerche attendibili. Il medico Biagi ricordava ai colleghi che la lebbra oltre a diffondersi nelle zone lungo il mare, era presente anche in Valle d’Aosta, nella contea di Nizza e in altre zone subalpine. Se nei borghi di pescatori del Comacchio vi erano molti lebbrosi, in quelli più insalubri e più poveri del litorale ferrarese, invece, la malattia era sconosciuta50. In un saggio di tossicologia, De Philippis sosteneva che alcune specie di pesci comuni, come le orate, consumate in alcuni periodi dell’anno, fossero in grado di causare gravi accidenti e in alcuni casi anche la morte51. Le orate, in realtà, specie quelle che si nutrivano d’ostriche, erano state celebrate da tutti per la leggerezza delle carni. Carletti scriveva che erano capaci di somministrare molecole organiche atte a nutrire il corpo senza il minimo «disordinamento»52. Lacépéde aggiungeva che i Romani le tenevano in pregio più d’ogni altro pesce per la superiorità del gusto e la salubrità delle carni e, come il nobile Sergio, soprannominato «Orata», erano disposti ad acquistarle a prezzi esorbitanti. Le orate avevano diverse qualità terapeutiche ed erano particolarmente apprezzate per la loro virtù purgativa, perché guarivano dalle indigestioni ed erano in grado di neutralizzare alcune sostanze venefiche53. Alcuni sanitari, citando antichi studiosi, sostenevano che il pesce non era dannoso per la salute degli uomini. Aristotele, ad esempio, aveva osservato che, a differenza degli altri animali, non fossero affetti da pestilenza, non possedessero qualità malsane e non fossero proclivi alla corruzione. Diodoro sosteneva che i pesci abbreviassero i giorni dell’uomo, facendoli però passare esenti dalle malattie54. Il medico Benzo, autore di un noto saggio su alimenti e salute, pur non esaltando le qualità dei pesci, ammetteva che gli abitanti del Nord Europa, nutrendosi essenzialmente delle loro carni, fossero sani, forti, robusti e atti a ogni fatica55. Bloch osservava che i popoli ittiofagi vivessero a lungo, perché la loro dieta non produceva quelle gravi indigestioni che conducevano alla morte chi si nutriva di animali terrestri56. In un trattato del Settecento su come prolungare la vita, si legge che il pesce fosse più digeribile della carne e indicato per chi avesse stomaci delicati: erano preferibili i pesci dalle carni bianche e non viscosi perché, meno saporiti ma più assimilabili degli altri57. Bianchi, medico primario di Rimini, nel rivolgersi ad alcuni novelli pitagorici che sconsigliavano vivamente il consumo dei pesci, scriveva che gli animali marini fossero saporiti e nutrienti e, non a caso, il loro prezzo superava quello degli animali terrestri. Per la «brevità» delle fibre i pesci si digerivano facilmente e le popolazioni della costa, erano più sane e feconde di quelle dell’entroterra58. Secondo alcuni sanitari i pesci erano dannosi perché, a causa del caldo e della lentezza del trasporto, arrivavano ai mercati già in uno stato di putrefazione. Per proteggere la salute pubblica, gli amministratori erano stati costretti a imporre che il pesce fosse venduto il giorno stesso della cattura59. I pesci guasti provocavano nausee, vomito, gastriti e febbri intermittenti e, sebbene fosse facile riconoscerne la freschezza dall’occhio vivo, le branchie rosse, le carni elastiche e le squame lucide, gli astuti commercianti sapevano come ingannare i clienti poco accorti60. Sardelle, salacche e aringhe salate o affumicate, conservate da un anno all’altro, diventavano nauseabonde e presentavano vermi fra le branchie, mentre il pesce arrostito e conservato in aceto, che confezionato in autunno si vendeva contro legge anche in estate, era avariato e puzzolente61. Lo stoccafisso e il baccalà erano immersi per alcuni giorni nell’acqua per ammorbidirne le fibre ma alcuni avidi commercianti, per rendere le carni più voluminose e bianche, li tenevano in una concia composta di cenere e calce che produceva forti dolori al ventre62. Verso la metà dell’Ottocento, lo studioso Valieri scriveva che per ingordigia, economia, abitudine e «soverchio cattolicismo», i napoletani erano ittiofagi tre giorni la settimana e, di solito, mangiavano pesce marcio. Il pescato locale non era sufficiente a soddisfare la domanda e quello trasportato dalla Sicilia, in genere polpi, tonni, pesce spada, merluzzi, sgombri, lacerti, gronghi e murene, per il caldo e la lunga traversata, arrivava sempre avariato, provocando coliche, diarree, febbri e altre malattie63. Per trarre in inganno anche i più esperti acquirenti, i pescivendoli tingevano le branchie dei pesci e li avvolgevano con alghe fresche e odorose; bettolieri, osti e cantinieri, per risparmiare, compravano pesce già andato a male e lo «accomodavano» cocendolo nei sughi; i cucinieri di strada acquistavano frattaglie di pesce deteriorato e coprivano il puzzo friggendolo nella sugna o nell’olio rancido; i venditori di baccalà e stoccafisso li facevano andare in putrefazione perché diventavano più teneri e il loro fetore era così forte che in alcuni quartieri bisognava tenere le finestre chiuse64. I pesci salati, in genere, erano meno puzzolenti ma, tenuti in luoghi umidi e sporchi, una volta dissalati, erano nocivi e mostravano la loro «malignità» dopo uno o due giorni65. Già Eraclide di Taranto avvisava che i pesci conservati sotto sale, contenenti un «principio irritante», fossero particolarmente dannosi per lo stomaco e sconsigliava di mangiarli66. Fortis lamentava che olandesi e commercianti stranieri scaricassero a Venezia ogni tipo di baccalame, un cibo maleodorante e insalubre che avvelenava le povere mense dei contadini67. Per limitare i danni dei pesci freschi e salati, richiamandosi ai principi della scuola salernitana, alcuni medici raccomandavano di mangiarne in quantità limitate e sempre cucinati: il crudo era veleno e il cotto medicina, il cotto sollevava il corpo e il crudo aggravava lo stomaco68. Savonarola, medico padovano, avvertiva inoltre che fosse preferibile mangiare il pesce appena preparato e il miglior modo per cuocerlo era lessarlo con sale e cinnamomo perché la maggior parte della sua «malizia» rimaneva nell’acqua69. I medici raccomandavano di non darlo agli infermi e, negli ospedali romani come quello del S. Spirito di Sassia, durante il 1708 il pesce non appare mai nel vitto giornaliero dei ricoverati e del personale sanitario, basato essenzialmente su pane, pancotto, vino, uova, riso, farro, vermicelli, zucchero, farina e ogni tanto carne di gallina, vitello o castrato70. Anche negli ospizi non si dava mai pesce agli assistiti e solo in alcuni, come quello dei Poveri mendicanti di Napoli che raccoglieva vecchi, storpi e gente colpita da «maligna fortuna», il sabato si distribuiva un piatto di legumi con tonnina, sarache, alici salate o baccalà71. I pesci che arrivavano sulle tavole spesso erano avariati e provocavano seri danni alla salute ma i sanitari erano del parere che molti dei loro cattivi effetti dipendessero anche dalla profusione di aromi e spezie con cui si cucinavano72. Ippoloco, descrivendo un pranzo offerto alle nozze di Carano in Macedonia, narra che furono servite pietanze d’ogni tipo, tra cui un grosso maiale arrosto disteso su un vassoio d’argento con la pancia piena di cibi gustosi tra cui tordi, matrici di scrofa, beccafichi, torli d’uova, pesci, ostriche e pettini73. Corrado, diversi secoli dopo, consigliava di riempire le spigole con un ragù d’animelle e rognone di bue, di cuocerle con butirro, erbe e sugo di carne, servendole con «lolì» di vitello; occorreva friggere le linguattole nello strutto e, dopo aver cavato la spina, riempirle con salsa di carne e midollo di manzo, tuorli d’uova ed erbe aromatiche. Dopo averle ingrassate con burro andavano arrostite e coperte con salsa di butirro, sugo di limone, ragù di funghi o tartufi e una salsa di gamberi e bottarga. L’ombrina poteva essere preparata con un impasto di burro, uova, cedro candito, pistacchi, erbette tritate, panna e pane bagnato nel latte74. Per fare un pasticcio di pesce, Upezzinghi consigliava acciughe, tinche, reine, anguille, erbette odorose, cipolle, mostacciolo in polvere, capperi, pioppini, prugnoli, uva passa, scorza di cedro, limone, aceto, vino bianco e aromi vari75. Sulla bontà dei pesci i pareri erano discordi ma tutti gli scrittori concordavano nel ritenere i polpi dannosi per la salute. Si raccontava che Diogene di Sinope, detto il «cinico», mangiò un polpo crudo e, rivolgendosi ai sacerdoti che lo guardavano, coprendosi col mantello prima di morire, disse di essersi esposto a quel rischio per causa loro: rischio pari a quello che Pelopida e Aristogene affrontarono per liberare rispettivamente Tebe e Atene dai tiranni76! Macone scriveva che il poeta Filosseno, ghiotto di pesce oltre ogni misura, comprò a Siracusa un polpo di due cubiti, lo cucinò e lo mangiò, evitandone la testa. Ebbe una grave indigestione e il medico, vedendo che era ormai in fin di vita, gli consigliò di fare testamento. Lui disse di aver stabilito da tempo a chi lasciare l’eredità e, poiché Caronte lo invitava ad affrettarsi al traghetto, chiese di poter mangiare gli avanzi del polpo77! Non sappiamo se queste storie abbiano un fondamento. Alcuni scrittori, ad esempio, sostengono che Diogene si uccise trattenendo il respiro e, altri, che fosse stato sbranato da cani78. Sulla fine di Filosseno di Citera ci sono versioni diverse. Durante una cena Dionigi gli mostrò alcuni versi per averne l’approvazione e, quando gli disse che erano pessimi, irritato lo fece rinchiudere nella terribile «petriera». Invitato nuovamente dal tiranno ad ascoltare altre rime, non migliori delle precedenti, Filosseno si alzò dalla tavola e chiese di essere ricondotto in prigione. Dionigi si mise a ridere e lo pregò di rimanere nella polis ma il poeta lasciò Siracusa per trasferirsi a Taranto e poi a Efeso, dove morì all’età di sessant’anni79. Ateneo, invece, racconta che Filosseno, amante del pesce e dei banchetti, si ubriacava volentieri con Dionigi ma un giorno, sorpreso a insidiare Galatea, favorita del tiranno, fu rinchiuso nelle «Lotomie», cave di pietra di Siracusa adibite a bagno penale80. Le narrazioni mitiche riferite ai polpi sono raccontate in modo diverso e decifrarle, come sostiene Lévi-Strauss, è possibile solo attraverso l’analisi delle innumerevoli varianti contenenti i modelli fondamentali di natura logica ricorrenti81. Il mito, attingendo e riadoperando materiali, utilizzando residui e frammenti d’eventi, appare come una forma di «bricolage» intellettuale82. Alcuni racconti leggendari, tuttavia, pur apparendo assurdi, erano riferiti alla realtà e servivano a rivelare un inconscio sociale. Le storie inverosimili raccontavano esperienze, trattavano aspetti dell’esistenza, mostravano i conflitti tra forze umane e naturali, cercavano di stabilire un equilibrio tra l’uomo e l’ambiente. Le narrazioni drammatiche su Diogene e Filosseno, probabilmente erano descrizioni deformate della storia, di avvenimenti realmente accaduti. Alcuni cibi erano ritenuti pericolosi per la salute degli uomini e il mito, suscitando meraviglia e timore li spingeva a esseri cauti. I tabù segnalavano i rischi che si potevano incontrare mangiando alcuni alimenti, tendevano a limitare o localizzare una minaccia, definivano culturalmente cibi indigesti o velenosi. Il divieto di mangiare polpi probabilmente non aveva ragioni misteriose ma era una semplice raccomandazione: le loro carni particolarmente indigeste non favorivano la sanità del corpo e dell’anima. La fine di Diogene e Filosseno era un modo semplice per avvisare che i polpi potessero essere dannosi per la salute e che bisognasse usare una certa cautela nel cibarsene; i racconti mitici segnalavano la pericolosità d’alcuni cibi e gli uomini, invece di interrogarsi sulle ragioni del divieto, ne rimanevano colpiti e li rispettavano83. Nel corso dei secoli il polpo non è stato mai apprezzato nelle mense perché le sue carni erano dure, tigliose e di non facile digestione. Galeno scriveva che i pesci senza squame e dalla pelle simile a quella umana, come seppie, calamari, totani e polpi, anche se davano discreto nutrimento, erano difficili da assimilare84. I medici della scuola salernitana, sostenevano che non bisognasse mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, erano resistenti alla digestione e avvelenavano il sangue85. Alcuni manuali di cucina avvertivano che in generale i molluschi fossero tossici quanto i funghi e particolarmente indigesti fossero i tentacoli e le ventose dei polpi86. Palmieri ribadiva che bisognava evitare il consumo di pesci senza squame come anguille, ostriche e polpi perché particolarmente difficili da digerire per le carni tigliose87. In un trattato in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i polpi incitassero all’incontinenza, erano poco nutrienti e particolarmente dannosi per lo stomaco88. Un’inchiesta dedicata all’alimentazione del popolo minuto avvisava che sebbene i polpi non fossero privi di sostanze nutritive, non bisognasse abusarne per la presenza di parti «gelatinifere» che si assimilavano con difficoltà89. Indicati concordemente come dannosi per la salute, i polpi erano tra i pesci meno apprezzati. Le ventose presenti sui tentacoli erano sgradevoli e la carne talmente coriacea che bisognava trattarla prima di essere cucinata. Ancora oggi lungo le coste del Mediterraneo è possibile vedere i pescatori sbattere con forza i polpi sugli scogli per farne intenerire le carni. In passato si stendevano sopra una tavola e, con le mani bagnate nell’acqua fresca, si rimenavano come per fare una «insaponata» fino a che i tentacoli, gonfiandosi, diventavano più teneri e si assimilavano meglio90. Nei modi di dire, spesso il polpo era usato come metafora per indicare una persona dalla testa dura che occorreva percuotere per rabbonirla. Aristofane racconta di un uomo poco raccomandabile che bisognava battere «a mo’ di polpo ispessito», mentre Platone, annunciando una sonora lezione a uno schiavo, scriveva che occorresse menarlo come si faceva con i polpi91. L’octopus aveva una natura maligna, si dilettava di cose amare e per questo motivo non viveva nel mare di Negroponte dove, per i molti fiumi che vi sfociavano, le acque erano più dolci92. Era considerato un essere immondo e, non a caso, le escrescenze carnose che si sviluppavano nel naso e in altre parti del corpo umano erano chiamate «polipi». Quei bubboni maligni che provocavano tormenti, se non erano tagliati alla radice ricrescevano come i tentacoli dei polpi93. Partendo dal principio che il simile curava il simile, per neutralizzare il «morbo del polpo» si consigliava anche l’«erba polpo», una pianta irsuta, piena di bocche cavernose e con le braccia come quelle del mollusco94. I giudizi negativi nei confronti dei polpi non devono tuttavia indurci a pensare che fossero disprezzati nelle mense dell’antichità. Egemone nella Filinna racconta che un padrone ordinò a un servo di andare subito al mercato e di comprargli un bel polpo da cuocere in padella95. Anassandride nel Protesilao, descrivendo il simposio per le nozze d’Ificrate con la figlia del re di Tracia, narra che a tavola furono serviti pentole di miglio, dodici cubiti di lampascioni e una gran quantità di polpi96. Antifane nell’Eutidico riferisce che in un pranzo tra alcuni notabili della città, furono serviti gustosi pezzetti di polpo lesso in preziosi piattini97. Epicarno nelle Sirene, scriveva che di buon mattino, allo spuntar del sole, gli abitanti mettevano sulla griglia alici tondeggianti, carne di maiale e grossi polpi, annaffiandoli con del buon vino98. Il poeta comico Platone, ricordando il Banchetto di Filosseno di Leucade, annotava che per quanto i tentacoli di un polpo grande fossero particolarmente duri, se battuti a puntino e bolliti divenivano squisiti99. 1. Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi, Torino 1992, p. 5. 2. Giamblico, op. cit., XXXI, 208, p. 469. 3. Ivi, XXIX, 163, p. 439. 4. Porfirio, op. cit., 39, p. 279. 5. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 13, p. 211. 6. Giamblico, op. cit., XXIV, 106, p. 397. 7. Giuseppe Averani, Del vitto e delle cene degli antichi, G. Daelli e C. editori, Milano 1863, p. 27. 8. Pierre Denys de Montfort, op. cit., p. 434. 9. Ateneo, op. cit, I, 8e-9d, vol. I, pp. 28-32. 10. Ivi, I, 95a, 48, vol. I, p. 256. Cfr. Ernst Guhl, Wilhelm Koner, La vita dei greci e dei romani ricavata dagli antichi monumenti, Loescher, Roma-Torino-Firenze 1875, pp. 295-301. 11. Pausania, Viaggio in Grecia. Guida antiquaria e artistica, Milano, Rizzoli, Milano 2001, VI, 5-9, p. 365. 12. Diodoro Siculo, op. cit., XII, 9, 5-6, p. 279. 13. Pausania, Guida della Grecia, Mondadori, Milano 1999, VI, 14, 5-8, pp. 89-91. 14. Strabone, Geografia d’Italia, cit., VI, 12, p. 239. 15. Ateneo, op. cit., X, 412e, vol. II, p. 1024. 16. Ivi, X, 412f, vol. II, p. 1024. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ivi, I, 13a, vol. I, p. 44. 20. Ivi, VIII, 342c-343e, vol. II, pp. 842-845. 21. Ivi, VIII, 343e, vol. II, p. 845. 22. Ivi, VIII, 344d, vol. II, p. 847. 23. Ibidem. 24. Ivi, VIII, 345a, vol. II, p. 850. 25. Ibidem. 26. Ivi, VIII, 343b, vol. II, p. 843. 27. Francesco Zanotto, op. cit., pp. 132-148. 28. Eliano, op. cit., p. 46. 29. I frammenti della gastronomia di Archestrato, Reale Stamperia, Palermo 1823, pp. 35, 45. 30. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto, cit., p. 176. 31. Eliano, op. cit., p. 217. Cfr. Erodoto, Storie, Newton, Roma 1997, VI, 127, 1, p. 363. 32. Ateneo, op cit., XII, 519d, vol. III, p. 1291. 33. Zenobio, op. cit., p. 221. 34. Ateneo, op. cit., XII, 519d, pp. 1291-1292. 35. Ivi, XII, 521b, p. 1296. 36. Ivi, XII, 519d, p. 1291. 37. Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia, presso la Reale Stamperia, Palermo 1827, t. XIX, a. V, luglio-agosto-settembre, pp. 210-215. 38. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto, cit., pp. 13-18. 39. Ateneo, op. cit., IV, 141f, vol. I, p. 364. 40. Ivi, VI, 275b, vol. II, pp. 651-652. 41. Plinio, op. cit., vol. II, pp. 334-335. 42. Giuseppe Averani, op. cit., p. 28. 43. Plinio, op. cit., vol. II, p. 397; Giuseppe Averani, op. cit., pp. 2738. 44. Bartholomaeus Platina, De honesta voluptate & valetudine vulgare, s.e., Venetia 1508, p. 84. 45. Cfr. Girolamo Pozzoli, op. cit., p. 649; Francesco Zanotto, op. cit., pp. 801-802; Bloch Marc Elieser, Storia naturale de’ pesci, per Batelli e Figli, Firenze 1834, pp. 202-204; Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto, cit., p. 87. Cfr. Pierre Rayer, Trattato teorico pratico dei mali della pelle, coi tipi di Paolo Andrea Molina, Milano 1830, pp. 643-649. 46. Cfr. James Lind, Trattato dello scorbuto, presso Niccolò Pezzana, Venezia 1776; Jean Louis Alibert, Compendio teoricopratico sulle malattie della pelle, presso Guglielmo Piatti, Firenze 1820. 47. Benedetto Frizzi, Dissertazione sulla lebbra degli Ebrei, presso Wage, Fleis e Comp., Trieste 1795, pp. 75-86. Cfr. Giovan Pietro Frank, Del metodo di curare le malattie dell’uomo, Guglielmo Piatti, Firenze 1830, pp. 175-178. 48. Johann Peter Frank, op. cit., p. 28; Dizionario d’ogni mitologia e antichità, presso Barelli e Fanfani, Milano 1823, p. 649; Andrea Verga, Sulla lebbra. Commentario, coi tipi di Luigi Di Giacomo Pirola, Milano 1846, p. 32; Giuseppe G. De Cigalla, Dell’elefantiasi o lebbra greca, presso la Società per la pubblicazione degli annali universali delle scienze e dell’industria, Milano 1865, p. 89. 49. Giuseppe Gordini, Luigi Michelotti, Nuovo Mercurio delle Scienze Mediche, al Gabinetto Scientifico - Letterario, Livorno 1829, t. I, pp. 169-170; Giacomo Adragna, Nuovi fatti e ragioni comprovanti la non esistenza dell’elefantiaco contagio, Giornale di Scienze Lettere e Arti per la Sicilia, t. XXXVIII, a. X, aprilemaggio-giugno, 1832, pp. 17-30. 50. Clodoveo Biagi, Risposta al quesito sulla lebbra che presentemente si trova in Italia, in Bullettino delle scienze mediche. Pubblicato per cura della Società Medico-Chirurgica di Bologna, tip. alla Volpe, Bologna 1846, serie 3, vol. 10, p. 83. Cfr. Francesco Molletta, Dissertazione epistolare intorno ad una particolar malattia che credesi lebbra, nella Stamperia di Pompeo Polloni e Figli, Pisa 1773; Benedetto Trompeo, Cenni sui lebbrosi della contea di Nizza, estratto dal «Giornale delle Scienze Mediche», ottobre 1843; Id., Cenno sulla lebbra, tip. Nistri, Pisa 1845, p. 4; Andrea Verga, Sulla lebbra. Commentario, coi tipi di Luigi Di Giacomo Pirola, Milano 1846, pp. 128-129. 51. Pietro De Philippis, Tossicologia teorico-pratica ossia de’ veleni e de’ contravveleni, dalla tipografia di Agnello Nobile, Napoli 1826, p. 101. 52. Niccolò Carletti, Storia della regione abbruciata in campagna felice, nella Stamperia Reale Raimondiana, Napoli 1787, p. 360. 53. Conte di Lacépéde, Storia naturale dei quadrupedi ovipari dei serpenti e de’ pesci, al Negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820, vol. V, pp. 320-321. 54. François Della Motta Le Vayer, Scuola de’ prencipi e de’ cavalieri cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economia, la politica, la logica e la fisica, per Giacomo Monti, Bologna 1677, p. 222. 55. Ugo Benzo, Regole della sanità et della natura de cibi, per gli Heredi di Gio. Domenico Tarino, Torino 1620, p. 496. 56. Bloch Marc Elieser, op. cit., p. 204. 57. Metodo facile di prolungare la vita con piccola attenzione intorno à nostri cibi e bevande, presso Bartolomeo Capitani, Macerata 1794, pp. 202-203, 240; Fulvio Gherli, op. cit., pp. 184185. 58. Giovanni Bianchi, Se il vitto pittagorico di soli vegetabili sia giovevole per conservare la sanità, e per la cura d’alcune malattie, presso Giambattista Pasquali, Venezia 1752, p. 60. Cfr. Antonio Pujati, Riflessioni sul vitto pitagorico, per Odoardo Foglietta, Feltre 1751; Angelo Zulatti, Lettera del dottore Angelo Zulatti di Cefalonia scritta ad un medico anonimo suo amico sopra le riflessioni sul vitto pitagorico di Giuseppe Antonio Puiati primo medico di Feltre, nella Stamperia Imperiale, Firenze 1752. 59. Pietro Desiderio Pasolini, Gli statuti di Ravenna, tip. Calasaziana, Firenze 1868, pp. 144-146. 60. Emilio Briccio, Nozioni generali di polizia veterinaria con aggiunte le principali norme e disposizioni vigenti, tip. degli Eredi Bizzoni, Pavia 1858, p. 134. 61. Ibidem. 62. Ivi, pp. 137-138. 63. Raffaele Valieri, Storia della Commissione igienica della sezione Pendino del 39 giugno 1865 al 31 dicembre 1866, stab. tip. di G. Nobile, Napoli 1867, p. 242. 64. Ivi, pp. 172; 218-225. 65. Pietro Andrea Matthiolo, Il sesto libro di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, in cui si tratta dei rimedi de i veleni mortiferi, tanto preservativi, quanto curativi, alla Bottega d’Erasmo appresso Vincenzo Valgrisi, Vinegia 1548, p. 81. 66. Ateneo, op. cit., III, 120f, vol. I, p. 315. 67. Alberto Fortis, Viaggio in Dalmazia, presso Alvise Milocco, Venezia 1774, pp. 168-169. 68. Fulvio Gherli, op. cit., p. 342. 69. Michel Savonarola, Libro della natura et virtù delle cose che nutriscono & delle cose non naturali, con alcune osservationi per conservar la sanità, & alcuni quesiti bellissimi da notare, appresso Domenico & Gio. Battista Guerra, Venezia 1575, p. 154. 70. Diario distinto di tutto quello, che si è somministrato giorno per giorno dalla dispensa del sacro ed apostolico archiospedale Di S. Spirito in Sassia di Roma per servizio degl’infermi nell’anno 1708. Aggiuntovi un ristretto del consumo fatto per il vitto di 110 uomini di famiglia che continuamente stanno al servizio di detti infermi, per Francesco Gonzaga, Roma 1709. Cfr. La cucina degli stomachi deboli, ossia pochi piatti non comuni, semplici, economici e di facile digestione con alcune norme relative al buon governo delle vie digerenti, coi tipi di Giuseppe Bernardoni di Gio., Milano 1858. 71. Gioseppe Pandolfi, La povertà arricchita, o vero l’Hospitio de poveri mendicanti, per Egidio Longo Stampatore della Regia Corte, Napoli 1671, pp. 243-244. 72. Giangiorgio Zimmermann, Della esperienza nella medicina, presso gli Editori Schiepatti, Truffi e Fusi, Milano 1830, p. 363. Cfr. Antonio Maria Della Porta, Dei danni del vitto moderno e del modo di usarne utilmente, per Giuseppe Bolzani, Pavia 1772. 73. Ateneo, op. cit., IV, 128d, vol. I, p. 332. 74. Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, nella Stamperia Raimondiana, Napoli 1773, pp. 76-77. 75. Francesco Upezzinghi, Il cuoco in villa, ovvero modo facile, e frugale di cucinare alcune vivande usuali in versi sciolti, nella Stamperia Centrale, Urbino 1719, pp. 31-33. 76. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 510. 77. Ateneo, op. cit., VIII, 341e, vol. II, p. 839. Cfr. Alfio Francesco Ferrara, Storia generale della Sicilia, presso Lorenzo Dato, Palermo 1833, t. VI, p. 84; Giuseppe Alessi, Memoria da servire di introduzione alla zoologia del triplice mare che cinge Sicilia, in Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze naturali di Catania, tip. all’Insegna dell’Etna, Catania 1836, t. XI, p. 103; Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, e nobili et ignobili, appresso Gio Battista Somascho, Venetia 1586, pp. 779780. 78. Antonio Foresti, Mappamondo istorico, cioè ordinata narrazione dei quattro sommi imperj del mondo, per Girolamo Albrizzi, Venezia 1695, pp. 302-303; Giuseppe Carletti L’incendio di Tordinona poema eroicomico con alcune annotazioni, s.e., Venezia 1781, p. 309. 79. Biografia universale antica e moderna ossia storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti, presso Gio. Battista Missiaglia, Venezia 1825, vol. XXI, pp. 57-59; Gli elementi della storia, ovvero ciò che bisogna sapere della cronologia, della geografia, della storia universale, della chiesa del Vecchio Testamento, delle monarchie antiche, della chiesa del Nuovo Testamento, delle monarchie novelle e del blasone, avanti di leggere la storia particolare, con una serie di medaglie imperiali, da Giulio Cesare sino ad Eraclito, presso Giambattista Albrizi, Venezia 1738, t. III, p. 77. 80. Ateneo, op. cit., I, 11d, vol. I, p. 22. 81. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 243. 82. Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 31-35. Cfr. Kurt Hubner, La verità del mito, Feltrinelli, Milano 1990. 83. Cit. da Franz Baermann Steiner, Tabù, Boringhieri, Torino 1980, p. 157. 84. Galeno, Della natura et vertù di cibi, per Giovanni Bariletto, Venetia 1562, pp. 92-93. 85. Fulvio Gherli, op. cit., pp. 304-305. 86. Cfr. Amedeo Pettini, Manuale di cucina e pasticceria, Fratelli Marescalchi, Casale Monferrato 1914. 87. Adone Palmieri, Piccolo manuale di medicina popolare per tenere lungi le più comuni malattie ed il colera morbus e per guarirle con semplici mezzi, tip. Forense, Roma 1855, p. 16. 88. Michelangelo Prunetti, Metodo preservativo per vivere dovunque e specialmente in Roma nel più perfetto stato di sanità sia pur chiunque di qualsivoglia sesso e condizione, giovane o vecchio ec. senza il soccorso di medicamenti, presso Francesco Bourliè, Roma 1825, p. 119. 89. Achille Spatuzzi, Luigi Somma, Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, stamperia della Reale Università, Napoli 1863, p. 45. 90. Paulo Zacchia, Il vitto quaresimale, per Pietro Antonio Facciotti, Roma 1636, pp. 154-155. Cfr. Dizionario delle scienze naturali nel quale si tratta metodicamente dei differenti esseri della natura, cit., p. 205. 91. Ateneo, op. cit., VII, 316b, vol. II, p. 766. 92. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 352. Cfr. Ulyssis Aldrovandi, op. cit., p. 17. 93. Melli Sebastiano, Pratica chirurgica nella cura di tutte le ferite, tumori, ulcere, escrescenze ed ogni altro malore, appresso Antonio Bortoli, Venezia 1724, p. 460; Giuseppe Nessi, Instituzioni di chirurgia, presso Francesco di Niccolò Mezzana, Venezia 1788, pp. 200-265; August Gottlieb Richter, Elementi di chirurgia, tip. Nistri e C., Pisa 1831, pp. 1-48. 94. Gio. Battista Della Porta, Della magia naturale, appresso Antonio Bulifon, Napoli 1677, p. 22. 95. Ateneo, op. cit., III, 108d, vol. I, p. 284. 96. Ivi, I, 131d, vol. IV, p. 337. 97. Ivi, IV, 169d, vol. I, p. 421. 98. Ivi, VII, 277e, vol. II, p. 660. 99. Ivi, I, 17-19c, vol. I, p.18. Polpo in cucina Gli scalchi, al servizio di nobili e alti prelati, nei banchetti sontuosi organizzati in occasione di feste, nozze e cerimonie, per i piatti a base di pesce utilizzavano soprattutto lamprede, dentici, triglie, ombrine, spigole, linguattole, storioni, trote, ostriche, gamberi e granchi. I cuochi non amavano i cefalopodi e prendevano in considerazione solo i calamari perché le loro carni erano meno coriacee, più gustose e versatili1. Il maestro Martino nel XV secolo consigliava di cucinare i calamari piccoli come si faceva con le tinche «rovesciate». Occorreva amalgamare parti del mollusco con rosso d’uovo, prugne damascane, ciliegie, uva passa, pinoli, olio, aglio, pepe, safrano, prezzemolo ed erbe odorifere. Una volta riempito con l’impasto, si legava il calamaro con un filo così da ritenere il ripieno e poi metterlo a rosolare lentamente sulla graticola, oppure si friggeva nell’olio e si cospargeva con succo d’arancia e spezie. Il calamaro grosso andava invece tagliato a pezzi, lessato e, una volta ben cotto, ricoperto con prezzemolo e aromi oppure era riempito con mandorle tostate, bollito con vino bianco e, una volta stemperato, fritto nell’olio con l’aggiunta di cannella, zenzero e chiodi di garofano2. Il cuoco bolognese Pisanelli nel XVI secolo scriveva che i calamari erano molto apprezzati per il loro gusto delicato e consigliava di infarinarli, friggerli e coprirli con succo d’arancia, oppure cuocerli con olio, vino, pepe ed erbe odorifere. Per mangiare i calamari grandi, come per i polpi, ci volevano tuttavia stomaci gagliardi, perché difficili da assimilare3. Latini nel XVII secolo annotava che i calamari, sebbene di difficile digestione, fossero utili allo stomaco e di gran nutrimento. Quelli piccoli, più teneri e gustosi, si potevano preparare in diversi modi anche se, per esaltare le loro qualità, bisognava friggerli nell’olio4. Corrado nel XVIII secolo suggeriva di cuocere i calamaretti con sale, pepe e sugo di limone mentre quelli grandi lessarli con olio, limone e prezzemolo per servirli poi con salsa d’aragosta. Si potevano anche preparare in un brodo di cappone con pezzi d’anguilla, capperi, acciughe, tartufo e prezzemolo, oppure con carne tritata, midollo di manzo, erbette e spezie varie. Particolarmente gustosi se dorati in uova sbattute, impanati con pane e parmigiano e, una volta fritti, coperti con abbondante prezzemolo5. Vialardi, capo cuoco e pasticcere alla corte sabauda nel XIX secolo, consigliava di nettare e tagliare i calamari a nastrini, marinarli per due ore con sale, prezzemolo, pepe e sugo di limone, infarinarli e friggerli in abbondante olio. Squisiti erano quelli farciti con carne di luccio, butirro, pane cotto, rossi d’uovo, sale, aglio, noce moscata, besciamella, tartufi, funghi e poi fritti nel butirro con vino bianco6. Nebbia, invece, suggeriva di riempire i calamari con un impasto di sardelle, capperi, pane, pinoli tostati e rosso d’uova, metterli a cuocere in una casseruola e servirli con una salsa di carote. Erano gustosi anche soffritti con sale, spezie, cipolla, maiorana, spinaci e coperti con senape in aceto o cotti in abbondante olio e serviti con salsa verde e abbondante salvia7. Sempre tesi a sperimentare nuove ricette per avere riconoscimenti dai loro signori, i grandi cucinieri non amavano preparare i polpi poiché li consideravano una pietanza di scarso valore e mortificavano la loro creatività. Nel trattato di cucina Apicio non riservava molta attenzione al polpo limitandosi a suggerire di lessarlo e servirlo con pepe, savóre e radice di laser8. Nel Liber de coquina, uno dei ricettari più antichi della cucina medievale, si consigliava di tagliare il polpo, soffriggerlo con olio e cipolle e, quando era quasi cotto, aggiungere maggiorana, prezzemolo e altre spezie. Si aggiungeva poi pane arrostito, zafferano, noci avellane, mandorle peste e, se lo si desiderava dolce, sugo di cetrangolo con zucchero9. In un libro di gastronomia del Quattrocento si proponevano varie ricette per seppie e calamari, mentre per polpi e moscatelli si legge fossero buoni solo da lessare e condire con sale e comino10. Maestro Martino scriveva che il polpo fosse un pesce vile e «da non farne stima» e quindi ognuno poteva prepararlo come meglio voleva11. Platina nel Cinquecento annotava che il polpo, così chiamato per la moltitudine dei piedi, in cucina fosse il peggiore tra i pesci perché, in qualsiasi modo si coceva, non era mai buono12. Rossetti suggeriva vari modi per preparare seppie e calamari ma riguardo al polpo affermava che valeva poco e consigliava di prepararlo bollito o fritto13. Cervio, in un poderoso saggio su come trinciare gli alimenti, prendeva in esame diversi pesci ma non faceva alcun cenno al polpo14. De Rosselli, cuoco del papa, agli inizi del Seicento scriveva che il polpo fosse un pesce di poco pregio, non era da farne stima e bisognava «conciarlo» come piaceva «per le magnanime putane e per il lamento de la mortem ohime»15. Evitascandalo precisava che il polpo, essendo «caldo e umido in primo grado», fosse di dura digestione, generava sangue grosso, provocava malinconia e ci voleva uno stomaco forte per digerirlo. Ben battuto con un legno andava stufato con olio e lasciato cuocere con agresto, erbette, zafferano e altre spezie nell’acqua che generava lui stesso. Una volta lessato, bisognava tagliarlo a pezzi e servirlo dopo averlo cosparso con un «sapore» di aceto, aglio e prezzemolo16. Scappi sosteneva che il polpo non fosse bello da vedere per il corpo «lubricoso», né buono da mangiare perché aveva bisogno di una «gran cocitura». Dopo aver tolto le interiora era necessario percuoterlo con una bacchetta, porlo in un vaso di terracotta con cipolle e olio e «turarlo» con un coperchio «perché faceva acqua da sé». Giunto a cottura aggiungere agresto, zafferano e altre spezie e, una volta raffreddato e tagliato a pezzi, infarinarlo, friggerlo nell’olio e servirlo con sale, pepe e sugo di melangolo17. Frugoli annotava che se i calamari erano saporiti ma duri da assimilare, i polpi erano meno buoni e ancora più difficili da digerire, senza contare che essendo senza pinne e scaglie, erano «contrari» a flemmatici e malinconici. Particolarmente coriacei e bisognosi di una gran cottura, potevano essere solo lessati, fritti e serviti con prugne e visciole secche18. Bartolomeo Stefani, cuoco alla corte del duca di Mantova, in un trattato sull’arte di cucinare del Settecento, prendeva in considerazione diversi tipi di pesce ma non dava alcuna ricetta sul polpo19. Latini scriveva che essendo il polpo di qualità «calda e umida» si potesse apparecchiare come i calamari ma aveva bisogno di maggiore cottura perché la sua carne era più dura e consigliava di friggerlo nell’olio o utilizzarlo per preparare alcuni «pottagi»20. Agnoletti nel suo dizionario dell’Ottocento sulla cucina economica, scriveva che il polpo fosse un pesce di pessimo nutrimento e molto difficile da digerire e, se qualcuno voleva mangiarlo, poteva cucinarlo come le seppie21. Artusi nel suo noto manuale pratico sull’arte di mangiare bene per le famiglie ignorava il polpo22. Oggi, al contrario, i polpi veraci sono considerati una vera prelibatezza e in Italia arrivano nei mercati, freschi o congelati, da ogni parte. Pesce gustoso e nutriente, soprattutto durante la stagione estiva, una volta lessato è servito freddo con sale, olive, capperi, olio, limone e prezzemolo. Esperti cuochi celebrano ricette come il polpo alla Luciana o alla Catalana e i libri di cucina indicano decine di modi per prepararlo23. Il polpo ha oramai perso quella connotazione simbolica che lo rendeva raffigurazione dei vizi e dei mali degli uomini. Medici e dietologi ne celebrano le qualità organolettiche e lo consigliano a tavola perché povero di carboidrati e grassi, ricco di proteine e sali minerali come ferro, calcio, fosforo e potassio. Grazie alla sua composizione nutrizionale è consigliato nelle diete dimagranti perché dotato di un buon apporto proteico, un alto potere saziante e un basso contenuto calorico: è sconsigliato solo a bambini e puerpere perché può provocare allergie e intossicazioni. Per intenerire le sue carni non è necessario batterlo ripetutamente come in passato, poiché basta congelarlo e lessarlo nelle pentole a pressione, per ridurne i tempi di cottura. Il gusto verso i pesci è cambiato nel corso dei secoli. Il medico Petronio, in un documentato saggio del 1592 sull’alimentazione dei romani, scriveva che alcune specie come la murena, celebrate nei banchetti dell’aristocrazia repubblicana e imperiale, erano ormai considerate «vili» e bandite nella dieta dei ricchi cittadini. Il pesce spada, ritenuto in passato prezioso e squisito, era disprezzato perché le sue carni puzzavano come la volpe e, la stessa plebe, lo acquistava nei mercati solo quando c’era penuria di pesce. Diverse specie definite «sassatili» come merli, tordi, scari, donzelle e menchia di Re, un tempo venduti a «grandissimo prezzo» e celebrati da Galeno «sanissimi» per sapore e leggerezza delle carni, erano ormai ritenuti buoni solo per l’alimentazione del popolino. I nobili romani mangiavano storione, ombrina, tonno, branzino, spigola, orata, sogliola, pescatrice, dentale, fragolino e triglia mentre i poveri acciuga, sarda, sgombro, cicirello, agone, sugherello, aguglia, alaccia, sciabola, capone, rondine, forca, cefalo, leccia, sauro, tarantola, sgombro, grongo e merluzzo. Alcuni pesci erano considerati dai signori particolarmente spregevoli non solo per le qualità organolettiche e per il sapore delle carni ma anche per le loro abitudini e caratteristiche. La salpa, ad esempio, nonostante fosse bella da vedere per le strisce dorate e rosse ai fianchi, era considerata dai patrizi un ignobile pesce plebeo poiché si nutriva di alghe e da alcuni era chiamato «sporca» e «bugiarda». I ricchi mangiavano pesci diversi dai poveri. La scorpena o scorfanello nero e lo scorpio o scorfano rosso appartenevano alla stessa famiglia e avevano ghiandole velenifere ma il primo costava poco ed era nelle mense dei poveri, il secondo costava molto ed era nelle mense dei ricchi24. La tesi di chi sostiene che nel mondo antico il polpo non fosse apprezzato perché le sue carni non erano buone da mangiare è discutibile e, del resto, sulle tavole dei greci e dei romani si servivano piatti a base di pesce a dir poco nauseabondi. Particolarmente gradito, ad esempio, era il gáron, liquido dal sapore particolarmente aspro, utilizzato come condimento in diverse pietanze25. Plinio scrive che nell’antica Roma il garum si otteneva facendo macerare nel sale intestino e scarti d’alcuni pesci e i greci iniziarono a produrlo dopo aver notato che le fumigazioni con la testa bruciata del pesce garos favorivano la fuoriuscita della placenta26. Marziale sostiene che per preparare il garum bisognasse usare pesci grassi come salmoni, anguille, cheppie, sardine o aringhe e immischiarle con sale ed erbe aromatiche. Si preparava un vaso ben solido e impeciato della capienza di tre o quattro moggi e vi si stendeva uno strato d’aneto, coriandro, finocchio, sclarea, appio, santoreggia, ruta, menta, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. Si disponeva un secondo strato di pesci interi (se grandi tagliati a pezzetti) e sopra si poneva un terzo strato di sale alto due dita. Con questi piani d’erbe, pesci e sale, si riempiva il vaso fino alla sommità e si chiudeva con un coperchio. Per venti giorni di seguito, l’impasto era smosso fino al fondo con un palo a forma di remo e con il liquido che ne fuoriusciva si preparava l’oenogarum. A ogni due sestari di liquido, si aggiungeva mezzo sestario di vino buono, quattro manciate d’erbe secche (aneto, coriandro, santoreggia e sclarea) e una di semi di fieno greco, grani di pepe, cinnamomo e garofano finemente tritati. Il composto era quindi cucinato in un tegame di ferro o bronzo fino a quando non si riduceva alla misura di un sestario. Prima che fosse cotto del tutto bisognava aggiungervi una mezza libbra di miele schiumato e, ancora bollente, doveva essere colato con un filtro fino alla limpidezza. Una volta raffreddato si conservava in un vaso ben impeciato pronto per condire le pietanze27. Diversi scrittori romani, tra cui Plinio, Varrone, Orazio, Apicio, Seneca, Marziale, Columella e Petronio, sostenevano che il garum fosse utilizzato abbondantemente in cucina e considerato una raffinatezza da cuochi e commensali. Per Plinio, invece, era pestilenziale, dato che era il prodotto di materie in decomposizione28. Seneca ne condannava l’uso, definendolo una preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli e rovinava la salute29. Marziale affermava che aroma e sapore fossero nauseabondi e, per diffamare un certo Papilo, raccontava che se questi avesse annusato un unguento profumato, lo avrebbe reso puzzolente come il garum30. Lo stesso Apicio, inventore di piatti stravaganti, annotava che la salsa di pesce emanava un «cattivo odore» e indicava una serie d’accorgimenti per «correggerla» come aggiungere miele e gambi di lavanda31. Non siamo in grado di affermare se il garum fosse un intingolo squisito o schifoso, né di stabilire se fosse un alimento nutriente o dannoso. Il gusto di un cibo è anche specchio della mentalità di una classe e il garum sulla tavola dei nobili era simbolo di potenza e ricchezza, attestava il loro primato culturale e politico nella società. Gelosi dei privilegi e per rendere manifesta la loro supremazia, da sempre gli aristocratici hanno sentito il bisogno di distinguersi e rinnovarsi e lo hanno fatto anche attraverso mode estrose in campo alimentare32. La salsa di pesce rara e costosa sulle tavole dei ricchi si contrapponeva alle salse usate nella cucina dei poveri33. I popolani non potevano permettersi quel prezioso intingolo e Isidoro ci informa che usavano il liquamen prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto insignificante, simile a quello dell’acqua marina34. Il vero garum, quello che richiedeva una complessa lavorazione e preparato con pesci pregiati, era accessibile solo ai nobili e Plinio, non a caso, scriveva che, a parte i profumi, fosse il liquido più prezioso esistente al mondo35. Re, tiranni e aristocratici per riaffermare il loro potere stabilivano quali cibi i loro sudditi non potessero mangiare. Il filosofo Antipatro di Tarso, racconta che Atargati, crudele ed egoista regina della Siria, fosse così ghiotta di pesce che promulgò un editto in base al quale solo lei e i suoi sacerdoti potessero cibarsene36. Mnasea aggiunge che quando i Siriani pregavano la dea, le offrivano in voto pesci d’oro e d’argento mentre i sacerdoti bollivano o arrostivano pesci in suo onore. Atargati, secondo quanto narra Xanto di Lidia, fu rapita da Mopso e, a causa della sua insolenza, gettata insieme con il figlio Itti nel lago d’Ascalona, dove fu divorata dai pesci37. Gli animali selvatici nel Medioevo erano riservati ai signori ed era rigorosamente vietato ai contadini di ucciderli anche se devastavano i loro campi. I nobili gareggiavano a chi prendesse più prede e amavano ostentarle sui carri quando tornavano in città38. La caccia col falco era un elemento di distinzione: i baroni amavano farsi rappresentare col rapace sul pugno guantato e, l’imperatore Federico II, scrisse addirittura un trattato sulla falconeria39. Sulle loro tavole non mancava ogni tipo di cacciagione e a nulla servivano gli avvertimenti dei medici relativi alle malattie, quali la gotta, che il consumo eccessivo poteva provocare40. Agli inizi dell’Ottocento, lo storico Meiners osservava che i ricchi romani spendevano cifre immense per i loro simposi. Le pareti delle sale dove pranzavano erano decorate con pitture, le tavole imbandite con piatti e bottiglie di gran pregio, ornate con fiori e pietre preziose. Alcuni patrizi avevano fatto costruire soffitti amovibili che cambiavano aspetto ogni volta che si portava una pietanza, tubi che spargevano sostanze odorose e grandi acquari dove sceglievano i pesci da cucinare. Ricercavano i cibi più rari e costosi, mangiavano le parti più squisite di pesci o volatili e i maestri dell’arte culinaria preparavano piatti così complicati da realizzare in cucina ciò che sarebbe dovuto accadere nel ventre. Comodo faceva spesso mescolare alimenti squisiti alle più «stomachevoli sudicerie» ed Eliogabalo, non volendo offrire ai suoi commensali le leccornie dei suoi predecessori, offriva piatti a base di piedi di cammelli, creste di polli, cervella di fenicotteri, pavoni e fagiani e fegato dei pesci più pregiati41. Meiners precisava che per i Romani il pregio di un pesce fosse legato alla rarità e al prezzo e la sua fortuna era soggetta a continui cambiamenti: quella che era considerata una vera e propria leccornia perdeva tutto il valore appena cominciava a diventare comune e a buon costo. Macrobio si meravigliava delle cospicue somme di denaro che già nell’ultimo secolo della Repubblica si spendevano per pesci, che ai suoi tempi si potevano acquistare a poco prezzo e che molte prelibatezze citate nella legge suntuaria di Silla non erano conosciute. La golosità dei romani negli ultimi tempi della Repubblica non era paragonabile a quella dei famosi crapuloni che fiorirono sotto l’impero d’Augusto. Apicio, per soddisfare la loro golosità, trasformò l’arte culinaria in una vera e propria scienza e si diceva che avesse più allievi di tutte le scuole dei filosofi messe insieme. Stabilì le regole per servire a tavola, per decorare le stanze da pranzo e quali i divertimenti più appropriati. Abituato a vivere nella lussuria, dopo aver dissipato un capitale di tre milioni e mezzo di talleri, quando si rese conto che per pagare i creditori non gli rimanevano che 250.000 risdalleri, si avvelenò. Meiners annotava che i nobili romani usassero il cibo anche per distinguersi tra loro. Caligola, servendosi dei migliori cuochi dell’impero, fece allestire un banchetto che costò tre botti e mezzo d’oro; Nerone, in uno dei suoi simposi fece aspergere balsami di rose che costavano una botte d’oro poiché, essendo inverno, dovettero essere importate dall’Egitto; Vitellio, superando i predecessori, in pochi mesi dissipò per i suoi conviti 22 milioni di talleri e suo fratello fece servire in una cena duemila pesci e settemila volatili; Vero, per eguagliare Caligola, Nerone e Vitellio, preparò un simposio chiamato «degli dei», con piatti raffinatissimi donando agli undici ospiti coppe d’oro e d’argento e altre cose di gran valore. Eliogabalo superò tutti nell’arte di dissipare e, non contento di porgere ai suoi commensali le più squisite leccornie, le faceva servire con pietre preziose da avvenenti schiavi e odalische; per mezzo di macchine poste in alto sul soffitto cospargeva le tavole con petali di fiori, stabilì ricchi premi per chi inventava nuove ricette e si rallegrava che alcune vivande arrivassero a cifre esorbitanti, perché più alto era il loro costo, più rendevano onore a chi le comprava42. Non sappiamo se le descrizioni di certi convivi degli storici antichi fossero esagerazioni, ma Seneca conferma che il palato dei romani si svegliasse solo davanti a cibi costosi e che il prezzo non dipendesse dalla loro bontà ma dalla rarità e dalla difficoltà di procurarli43. Seppie, totani, calamari e polpi non hanno mai avuto gran considerazione nelle mense degli aristocratici perché erano pesci comuni e alla portata di tutti. Nel 1776 Carletti scriveva che passeggiando lungo le rive del golfo di Napoli fosse possibile vedere numerosi polpi addossati agli orridi scogli44. Si pescavano polpi in gran quantità in Sicilia, Liguria, Sardegna e Puglia e, in alcuni centri come Molfetta, erano seccati al sole e venduti nei porti dell’Adriatico45. Di polpi ce n’erano in abbondanza, anche se le autorità napoletane il 7 agosto 1847 furono costrette a proibirne la cattura, con le cosiddette lancelle, dal primo di marzo fino alla fine d’agosto perché era dannosa per la specie46. In un saggio del 1592 sulla salute, il medico Petronio scriveva che i polpi avessero la carne dura e, in qualunque modo fossero cotti, gravassero sempre lo stomaco provocando serie indigestioni. Lo stesso Galeno aveva osservato che, essendo coriacei, fossero difficili da cuocere, avessero un succo salato e non dessero alcun nutrimento. Quelli di grosse dimensioni dovevano essere bolliti e tagliati con una canna perché il ferro «infettava» le carni e, tuttavia, in qualunque modo fossero preparati, a causa della loro insipidezza erano un alimento buono per la «vil plebe»47. In un trattato per vivere bene si legge che i molluschi non fossero consigliabili da mangiare e solo i calamari piccoli erano digeribili e buoni per ogni età. Le seppie erano insapore e difficili da cuocere, mentre il polpo, che si credeva incitasse all’incontinenza, essendo indigesto e poco nutritivo, era lasciato ai poveri48. In un altro saggio si legge che la pesca di calamari, seppie e polpi fosse da incoraggiare perché le loro carni, anche se poco pregiate e difficili da assimilare, potevano fornire un abbondante alimento per il popolino49. Il polpo era considerato un pesce scadente e, soprattutto quello grande, era venduto a prezzi «vili». Nelle tariffe dei mercati di Venezia del 1799 i folpi risultavano tra i pesci meno costosi, la metà rispetto a quelli «poveri» come caramali, sepoline, scombri, sardelle e sardelline50. Nella tariffa dei prezzi del mercato ittico di Trieste del 1806, i folpi, soprattutto quelli grandi, insieme alle sardelle, erano tra i pesci meno pregiati51. Alessandro Ninni, in un saggio del 1870 sulla fauna marina delle lagune e del golfo di Venezia, scriveva sulle 258 specie di pesce censite: 21 non si mangiano, 10 poco stimate, 4 buone, 25 cibo popolare, 19 non ricercate, 76 poco ricercate, 4 abbastanza ricercate, 33 ricercate e 18 ricercatissime. Pesci poco stimati: ciepa, grongo, morena, galiotto, sorze, suro; buono: barbastrilo, san Piero, pesce spada, marsion; cibo popolare: soetta, lovo, molo, molo da parangal, pataraccia, sfogieto peloso, garizzo menola, arboro, sperga o donzela, musoduro, anguela, anguela agonada, anzoleto, sacchetto, tenca de mar, ragno o varagno, varagnola, bocca in cao; poco ricercati: favareto, bavoso, sfogio turco, baracolèta, quattrocchi, tremolo, tremolo occià, squalena, sagrin, cagnia o can, bandiera, martello, cagnia o can da denti, can turchin, cagneto, gatta, arzentin, rombetto de grotta, fanfano, donzella o papagà, pesce spuzza, lampreda, sfogio turco, garizzo, menola, menola schiava, ociada, boba, sargo d’Istria, sparo, lucerna, turchello insaguinà, anzoleto, scarpena, scarpena rossa, gattarosola dall’occial, gattarosola colla cresta, lodra e lodrin; non ricercati: ranin, mattana, raza spinosa, raseta, baracola, manin, spinarelo, pesce figa, fanfano, lampredon, lampreda, gattarozola, pesce cordèla; abbastanza ricercati: colombo, vescovo e mattana; ricercati: asià, sturion, còpese, ladano, passera, sfogio dal pelo, sfogio dal poro, corbo, corbeto, baicolo, ombrela, branzin, baicolo, volpina, caustelo, dotregàn, verzelata, bosega, barbon, paganello de mar, rospo, angusigola, papalina, passarin-passara, marsion, paganello, paganello de porto, paganello insanguinà, gò de mar, tambarello, barbastrilo; ricercatissimi: sardella, sardon, bisatto, rombo, sgombro ganzarioi, lanzardo, soazo, sfogio, dental, tria, lizza, lizza bastarda, ton, carcàna, tonina de Dalmazia, palamida52. Dorotea nel 1863 scriveva che tra i cefalopodi fosse ricercata la seppia e ancora di più i piccoli calamari, ma costavano molto e, solo nobili e galantuomini potevano acquistarli. Il purpo di scoglio era apprezzato, il muscardino meno stimato perché emanava un odore di muschio e l’asinino non gradito perché particolarmente coriaceo e di poco sapore53. Il polpo era presente soprattutto sulle tavole della povera gente e, secondo Picinelli, richiesto perché saziava e manteneva un buon odore anche molto tempo dopo la cattura54. A Napoli, annotava Dumas, che ne descriveva la pesca con le palingolle, il polpo verace era particolarmente ricercato e cucinato alla «Luciana», dal nome di Santa Lucia, borgo dove le donne vendevano il brodo di purpetielle55. Si metteva il cefalopode intero in una casseruola di coccio insieme a sale, olio, pomodoro, peperoncino, prezzemolo, aglio e si lasciava cuocere a fuoco lento per poi servirlo accompagnato con pane abbrustolito56. Sino a qualche tempo fa, soprattutto nei mesi invernali, era possibile vedere chioschi dove i purpaiuoli vendevano il brodo di polpo verace molto richiesto perché riscaldava, calmava la tosse e leniva il catarro. «Magnateve ’a capa d’o purpe verace e verite ca’ ve passa ogne malanno», gridavano le venditrici dietro i banchetti fumanti57! Il polpo era un animale amato dai napoletani e, se lo vedevano in sogno, andavano subito a giocare i suoi numeri al lotto: 30 per il polpo, 37 per i polpi e 58 per i polpi cotti58!. Un’altra smorfia consigliava di giocare 64 per i polpi, 25 per i polpi lessi, 53 per i polpi fritti, 7 per i polpi in umido e 13 per i polpi puzzolenti59. 1. Vittorio Lancellotti, Lo scalco prattico, appresso Francesco Corbelletti, Roma 1627. Cfr. Mattia Gieger Bavaro di Mosburc, Il trinciante, Martini Stampator Camerale, Padova 1621; Ottaviano Rabasco, Il convito overo discorsi di quelle materie che al convito s’appartengono, per Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni, Fiorenza 1615, p. 166. 2. Luigi Ballerino, Jeremy Parzen (a cura di), Maestro Martino. Libro de arte coquinaria, Guido Tommasi Editore, Milano 2003, pp. 87; 94-95. 3. Baldassarre Pisanelli, Trattato della natura de’ cibi et del bere, appresso Gio. Alberti, Venetia 1586, p. 100. Cfr. Cesare Evitascandalo, Libro dello scalco, appresso Carlo Vullietti, Roma 1609, pp. 58-59. 4. Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, delli socii Parrino e Mutii, Napoli 1694, pp. 2122. 5. Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, cit., p. 85. 6. Giovanni Vialardi, Trattato di cucina pasticceria moderna credenza e relativa confetteria, G. Favale e C., Torino 1854, pp. 75; 285-286. 7. Antonio Nebbia, Il cuoco maceratese, Remondini tipografo ed editore, Bassano 1820, pp. 250-252. Cfr. Ippolito Cavalcante, La cucina teorico-pratica ovvero il pranzo periodico di otto piatti al giorno, stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1844, pp. 206-219; 346-368. 8. Celio Apicio, Delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della cucina, stab. nazionale di Antonelli, Venezia 1852, p. 206. 9. Anna Martellotti, I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al “Liber de coquina”, Olschki, Firenze 2005, pp. 265-266. 10. Il libro della cucina del sec. XIV. Testo di lingua non mai fin qui stampato, presso Gaetano Romagnoli, Bologna 1863, pp. 66-68. 11. Luigi Ballerino, Jeremy Parzen (a cura di), op. cit., p. 93. 12. Bartholomaeus Platina, op. cit., p. 84. Cfr. Christoforo di Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande, et apparecchio generale, per Giovanni De Buglhat et Antonio Hucher Compagni, Ferrara 1549. 13. Giambattista Rossetti, Dello scalco, appresso Domenico Mammarello, Ferrara 1584, p. 496. 14. Vincenzo Cervio, Il trinciante, nella Stampa del Gabbia, Roma 1593. 15. Giovanni De Rosselli, Epulario il quale tratta del modo del cucinare ogni carne, uccelli & pesci d’ogni sorte. Et di più insegna far sapori, torte, pastelli, al modo di tutte le provincie del mondo, per Lorenzo Valla, Messina 1606, p. 29. 16. Cesare Evitascandalo, op., cit., p. 69. 17. Bartolomeo Scappi, Opera dell’arte del cucinare, con la quale si può ammaestrare qual si voglia cuoco, scalco, trinciante, mastro di casa, presso Alessandro Vecchi, Venetia 1610, p. 92. 18. D’Antonio Frugoli, Pratica e scalcaria intitolata pianta di delicati frutti da servirsi a qualsivoglia mensa di prencipi e gran signori, & à persone ordinarie ancora con molti avvertimenti circa all’honorato officio di scalco, appresso Francesco Cavalli, Roma 1631, pp. 155-156. 19. Bartolomeo Stefani, L’arte di ben cucinare, et istruire i men periti in questa lodevole professione. Dove anco s’insegna à far pasticci, sapori, salse, gelatine, torte e altro, per Steffano Curti, Venetia 1685. Cfr. Francesco Leonardi, L’Apicio moderno ossia l’arte di apprestare ogni sorta di vivande, s.e., s.l., 1790. 20. Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, delli socii Parrino e Mutii, Napoli 1694, p. 28. 21. Vincenzo Agnoletti, La nuova cucina economica in cui s’insegna la più facile e precisa maniera di imbandire con raffinato gusto ed economia qualunque delicata mensa di ogni sorta di vivande, sì di grasso, che di magro, nella stamperia di Pietro Agnelli, Milano 1819, p. 14. 22. Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, Giunti Marzocco, Firenze 1960, pp. 319-320. 23. Cfr. Romano Bavastro, Cento volte polpo. Ricette da tutto il mondo sul misconosciuto ma squisito abitatore dei nostri mari, Pacini Fazzi, Lucca 2007. 24. Alessandro Petronio, Del viver delli Romani et di conservar la sanità, appresso Domenico Basa, Roma 1592, pp. 147-159. 25. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, cit., pp. 131144. 26. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 93, p. 521. Cfr. Rudy Ciuffardi, Vissi d’amore e di polpo. 135 modi per cucinare il polpo, De Ferrari, Genova 2009. 27. Gargilii Martialis, Medicina, LXII, in Plinii Secundi quae fertur una cum Gargilii Martialis Medicina nunc primum edita a Valentino Rose, in Aedibus B.G. Teubneri, Lipsia 1875, pp. 209211. 28. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 96, p. 521. 29. Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Zanichelli, Bologna 1974, p. 59. 30. Marco Valerio Marziale, Epigrammi, Unione TipograficoEditrice Torinese, Torino 1980, p. 489. 31. Apicio, L’arte della cucina. Manuale dell’esperto cuoco della Roma Imperiale, Scipione, Roma 1990, I, VI, p. 17. 32. Cfr. Giovanni Sole, Cicisbei e cavalier serventi. Aristocrazia e moda nel Settecento italiano, in «Voci», a. II, n. 2, luglio-dicembre 2005, Pellegrini, Cosenza 2006, pp. 86-110; Id., Castrati e cicisbei. Ideologia e moda nel Settecento italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 33. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 95, p. 523. 34. Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, XX, III, 19-20, Utet, Torino 2004, p. 645. 35. Ivi, IV, XXXI, 94, p. 523. 36. Ateneo, op. cit., VIII, 346c, vol. II, p. 854. 37. Ivi, VIII, 346f, vol. II, pp. 854-855. 38. Cesare Cantù Storia degli italiani, t. IV, L’Unione Tipografica Editrice, Torino 1855, t. IV, p. 88. 39. G.B.L.G. Seroux D’Agincourt, Storia dell’arte, per Giachetti, Prato 1828, pp. 242-253. Cfr. Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, Laterza, Bari-Roma 2011. 40. Luigi Lobera de Avila, Libro delle quatro infermità cortigiane, che sono catarro, gotta, artetica, sciatica, mal di pietre, & di reni, dolore di fianchi et mal francese, & d’altre cose utilissime, appresso Gio Battista & Marchio Sessa, Venezia 1558, p. 178. 41. Cristoforo Meiners, Storia della decadenza dei costumi, delle scienze e della lingua dei Romani nei primi secoli dopo la nascita di G. C., s.e., Firenze 1817, t. I, pp. 175-177. Cfr. Elio Lampridio, Vita di Antonino Eliogabalo, Antonelli, Venezia 1852. 42. Cristoforo Meiners, op. cit., pp. 175-177. Cfr. Giuseppe Averani, op. cit., pp. 1-26. 43. Lucio Anneo Seneca, Consolazione alla madre Elvia, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino 1969, 10, 5, p. 855. 44. Niccolò Carletti, Topografia universale della città di Napoli, nella stamperia Raimondiana, Napoli 1776, p. 127. 45. Vincenzo Corrado, Notiziario delle particolari produzioni delle provincie del Regno di Napoli, nella Stamperia del Giornale delle Due Sicilie, Napoli 1816, p. 112; Bollettino consolare. Pubblicato per cura del Ministero per gli affari esteri, di S.M. il Re d’Italia, Torino, dalla tip. di G.B. Paravia e Comp., Torino 1863, vol. II., p. 45. 46. Leonardo Dorotea, Sommario storico dell’alieutica che si esercita nelle provincie meridionali e della legislazione correlativa alla stessa, stab. tip. di F. Vitale, Napoli 1863, p. XXXII. 47. Alessandro Petronio, Del viver delli Romani et di conservar la sanità, appresso Domenico Basa, Roma 1592, p. 164. 48. Michelangelo Prunetti, op. cit., pp. 114-122. 49. La pesca in Italia. Documenti, Annali del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, tip. del R. Istituto Sordo-Muti, Genova 1871, vol. I, p. 408. 50. Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, legislazioni ec. ec. ec. del nuovo Veneto Governo Democratico, dalle stampe del cittadino Gatti, Venezia 1797, vol. X, pp. 155-159. 51. Raccolta delle leggi ordinanze e regolamenti speciali per Trieste pubblicata per ordine della presidenza del Consiglio dal Procuratore Civico. Esce in puntate secondo argomenti, a spese del comune fuori di commercio, tipografia del Lloyd Austriaco, Trieste 1861, p. 16. 52. Alessandro Ninni, Enumerazione dei pesci delle lagune e golfo di Venezia, estratto dall’Annuario della Società dei Naturalisti, a. V, Soliani, Modena 1870. 53. Leonardo Dorotea, op. cit., p. 70. 54. Filippo Picinelli, Mondo simbolico, nella stampa di Francesco Vigone, Milano 1653, p. 330. 55. Alexandre Dumas, op. cit., p. 393; Annali civili del Regno delle due Sicilie, dalla tip. del Real Ministero degli Affari Interni, Napoli 1842, vol. XXVIII, gennaio-febbraio-marzo-aprile, p. 11. Cfr. Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, stab. tip. di G. Nobile, Napoli 1858, p. 26. 56. Cfr. Giuseppe Sangiorgi Cellini, Annamaria Toti, La dieta Mediterranea. Dalle antiche tradizioni, salute e buona cucina, Giunti, Firenze 2010. 57. Isa Rampone Chinni, Tina Palombo De Gregoria, La farmacia di Dio. Int’a spezierie ‘e Dio ‘nce stanno ‘e medicine pe’ ogne malattia. Proverbi, modi di dire, voci, poesia, curiosità su alcuni antichi rimedi dei napoletani, Rogiosi, Napoli 2011, pp. 19-20; Antonella Cilento, Bestiario napoletano, Laterza, Roma-Bari 2015. 58. Giustino Rumeo, Nuova smorfia del giuoco del lotto, presso Luigi Chiuazzi librajo-editore, Napoli 1867, p. 166. 59. Il rinomato novissimo metodo per vincere al lotto, tipografia di G. Gentili, Roma 1862, p. 133. Polpo e mercato Il Mediterraneo, troppo profondo vicino alla riva, scarso di secche indispensabili al riprodursi della fauna sottomarina e poco ricco di plancton, secondo Braudel era povero di pesce. Gli abitanti limitavano la pesca alle immediate vicinanze della costa e i pescatori erano anche pastori, artigiani e contadini1. Nel 1788 il marchese Palmieri precisava che il Regno di Napoli fosse circondato dal mare ma non fornisse alcuna specie di pesce in abbondanza tale da dar vita a un grosso ramo d’industria come quello di aringhe e baccalà. La pesca non era oggetto di commercio ma «di sostentamento, di comodo o di piacere»; i pescatori erano pochi perché la loro arte richiedeva notevoli capitali per acquistare barche e reti e solo alcuni, come i baresi che scorrevano nell’Adriatico e i gaetani nel Tirreno, vivevano di pesca per tutto l’anno, «ma non si sapeva se chiamarli pescatori o devastatori»2. In una regione come la Calabria, circondata da oltre ottocento chilometri di costa, le attività di pesca più fruttuose erano quelle del tonno e del pesce spada, praticate, però, solo per alcuni giorni dell’anno. La caccia allo xiphias gladius era millenaria e ricordava la lotta primordiale dell’uomo con gli animali. Una vedetta, sistemata sulle colline a strapiombo sul mare, scrutava l’ampia distesa delle acque pronta a segnalare la comparsa del pesce ai marinai sulle agili e veloci banche chiamate lontri. Avvistato il pesce spada agitava bandierine, a squarciagola dava ordini in greco ai compagni; questi si lanciavano all’inseguimento remando con tutta la forza possibile e un esperto lanciatore, appostato sulla poppa, fiocinava il pesce spada quando era a tiro. Al pesce arpionato si lasciava la corda fino a quando, dissanguato ed esausto, era tirato sulla barca3. Altrettanto antica era la pesca del thunnus con le «reti fisse». Questo tipo di cattura consisteva nello sbarramento del passaggio dei tonni lungo la loro rotta tramite il pedale, una lunga rete di corda che partiva dalla riva, ancorata al fondo da blocchi di pietra e tenuta tesa con grandi galleggianti di sughero. Incontrando il pedale, i tonni deviavano verso il largo in cerca di un varco e lo trovavano nel foratico, entravano nella camera grande e proseguivano per le camere piccole sino a giungere nella parte terminale della rete detta camera della morte. A questo punto i pescatori, sollevando la pesante rete, portavano i pesci in superficie e, cantando un’antica canzone in cui chiedevano pietà ai tonni, davano inizio alla mattanza4. Lungo le coste del Mediterraneo erano poche le persone che vivevano di pesca, il mestiere era tenuto in scarsa considerazione perché pericoloso, faticoso e poco rimunerativo. I pescatori rischiavano la vita, riposavano poco, mangiavano male, vestivano abiti logori, non riuscivano a mettere niente da parte e i loro profitti erano sempre a rischio5. Già nell’antica Grecia alcuni scrittori ponevano l’attenzione sulla durezza della loro esistenza. Si narrava che lo stesso Omero, andando per sollazzo lungo la spiaggia, incontrò alcuni pescatori che gli resero una testimonianza toccante sulla propria difficile condizione: gli dissero che «ciò che avevano preso non l’avevano e ciò che non avevano lo avevano preso», riferendosi ai pidocchi. Quelli che erano riusciti a catturare li avevano uccisi, quelli che non erano riusciti a prendere li avevano addosso. Il divino cantore, fu così colpito da tanta sofferenza da non reggerne il peso. Colto da un malore, morì improvvisamente6. Alcifrone racconta lo scoraggiamento e le preoccupazioni dei pescatori. Glauco scriveva alla moglie Galatea che uno di quegli uomini scalzi che recitavano versi al mercato avesse parlato di un legno sottile che separava i marinai dalla morte e di quanto fosse più prudente avviare i figli all’agricoltura per consentire loro di abbracciare una vita tranquilla e scevra da paure. Limenarco riferiva che la propria ciurma, appresa la notizia di un passaggio di tonni e palamiti, avesse circondato il golfo con una lunga rete. Giunto il momento di ritirarla, era tanto pesante da spingerli a richiedere l’aiuto di alcuni uomini per sollevarla, promettendogli in cambio una parte del pescato. Dopo un terribile sforzo, si resero conto di aver preso un gran «camelo» fradicio e pieno di vermi. Cimoto confidava alla sposa Tritonide che fosse ben diversa l’esistenza tra di chi viveva sul mare e chi sulla terra: i pescatori, al contrario di coloro che si dilettavano a coltivare i campi aspettando i frutti, passavano le giornate sull’acqua come quei pesci che tratti all’aere non possono più respirare. Eucolimpo confessava a Glauca che alcuni corsari lo volevano come compagno nelle loro scorrerie e che egli aveva sentito «l’acquolina in bocca» per l’oro e le vesti che promettevano, ma aveva sempre conservato le mani nette e non gli andava di diventare un assassino. Tuttavia, il peso della miseria era così insopportabile che chiese alla compagna di decidere cosa sarebbe stato opportuno fare7. Padula verso la metà dell’Ottocento, annotava che nella Calabria citeriore non ci fossero porti, il «barchereccio» era una miseria e le pescate scarse, di solito «pesciume minuto e frattaglie». A causa degli iniqui contratti che imponevano i proprietari delle barche, i pescatori vivevano tra i debiti e morivano senza averli pagati8. Quelli lungo i villaggi del Tirreno dicevano «marine di ponente, pane niente» e nei sogni il mare equivaleva a «pianto di dolore» o «si doveva lottare con miserie e malattie»9. A causa della vita dura e incerta i pescatori erano sempre particolarmente tesi e, quando si adiravano, «gettavano» nel berretto di lana i nomi di tutti i santi, lo mettevano sotto i piedi e lo pestavano credendo di rompere il naso a san Pietro, un occhio a sant’Antonio, un braccio a san Bartolomeo e, quando avevano finito, gridavano «santo Diavolo!»10. In una loro canzone si diceva che calavano le reti, le tiravano e non prendevano niente, quindi disarmavano le barche e si pulivano i denti. Il marinaio lasciava una cinquina alla moglie per comprare il pane «fino a che andava e tornava da Messina» ma la donna pregava san Nicola di farlo annegare; non le importava se fosse rimasta vedova, perché quanto valeva la scianca di un massaro, non valeva una barca di trecento remi11! Una buona pesca non dipendeva solo dall’abilità dei pescatori, dalle barche, dalle reti e dalle acque ricche di pesci ma anche dalla clemenza del tempo12. I pescatori facevano la fame e, quanto più i luoghi della pesca erano distanti, tanto maggiore era la spesa, poiché si richiedevano navigli grandi e ciurme numerose. La necessità di prendere pesce più grosso e pregiato spingeva le paranze a cercare battute fortunate in acque lontane, il che comportava un aumento dei rischi e l’impiego di più giorni per ritornare, con la conseguenza che il pesce, nel frattempo, andava in putrefazione13. La maggior parte dei pescatori del Mediterraneo viveva di piccola pesca che si esercitava in genere vicino alle coste. Alcuni siciliani proprietari di barche, in una petizione del 1869, scrivevano che dalle spiagge liguri sino alle lagune venete, pochissimi erano i pescatori che con reti sdrucite e, con poca perizia del mestiere, si dedicavano soprattutto alla cattura di acciughe e sardelle14. Quando il tempo era buono, i marinai uscivano dai porticcioli con le paranzelle e pescavano in zone dai fondali arenosi e fangosi per non danneggiare o perdere le reti15. Le reti a strascico distruggevano o turbavano la riproduzione dei pesci e i pescatori erano paragonati a quei selvaggi che per prendere frutti volevano abbattere l’albero. La fauna marina diminuiva e, per proteggerla, i governi cercavano di regolare la pesca varando provvedimenti restrittivi. Il 27 giugno 1627 gli eletti della città di Napoli vietarono la pesca con i tartaroni e gli sciabichielli, stabilendo che le maglie della rete cosiddetta manica, dovessero essere come quelle di una corona16. La pesca con le tartane francesi, introdotta nel 1643 dai marinai di Procida e Gaeta, dovette essere sospesa perché le reti ammaccavano le uova, uccidevano i pesciolini e danneggiavano i pascoli17. Un bando del 4 ottobre 1784, proibiva la pesca con le paranzelle, perché le reti, appesantite dalle mazzere per consentirgli di toccare il fondo del mare, distruggevano i pesciatelli. Si stabilì che le reti dovessero essere prive di pesi e avere maglie così dette chiare, della circonferenza di un tarì. Per consentire ai pesci di acquistare corpo e consistenza e non comprometterne la riproduzione, la pesca doveva iniziare il 4 novembre e terminare il «sabato santo» dell’anno seguente. I contravventori erano puniti con pene di sei mesi di carcere e la requisizione di reti e barche18. In Italia la maggior parte degli abitanti viveva nelle zone interne e molti non vedevano mai il mare. Il naturalista Genè di Tubino, in un saggio sui pregiudizi popolari legati agli animali, tra le specie marine citava solo sirene, delfini e balene, esseri che la gente di campagna conosceva attraverso fiabe e leggende19. I contadini mangiavano pesci d’acqua dolce che catturavano costruendo chiuse di ciottoli e fango per deviare il corso dei fiumi ma più frequentemente avvelenandoli usando calce viva, malli di noce, tasso, finocchi d’acqua e altre piante velenose20. I medici sconsigliavano i pesci presi con l’uso di sostanze tossiche e il consumo di alcune specie che vivevano nelle paludi e negli stagni perché avevano carni grasse, difficili da digerirsi e pericolose per le viscere21. I trattati d’igiene sostenevano che i pesci fossero poco nutrienti e quindi non adatti per chi si sottoponeva a dure fatiche come la gente di campagna22. I contadini, occupati nei duri lavori campestri, preferivano la carne degli animali terrestri, che meglio soddisfaceva il loro bisogno di proteine e, non a caso, dicevano «carne fa carne» e «chi mangia cacio e pesce la vita gli rincresce»23. Persino in ambienti religiosi c’era chi si schierava a favore della carne. Il beato Giordano da Rivalto, ad esempio, sosteneva che gli animali terrestri dessero «nutricamento» più d’ogni altro cibo perché, più simili al corpo umano e quindi più facilmente convertibili in carne24. Il pesce, comunque, cominciò a essere presente anche sulle tavole dei contadini e a contribuire alla sua diffusione fu la proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno che oltrepassavano un terzo e, tra i chierici, anche la metà dell’anno25. San Martino sosteneva che si potesse consumare pesce anche durante la Pasqua e san Girolamo autorizzava i suoi monaci di mangiarne di tanto in tanto, purché preparato in maniera semplice26. Nessuno sapeva spiegare le ragioni del perché la carne fosse proibita e il pesce consentito. Rivolgendosi agli ebrei che distinguevano gli animali puri da quelli impuri, Gesù aveva ammonito che non fosse ciò che entrava ma ciò che usciva dalla bocca a rendere l’uomo impuro27. E Paolo nella prima lettera ai Corinzi, avvertiva che non potesse essere un alimento ad avvicinare i fedeli a Dio: se non ne mangiavano non avrebbero perso nulla, se ne mangiavano non avrebbero avuto niente di più28. Alcuni teologi ricordavano che i discepoli, prima di «pescare» anime, pescassero pesci, tanto che lo stesso Gesù era raffigurato dai suoi fedeli come un pesce29. Il monaco camaldolese Costadoni, analizzando i simboli del pesce in lapidi sepolcrali, bassorilievi, cimiteri, basiliche e cammei, spiegava che gli antichi cristiani, impossibilitati dal professare liberamente la propria fede, disegnassero un pesce a rappresentare il Cristo e che lo stesso simbolo fosse utilizzato come segno di riconoscimento30. I predicatori cristiani, ciò nonostante, incontravano non poche difficoltà nel convincere i fedeli a mangiare pesce nei giorni di penitenza. Maria De’ Nobili, verso la fine del Settecento notava nella popolazione una diffusa ostilità nei confronti dei pesci e qualcuno, addirittura, considerava le loro carni al pari di quelle di una vipera velenosa. In realtà i pesci tenevano lontani i demoni, reprimevano i moti della concupiscenza e davano luce al corpo e all’anima. L’importante era non abusarne e prepararli in modo semplice mentre, su alcune tavole, anche durante la Quaresima si «digiunava» con pranzi di pesci rari e costosi accompagnati da vini generosi31. La Chiesa era costretta a denunciare lo scandaloso vizio d’imbandire mense luculliane a base di pesce nei giorni di magro e ricordare ai fedeli che i sacri digiuni servivano per mortificare gusto, palato e sensi; il pesce doveva essere cibo di continenza e non di delizia, mangiandolo con godimento si peccava come se si mangiasse carne32! Ai fedeli era consentito mangiare pesce durante la Quaresima, purché si astenessero dagli squisiti e delicati «guazzetti» ed evitassero quelli pregiati e costosi che soddisfacevano la gola33. Non sappiamo se i poveri non consumassero pesce perché lo ritenessero poco nutriente e salubre, ma è probabile che non lo acquistassero perché troppo caro. Linceo di Samo, in un trattato sull’arte di comprare pesce dedicato a un amico poco abile nel fare la spesa, dava una serie di consigli su come disprezzare la merce dei pescaioli per comprarla a buon mercato34. Plinio scriveva che il pesce fosse il cibo più costoso per il ventre e valore e sapore dipendevano dai pericoli corsi da chi lo pescava35. Giovio annotava che i ricchi romani, amavano mangiare pesce e lo importavano con le loro veloci navi dai porti più lontani e consideravano più saporiti quelli con quanta più fatica i pescatori impiegavano per prenderli o a maggiore prezzo si compravano36. Nelle regole che dovevano osservare i fratelli della «famosissima compagnia della Lesina», diretta dai più illustri spilorci del paese, si legge che il pesce era «mal cibo» non solo perché era nocivo allo stomaco ma perché svuotava le borse dei poveri cittadini. Non bisognava comprare quello fresco perché era caro e come «supplemento» accontentarsi di un’alice o un’aringa e, nel caso si trovava a buon prezzo, mai friggerlo perché l’olio costava molto37! Il pesce fresco è stato sempre un cibo particolarmente caro e gli scrittori greci descrivevano i pescivendoli come insopportabili. Per Anfide era mille volte più facile parlare con gli strateghi che con loro: se un cliente chiedeva il prezzo di un pesce, come se nulla avessero udito, continuavano a sbattere i polpi sul bancone38. Difilo credeva fossero malvagi e disonesti nella sola Atene, ma si ricredette quando si rese conto che questa «razza», simile a belve affamate, fosse rozza, perfida e imbrogliona ovunque39. Senarco affermava che non esistesse specie umana più saccente, maligna e truffaldina dei pescaioli. Raccontava che uno di loro, uomo davvero inviso agli dei, dato che una legge vietava di bagnare i pesci al mercato, provocò una rissa fingendo di stramazzare morto sul bancone mentre un complice, con la scusa di farlo rinvenire, gettava acqua sui pesci rinsecchiti per farli sembrare freschi40. Alessi lodava il legislatore Aristonico che aveva stabilito la galera ai pescivendoli disonesti e, per far sì che vendessero velocemente la merce, dispose che dovessero stare in piedi, minacciandoli, in caso contrario, di farli lavorare «appesi ad una macchina come le divinità»41. I pescivendoli erano invisi perché vendevano la loro merce a prezzi esorbitanti. Antifane pensava che le Gorgoni fossero un’invenzione, ma andando al mercato, a guardare l’aspetto dei pescaioli e i costi dei pesci, diceva che era meglio volgere lo sguardo altrove perché, altrimenti, si poteva restare impietriti42. Difilo sosteneva che a Corinto, quando uno acquistava abitualmente pesce, si avviava un’indagine per sapere cosa facesse e quanto guadagnasse: se spendeva oltre quello che possedeva lo multavano e, se non aveva nulla e viveva sfarzosamente, lo consegnavano al boia43. Raccontava inoltre che in città il pesce raggiunse prezzi così esagerati da arrivare a pagare un grongo a peso d’oro, come fece Priamo per Ettore: se il gran dio Poseidone avesse ricevuto ogni giorno la decima parte delle vendite nel mercato ittico sarebbe diventato il più ricco degli dei44! Alessi annotava che i pesci, vivi o morti, erano sempre nemici dell’uomo: quando una nave affondava divoravano l’equipaggio, quando erano loro a essere catturati mandavano in rovina chi li comprava45! I pescivendoli erano accusati di fare affari d’oro alle spalle dei poveri cittadini ma Alessi, invocando l’aiuto di Atena, chiedeva come mai, pur ricevendo «tributi da re», erano tutt’altro che ricchi46. Essi vendevano caro perché le risorse impiegate per procurare i pesci erano superiori a quelle di qualsiasi altro alimento e perché, facilmente deperibili, appena catturati dovevano essere mangiati47. Antifane osservava che al mondo non ci fosse animale più sfortunato dei pesci: una volta catturati, erano sepolti nella pancia di chi li mangiava o, se consegnati agli sciagurati pescivendoli, dopo due o tre giorni imputridivano48. Nell’antica Roma il costo del pesce superava notevolmente quello degli altri cibi e Catone, biasimando gli eccessi alimentari dei patrizi, annotava che difficilmente una città in cui un pesce fosse più caro di un bue potesse sopravvivere49. Andava urlando in città per denunciare quelle persone che avevano introdotto il lusso dei paesi stranieri, arrivando a spendere 300 dracme per un vaso di pesce salato del Ponto50. Nei secoli seguenti i deputati di alcune città italiane furono costretti a prendere severi provvedimenti per regolare la vendita del pesce, pur non essendo facile garantire la sussistenza ai pescatori, assicurare il lecito guadagno ai rivenditori e tutelare le tasche degli acquirenti51. Il 25 gennaio 1509, per arginare le speculazioni, le autorità napoletane obbligarono pescatori e pescivendoli a vendere la merce negli appositi mercati52. Con una serie di leggi in seguito stabilirono che nessun sciabacaro, accattatore o ricattiere potesse smerciare pesce al minuto o all’ingrosso e che dovesse essere portato alla «pietra del pesce» per essere «ingabellato». Ricattieri e pescivendoli, a loro volta, non potevano comprare pesce fresco dagli sciabeccaj e rivenderlo liberamente a cittadini e tavernari. Il pesce, infine, non doveva essere venduto «a occhio», ma determinandone le quantità con le bilance; per i pescajoli che li lavavano o ne tingevano le branchie per farli apparire più freschi, si prevedeva la requisizione della merce, il ritiro della licenza, la somministrazione di pene pecuniarie, frustate e carcere53. Nel Settecento si aprì un’accesa discussione sulla vendita del pesce e sull’opportunità di sottoporlo all’assisa. L’abate Scucrulla, polemizzando con un collega, scriveva che per quanto i pescivendoli usassero diverse astuzie per mantenere fresco il pesce, come quella di tenerlo nelle grotte, esso non si poteva conservare a guisa delle carrube o delle castagne e che bisognasse lasciare al popolo la capacità di distinguere quello fresco da quello marcio. A chi lamentava che i pescivendoli vendessero più caro il pesce che con l’assisa, egli replicava che con il tempo loro stessi avrebbero abbassato i prezzi perché la loro ingordigia avrebbe fatto scemare il numero dei compratori e avrebbero rischiato di non vendere la merce54. Pietro Zorzi scriveva che i governatori di Venezia, tramite la cosiddetta «Arte dei Compravendi», avevano esercitato un tirannico diritto sugli infelici pescatori pagando il loro pesce a «vilissimo prezzo». Nel 1797 i lavoratori del mare gemevano nella miseria poiché, nonostante rischiavano ogni giorno la vita nel mare in burrasca, pagavano un dazio del 26 per cento su tutta la merce. I Compravendi, padroni del pesce all’ingrosso, acquistavano i tonni dei pescatori a 24 soldi la libbra e, sotto i loro occhi, lo vendevano a 50 soldi55! Verso la fine del Settecento a Napoli il pesce era venduto dai piscaturi, parsonali, rigattieri e bazzarioti. I piscaturi lo vendevano ai parsonali, con cui stabilivano contratti annuali, i rigattieri acquistavano i pesci di nascosto e i bazzarioti lo prendevano da parsonali e rigattieri per venderlo al minuto. I parsonali, quando c’era molto pesce impossibile da vendere, per rallentarne l’imputridimento lo conservavano nelle grotte e lo smerciavano in piccole quantità, così da mantenere il prezzo; i rigattieri, comprando dai pescatori il pesce a un costo maggiore dei parsonali, erano costretti a venderlo più caro. La vendita del pesce era regolata da norme consuetudinarie e ogni quartiere aveva i suoi venditori: i parsonali, ad esempio, vendevano soprattutto nelle piazze di S. Lucia, del Mandracchio e della Pietra mentre i bazzarioti in quelle di Garitta, Pignasecca, Porta S. Gennaro, Pennino, Porto e Visitapoveri56. Qualche anno dopo, in un’inchiesta sull’alimentazione, alcuni studiosi napoletani osservavano che il popolo minuto facesse in generale poco uso di pesci freschi perché il loro prezzo era superiore alla carne di vacca, d’agnello, di maiale e di gallina. I pesci servivano solo per rompere la monotonia del pasto a base di pane e maccheroni. Nelle famiglie povere ogni tanto si preparavano zuppe a base di vavose, ruonchi, marvizzi, pesci palombo e pesci spinosi come sparagliuni, scurmi e castagna. Apprezzato era anche un misto di pesci minuti chiamata fravaglia e un’altra mescolanza di pesciolini detti mazzamme. Si preparavano in svariati modi anche sarde, piccole alici (perché quelle più grandi si vendevano a caro prezzo) e soprattutto polpi, cucinati in zuppa o in bianco e conditi con olio e limone. Nei giorni di festa si andava nelle bettole per mangiare la frittura di guarracini, sauri, saurielli, mazzuni, tremolelle, pescatrici, fiche, suace e cazzilli di re, ma si trattava di pesci già in via di putrefazione, cucinati con grassi rancidi e oli cattivi57. Il pesce pescato lungo le coste non era sufficiente a soddisfare la domanda e si importavano da ogni parte pesci secchi, affumicati e salati. Diversi medici avvertivano i pazienti di non farne grande uso perché difficili da assimilare, generavano sangue denso e provocavano diverse malattie58. Nonostante i pareri dei sanitari, il consumo di baccalame era notevole e le acque in cui si dissalavano, emanavano esalazioni così fetide da indurre le autorità a ordinare che il pesce si potesse raddolcire solo nei mercati59. Baccalà e stoccafisso conquistarono il favore anche dei contadini dell’entroterra che, specialmente in occasione delle feste, cominciarono ad acquistarli perché erano gustosi e avevano un prezzo accessibile60. Per la capacità di conservazione e per il prezzo conveniente il baccalame era largamente consumato anche nelle città marinare, nei villaggi lungo la costa e nelle isole. Durante la gravissima carestia del 1674, i messinesi per contrastare il tormento della fame, si nutrivano ogni giorno con mezzo pane a testa e tre once di baccalà61. Nello stesso secolo, per una grave epidemia di peste che stava decimando i napoletani, le autorità vietarono la vendita di pesce salato perché si riteneva che, consumato in grandi quantità, fosse una delle cause del morbo62. Nel Settecento vascelli provenienti da ogni parte d’Europa scaricavano nei porti italiani barili e ceste di alici, sarde, sgombri, salmoni, storioni, tonni, anguille, merluzzi e altri pesci salati, seccati o affumicati63. Nel 1784 giunsero a Napoli decine di bastimenti che trasportavano pesce salato e affumicato tra cui 21 brigantini inglesi carichi di baccalà e di aringhe e 4 grandi vascelli danesi pieni di stoccafisso64. Nel porto arrivavano anche feluche genovesi e siciliane che trasportavano sarde e alici: nel 1834 dalla sola Sicilia si esportarono nella capitale 22.058 once di acciughe, 53.836 di sarde salate e 10.687 di tonnina65. Polpi, seppie, calamari e totani non avevano un gran mercato e, non a caso, insieme ai pesci presi con la cannuccia, si potevano vendere senza limitazioni e senza tasse66. La loro pesca si praticava solo in certi periodi dell’anno e con metodi arcaici. Calamari e totani erano catturati con un semplice ordigno chiamato làtero o spugna, pezzo di piombo dalla forma di fuso avente a un estremo una corona di uncini a cui s’innescava lardo. L’aggeggio era tenuto sospeso nell’acqua con una cordellina: il calamaro, attratto dall’esca, vi si avventava voracemente rimanendo attaccato agli ami. I totani, che a volte raggiungevano grandi dimensioni, erano catturati anche con le palanghesi o calando un merluzzo fissato all’amo, detto guancio, a sua volta legato all’estremità di un’asta detta agguancia. Le seppie, che pascevano presso luoghi arenosi poco distanti dalla costa, si pescavano con il lanciatoio e, se le acque erano agitate, si usavano le sporte, grandi nasse che s’immergevano di giorno e si lasciavano la notte. Nelle zone scogliose le seppie si prendevano con la mazza ma alcuni pescatori di buon mattino usavano anche trascinare dalla poppa della barca una seppia femmina e, quando i maschi per naturale istinto vi si avvicinavano, li afferravano col coppo67. Anche le tecniche per pescare i polpi erano arcaiche. In un saggio del 1932 sulla loro pesca nel golfo di Napoli, Santarelli scriveva che la più diffusa fosse quella a fuoco o a ogliu che si praticava di notte, nei fondali rocciosi, quando il mare era calmo. Due pescatori, uno ai remi e l’altro a poppa, dove era fissata una forte lampada ad acetilene a tre o quattro becchi, prendevano posto sul guzzo e si aggiravano presso le scogliere, dov’era più facile trovare le prede. Di tanto in tanto spruzzavano olio con una piuma per rendere visibile il fondale e, appena avvistato il polpo, il marinaio a poppa lo infilzava con una lunga fiocina. La pesca col cacatrapene si attuava trascinando sul fondo un pezzo di pietra bianca, generalmente un frammento di marmo al quale erano fissati dei crostacei chiamati mammunacchia. L’attrezzo era legato a una cordicella di canapa lunga una quarantina di metri e il polpo, attratto dal bianco e dalle esche, vi si avvolgeva con i suoi tentacoli e, tirato lentamente in superficie, era preso col coppo. Per catturare i polpi che si nascondevano tra gli scogli, i pescatori usavano la purpara, un attrezzo formato da un pezzo di piombo con quattro uncini sui quali erano conficcati granchi o mezze sarde. L’ordigno, legato a una funicella, era lanciato e trascinato lentamente, così da consentire al mollusco di avventarsi sull’esca e rimanere agganciato agli ami. Nella pesca a scaccia, che si eseguiva nelle giornate senza vento, con il mare calmo e in fondali bassi, si agitava fra le rocce una pezzuola bianca legata all’estremità di un’asta più o meno lunga detta mazza. Il polpo verace, scambiando il panno bianco per una preda, usciva dalla tana e il pescatore lo infilzava con il lanzaturo. La pesca con le lancelle, orioli d’argilla cotta dalla bocca ampia e con due maniche, si praticava durante l’estate in prossimità degli scogli chiamati dai pescatori cuttiaturi. Vi si ponevano all’interno delle pietre bianche per renderle pesanti e si calavano a basse profondità. Ogni guzzo portava dalle trecento alle quattrocento lancelle legate alla distanza di un metro e mezzo a una corda chiamata funiciello. La «visita» alle lancelle, che i polpi pensavano fossero buone tane, era fatta di giorno perché di notte erano in giro in cerca di cibo. La pesca con le sporte si praticava in estate tra gli scogli e in inverno nelle zone dette ciglio, dal nome di un’alga allungata. Le sporte erano nasse di giunchi legate a una corda di paglia alla distanza di otto metri, costruite in modo che il polpo, una volta entrato per mangiare le esche, non potesse più uscire. All’interno delle nasse si mettevano vari tipi di crostacei e si aggiungevano pietre per mantenerle sul fondo in posizione orizzontale68. Santarelli annotava che i polpi fossero molto richiesti dai napoletani e di sera nei quartieri non mancavano venditori ambulanti che li vendevano lessi e conditi con salsa piccante. Nel golfo ogni anno se ne prendevano circa trecento quintali e in inverno, quando la pesca era meno abbondante per via del mare agitato, arrivavano soprattutto dalla Sardegna dove se ne pescavano oltre cento quintali. Il polpo sinisco o asinesco, come lo chiamavano i popolani, era preso in grande quantità con le reti nelle zone sabbiose ma non era molto apprezzato perché difficile da cuocere e di sapore insipido69. Quello ricercato era il purpo verace o purpu di scoglio, specie se piccolo, più saporito e delicato di quelli più grandi70. Per intenerirne la carne, si bagnavano nell’acqua di mare e si battevano sugli scogli o con una mazza di legno, quindi si ponevano all’interno di ceste che i marinai agitavano ripetutamente in modo da farne arrizzare i tentacoli e secernere una leggera schiuma bianca71. 1. Fernand Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini e le tradizioni, Bompiani, Milano 1999. 2. Giuseppe Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, per Vincenzo Flauto, Napoli 1788, pp. 123-127. 3. Lazzaro Spallanzani, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino, nella stamperia di Baldassarre Comini, Pavia 1793, t. IV, pp. 308-318; Commissione compartimentale di pesca, La pesca del pesce-spada in Calabria, tip. P. Lombardi, Reggio Calabria 1906; Rocco Sisci, La caccia al pesce spada nello Stretto di Messina, Sfameni, Messina 2005; Agatino D’Arrigo, La pesca del pescespada in Calabria dal II secolo a.C. ai nostri tempi, in Atti del 1 Congresso storico calabrese, Cosenza 15-19 settembre 1954, pp. 403-423; Giorgio Picciotto, Le formule greche usate un tempo nella pesca del pescespada nello stretto di Messina, Moti, Palermo 1965; Giovanni Sole, La foglia di alisier. Calabria e calabresi nei diari di viaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 382-388; Mico Morabito, La pesca del pesce-spada nel mare di Palmi, in Folklore della Calabria, in «Rivista di Tradizioni Popolari», Società Calabrese d’Etnografia e Folklore, a. III, n. 2, Palmi 1958, pp. 74-78. 4. Cfr. Ilario Tranquillo, Istoria apologetica dell’antica Napizia, oggi detta il Pizzo, nella stamperia di Carmino Pedagna, Napoli 1725, pp. 104-106; Francesco Paolo Avolio, Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino de’ tonni, presso la Società Tipografica, Messina 1816; Atti della Commissione reale per le tonnare, tip. Eredi Botta, Roma 1889; Le tonnare di Pizzo. Materiali, documenti, ricerche, Qualecultura - Jaca Book, Vibo Valentia 1991. 5. Cfr. Melchiorre Gioia, Filosofia della statistica, da’ torchi del Tramater, Napoli 1831, pp. 249-260. 6. Vite degli antichi filosofi moralissime e delle loro elegantissime sentenze cavate da Diogene Laerzio e da altri antichi autori, appresso all’Arcivescovado, Firenze 1593, p. 23. 7. Francesco Negri (a cura di), Lettere di Alcifrone, presso Salvi e Ripamonti, Milano 1806, pp. 20-36. 8. Vincenzo Padula, Industria terreni e stato delle persone in Calabria (dal “Bruzio”), Padula ed., Roma 1978, pp. 137-146. 9. Raffaele Lombardi Satriani, Credenze popolari calabresi, Fratelli De Simone, Napoli 1951, p. 79. 10. Vincenzo Padula, op. cit., pp. 137-146. 11. Giuseppe Chiapparo, La marineria tropeana nelle sue tradizioni e consuetudini, Prampolini, Catania 1939, p. 167. Cfr. Giovanni Sole, La pesca e il mare nella Calabria tradizionale, in «Daedalus», n. 7-8, luglio-dicembre 1991 e gennaio-giugno 1992, pp. 93-124; Id., Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800. Pagine di storia sociale, Amministrazione Provinciale, Cosenza 1985, pp. 114-123; Alida Clemente, Il mestiere dell’incertezza. La pesca nel golfo di Napoli tra XVIII e XX secolo, Guida, Napoli 2005. 12. Cfr. Francesco di Paola Avolio, Delle leggi siciliane intorno alla pesca, dalla Reale Stamperia, Palermo 1805. 13. Cfr. Valdo D’Arienzo, Biagio Di Salvia (a cura di), Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età contemporanea, Atti del quarto Convegno internazionale di studi sulla storia della pesca, Fisciano-Vietri sul Mare-Cetara, 3-6 ottobre 2007, Franco Angeli, Milano 2010. 14. Petizione documentata dei pescatori siciliani al Parlamento Nazionale sulla necessità, pubblica e privata, di modificarsi alcune disposizioni del codice per la marina mercantile, concernenti l’esercizio della pesca, stab. di Giuseppe Pellai, Firenze 1869, p. 8. 15. Cfr. Pietro Coccoluto Ferrigni, La piccola pesca e le paranzelle, tip. di Odoardo Sardi, Livorno 1866. 16. Leonardo Dorotea, Sommario storico dell’alieutica che si esercita nelle provincie meridionali e della legislazione correlativa alla stessa, stab. tip. di F. Vitale, Napoli 1863, pp. 6-8. 17. Cfr. Nicolò Joele, Difesa della proibizione della pesca con tartane francesi, anche ad una, a tenor del Generale Editto del fù Cons. Coll. del 1729, s.e., Napoli 1738. 18. Cfr. Leonardo Dorotea, op. cit., 1863. 19. Giuseppe Genè, Dei pregiudizi popolari intorno agli animali, Tommaso Vaccarino, Torino 1869. 20. Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 61-62 Apelle Dei, Ittiologia, piscicoltura e pesca nella provincia senese, tip. A Moschini, Siena 1871, pp. 61-62; Giuseppe Antonio Pasquale e Giulio Avellino, Flora medica della provincia di Napoli, dai tipi di Azzolino e Compagno, Napoli 1841, p. 87; Antonio Vaccari, Sulla tossicità di due piante indigene italiane usate come veleno per i pesci: Oenanthe Crocata L. e Daphne Gnidium L., tip. L. Cecchini, Roma 1906. 21. Saggio sopra le malattie più comuni alla gente di campagna e sopra il metodo di medicarle. Opera utile e necessaria a qualunque genere di persone, s. e., Milano 1784, pp. 11-15. 22. Etienne Tourtelle, Trattato d’igiene ossia dell’influenza delle cose fisiche e morali sull’uomo e dei modi di conservare la salute, co’ tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli, Venezia 1842, pp. 203-208. Cfr. Saggio sopra le malattie più comuni alla gente di campagna e sopra il metodo di medicarle, s.e., Milano 1784. 23. Giuseppe Bernoni, L’igiene della tavola dalla bocca del popolo, ossia proverbi che hanno riguardo all’alimentazione raccolti in varie parti d’Italia, tip. di Giuseppe Cecchini, Venezia 1872, pp. 39, 47. 24. Prediche del beato F. Giordano da Rivalto, in Collezione di sacri oratori italiani, tip. della Speranza, Firenze 1833, pp. 296- 297. 25. Johann Peter Frank, Sistema completo di polizia medica, presso Pirotta e Maspero, Milano 1807, p. 177. Cfr. La teologia del chiostro overo la santità e le obbligazioni della vita monastica, nella stamperia di Antonio de’ Rossi, Roma 1731, pp. 146-148. Cfr. Massimo Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 80-87. 26. Pompeo Sarnelli, Lettere ecclesiastiche, appresso Antonio Bortoli, Venezia 1716, p. 24. 27. Vangelo secondo Matteo, XV, II, in Moraldi L. (a cura di), op. cit., p. 1129. 28. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 8, 7, in Moraldi L. (a cura di), op. cit., p. 1281. 29. Lodovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa, Lucca, appresso Sebastiano Domenico Cappuri, 1742, pp. 57-58. 30. Anselmo Costadoni, Dissertazione sopra il pesce come simbolo di Gesù Cristo presso gli antichi cristiani, dal Monastero di San Michele presso Murano, Venezia 1749. Cfr. Johann Cyprian, Dissertatio philologica de nomine Christi ecclesiastico acrosticho piscis, Literis Goezianis, Lipsiae 1699. 31. Vincenzo Maria De’ Nobili, Opere predicabili contenenti lezioni sacro- morali. Panegirici e discorsi sacri, all’insegna del Cicerone, Venezia 1766, pp. 58-59. 32. Giacomo Picenino, La chiesa di Gesù Cristo vendicata ne’ suoi contrassegni e né suoi dogmi contro le impugnazioni presentate, appresso Gio. Battista Recurti, Venezia 1724, p. 533. Cfr. Daniello Concina, La Quaresima appellante dal foro contenzioso di alcuni recenti casisti al tribunale del buon senso e della buona fede del popolo cristiano sopra quel suo precetto del digiuno, presso Simone Occhi, Venezia 1756, pp. 179-180. 33. Giuseppe Rigetti, Del digiuno e della Quaresima, tipografia delle Belle Arti, Roma 1834, pp. 95-96; Ludovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa, appresso Sebastiano Domenico Cappuri, Lucca 1742, pp. 57-58. 34. Ateneo, op. cit., VII, 313f, vol. II, p. 759. Cfr. I frammenti della gastronomia di Archestrato, cit., p. 15. 35. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345. 36. Paolo Giovio, op. cit., p. 18. 37. Della famosissima compagnia della Lesina. Dialogo, capitoli e raginamenti. Con l’aggiunta d’una nuova Riforma, Additione & assottigliamento della unta della Lesina. Alla quale si è rifatto il manico, venuto meno per l’uso continuo de’ Fratelli. Et infine si danno i ricordi di Filocerdo della casata delli sparmiatori all’Academia, e compagnia dell’una, & dell’altra Provincia della Lesina Maggio e minore, Dove trattasi di nuovi, & utilissimi precetti dalla compagnia a massari suoi raccolti dall’economo della spilorceria e di nuovo ricorretta, per Antonio Colaldi, Orvieto 1600, p. 23. Cfr. Giulio Cesare dalla Croce, La vera regola per mantenersi magro con pochissima spesa, scritta da Messer Spilorcione de’ Stitichi, Correttore della nobilissima Compagnia della Lesine, am. Agocchion Spontato suo compare. Opera utilissima per tutti coloro, che patiscono strettezza di borsa, presso gli Heredi di Bartolomeo Cochi, al Pozzo rosso, Bologna 1622. 38. Ateneo, op. cit., VI, 224c, vol. II, p. 546. 39. Ivi, VI, 225c, vol. II, p. 547. 40. Ivi, VI, 225c, vol. II, p. 548. 41. Ivi, VI, 226b, vol. II, p. 550. 42. Ivi, II, 224c, vol. II, p. 546. 43. Ivi, VI, 228b, vol. II, p. 553. 44. Ivi, VI, 227a, vol. II, p. 551. 45. Ibidem. 46. Ivi, VI, 226b, vol. II, p. 549. 47. Arte di conservare alimenti tanto vegetabili che animali impiegati particolarmente nell’economia domestica pel nutrimento dell’uomo, dalla tip. di Commercio, Milano 1824, pp. 43-45. 48. Ateneo, op. cit., VI, 224c, vol. II, p. 546. 49. Carlo Rollin, Storia antica e romana, a spese del Nuovo Gabinetto Letterario, Napoli 1829, p. 183. 50. Ateneo, op. cit., VI, 275b, vol. II, p. 651. 51. Capitolazione sopra la Grassa, ed altre cose spettanti all’officio de gli Edili, da osservarsi nella Città di Ravenna, e suo distretto, appresso gli stampatori Camerali & Archiepiscopali, Ravenna 1649, pp. 19-22. 52. Privilegii et capitoli con altre gratie concesse alla fedeliss. Città di Napoli, & Regno per li Sereniss. Rì di Casa de Aragona, per Pietro Dusinelli ad istantia di Nicolò de Bottis, Venetia 1588, p. 72. 53. Supplementum pragmaticarum novissime editarum ab anno MDCCXII usque ad annum DCCXVIII, t. VI, p. 14-15; Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, nella stamperia Simoniana, Napoli 1767, pp. 219-221; Lorenzo Cervillini, Direttorio della prattica civile e criminale, nella stamperia di Giovan Francesco Paci, Napoli 1723, pp. 38-39; Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, nella stamperia Simoniana, Napoli 1803, pp. 228-229. Cfr. Ginesio Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, a spese di Andrea Migliaccio, Napoli 1772, p. 177. 54. Lettera dell’abate Scucrulla intorno all’abolizione dell’assisa del pesce mandata da Sorrento à 23 di Luglio 1790 al signor F.D., in Signorelli P., Opuscoli vari, stamperia Orsiniana, Napoli 1793, t. III, pp. 130-151. Cfr. Giacinto Bellitti, Considerazioni sulla libertà dell’annona e sull’abolizione dell’assisa del pesce, s.e., Napoli 1791; Francesco Mario Pagano, Ragionamento sulla libertà del commercio del pesce in Napoli, s.e., Napoli 1789; Pietro Patrizj, Per gli Arrendamenti del Reale, e del Grano a rotolo del Pesce. In esclusione della dinunzia loro fatta nella Regia Camera della Sommaria Commessario il dottiss. Presidente Sig. D. Gennaro di Ferdinando, s.e, Napoli 1772. 55. Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, legislazioni ec. ec. ec. del nuovo Veneto Governo Democratico, dalle stampe del cittadino Gatti, Venezia 1797, vol. VIII, pp. 52-55, 118. 56. Giacinto Bellitti, op. cit., p. 54. 57. Achille Spatuzzi e Luigi Somma, Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, stamperia della R. Università, Napoli 1863, pp. 39-47; Errico Renzi, Sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli, stamperia della R. Università, Napoli 1863, pp. 25-29. 58. Fulvio Gherli, op. cit., pp. 164-165; Ugo Benzo, Regole della sanità et della natura de cibi, per gli Heredi di Gio Domenico Tarino, Torino 1620, p. 497. 59. Giambatista De Luca, Il dottor volgare, ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica, coi tipi della Società Italiana, Firenze 1843, p. 660; Giornale delle udienze della Corte di Cassazione e delle Corti Reali, della tip. dell’Ateneo, Napoli 1827, p. 458. 60. Gino Capponi, Cinque lettere di economia toscana lette nell’Accademia dei Georgofili, coi tipi della Galleria, Firenze 1845, p. 70. Cfr. Codice gastrologico economico per istruzione dei giovani che vogliono professare l’arte della cucina, credenziere e liquorista e per quelli che vogliono dilettarsi in simili arti, per i tipi di G. Galletti, Firenze 1841, pp. 71-74; Ippolito Cavalcanti, Cucina teorico-pratica col corrispondente riposto ed apparecchio di pranzi e cene, dalla tip. di G. Palma, Napoli 1839, pp. 82-85. 61. Giovanni Battista Romano Colonna, Della congiura de’ ministri del re di Spagna contro la fedeliss. ed esemplare città di Messina. Racconto istorico. Parte seconda nella quale si contengono le gloriose imprese della città di Messina, le vergognose fughe de gli Spagnuoli, la penuria e la fame da i cittadini, appresso Gio e Giacomo Anisson e Gio Posuel, Lione 1678, p. 55. 62. Carlo Botta, Storia d’Italia continuata da quella di Guicciardini sino al 1789, tip. e lib. Elvetica, Capolago 1833, p. 151. 63. Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, n. 44, dalla Stamperia Reale, Napoli 1826, p. 153. 64. Francesco di Paola Avolio, Delle leggi siciliane intorno alla pesca, dalla Stamperia Reale, Palermo 1805, p. 40. 65. Giornale di statistica compilato dagl’impiegati nella Direzione Centrale della Statistica di Sicilia, della Reale Stamperia, Palermo 1836, vol. I, p. 15. Cfr. Attilio Zuccagni Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole corredata di un atlante di mappe geografiche e topografiche e di altre tavole illustrative, presso gli Editori, Firenze 1842, p. 396; Itinerario italiano o sia descrizione dei viaggi per le strade più frequentate alle principiali città d’Italia, presso gli editori Pietro e Giuseppe Vallardi, Milano 1824, p. 281. 66. Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, nella stamperia Simoniana, Napoli 1767, pp. 215-216. 67. Adolfo Targioni Tozzetti, La pesca in Italia. Documenti raccolti per cura del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, tip. del Reale Istituto Sordo-Muti, Genova 1871, pp. 410-411. 68. Mario Santarelli, La pesca del polpo (Octopus vulgaris) nel golfo di Napoli, Bulletin de l’Institut Océanographique, n. 597, 30 avril, Monaco 1932, pp. 1-6. 69. Stefano delle Chiaie, Memorie sulla storia e notomia degli animali senza vertebre del Regno di Napoli, stamperia della Società Tipografica, Napoli 1829, vol. IV, pp. 39-49. 70. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896, p. 216. 71. Adolfo Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 408-410; Leonardo Dorotea, op. cit., p. 12; Achille Costa, La pesca nel golfo di Napoli, in Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali Economiche e Tecnologiche di Napoli, II serie, t. VII, pei tipi del commendatore G. Nobile, Napoli 1870, pp. 73-76; Mario Santarelli, La pesca del polpo (Octopus vulgaris) nel golfo di Napoli, Bulletin de l’Institut Ocèanographique, Monaco 1932. Il tabù del polpo Plutarco riconosceva che il divieto dei pitagorici di mangiare alcuni pesci e molluschi rimane oscuro1. Malgrado i tabù appaiano spesso insensati, essi si riferiscono a una realtà concreta e, se la realtà è complessa e varia, complessi e vari sono anche i loro significati. Queste accezioni, a volte completamente diverse, possono convivere data la natura dinamica del tabù, che ne consente la modifica senza che si creino contraddizioni. È impossibile tracciare un quadro unico sul significato del tabù del polpo anche perché esso non si sottrae ai mutamenti politici, sociali ed economici. Il tabù è un imperativo categorico soggetto a contaminazioni, nel tempo assume forme e contenuti modellati sui bisogni degli uomini. Se oggi il polpo rappresenta un cibo buono da mangiare, secoli fa era considerato un alimento abominevole; quella che oggi appare come una bizzarra proibizione, non lo era affatto per l’uomo antico. Il tabù è una realtà vivente perché possiede valore sentimentale per l’individuo e per il gruppo: prima del significato c’è il tabù stesso e l’effetto prodotto sugli uomini. Il problema, dunque, non è solo quello di coglierne i significati ma di intenderne l’operatività e il senso immediato. È arduo far luce su un prodotto culturale remoto, trasposizione di significati profondi e inconsapevoli. Un tabù è difficile da comprendere poiché, come il mito, è per sua natura bizzarro e illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione, non risponde a domande e non fornisce spiegazioni2. Il suo scopo è offuscare e non chiarire, affascinare e non persuadere, dare risposte e non porre domande3. Gli uomini non capiscono il senso di alcuni tabù ma vi si immedesimano anche contro i propri interessi: non è importante come gli uomini pensino nei tabù, ma come i tabù s’impongano all’insaputa4. I pitagorici nascondevano le motivazioni dei tabù e le rendevano un punto di forza della comunità, fondata su legami che prevedevano l’obbligo della segretezza. Lo stesso Pitagora non ha lasciato nulla di scritto e sulla sua persona è discesa una coltre di mistero. Le regole dell’ordine si trasmettevano da maestro a discepolo con l’obbligo di mantenere segreti i dogmi della setta. Apuleio ricorda che Pitagora, il primo a dare nome e vita alla filosofia, insegnava il silenzio e l’educazione all’ascolto5. Un tabù è tale perché si presta a diverse interpretazioni. Giamblico sosteneva che per alcuni detti pitagorici mancasse una giustificazione razionale: il divieto di spezzare il pane, ad esempio, per alcuni significava non dover dividere ciò che univa mentre, per altri, tale gesto offendeva gli dei, rendeva vili in guerra o era di cattivo auspicio6. Aristotele pensava che la proibizione di raccogliere le briciole di pane cadute per terra avesse lo scopo di abituare i discepoli a mangiare con parsimonia o fosse connessa alla morte di qualcuno, mentre per Aristofane la ragione dell’usanza risiedeva nel fatto che le briciole appartenessero agli eroi o ai «daimoni»7. Il divieto di mangiare polpi e molluschi può avere spiegazioni diverse e tutte abbastanza valide. Diodoro Siculo raccontava che gli egiziani veneravano alcuni animali, li accudivano con gran cura e alla morte li imbalsamavano e seppellivano nelle grotte. Chi uccideva bestie sacre era condannato alla pena capitale e accadeva che se un uomo era sorpreso accanto al corpo di un animale senza vita, giurasse disperato d’averlo rinvenuto già morto. Durante le gravi carestie granarie, gli egiziani si erano «pasciuti» spesso di carne umana ma mai furono accusati di avere mangiato anche un solo «atomo» di animale divino. Diodoro scriveva che la ragione del divieto fosse religiosa poiché si riteneva che in un tempo primordiale, per disprezzo della cattiveria umana, gli dei si fossero trasformati in animali: ucciderli o nutrirsene significava, dunque, dannarsi per sempre. Secondo altri la proibizione aveva motivazioni di carattere militare: dato che gli eserciti erano spesso sconfitti in battaglia per il disordine che regnava tra le truppe, i faraoni stabilirono che sugli stendardi dei reparti fossero disegnate immagini di pesci, uccelli, insetti e mammiferi, da non uccidere o mangiare in caso di memorabili vittorie. I tabù relativi ad alcuni animali rispondevano anche a preoccupazioni d’ordine politico. Gli antichi re avevano imposto il culto di animali differenti nelle province in modo che le comunità, risentite una con l’altra a causa del disprezzo altrui per il proprio cibo sacro, non si alleassero contro lo Stato. Diodoro aveva osservato che le regioni confinanti del regno fossero in continua discordia per il mancato rispetto verso gli animali sacri e che tale divisione fosse presente nelle singole comunità poiché ogni classe sociale aveva alcune bestie cui rendere onori divini. Per Diodoro il divieto di mangiare certi animali aveva soprattutto una spiegazione economica: essi erano più utili da vivi che da morti. I buoi aravano la terra e aiutavano i contadini nei trasporti, le pecore davano lana, latte e formaggio, il cane braccava le prede e difendeva le case, i gatti tenevano lontani i topi dai villaggi, l’ibilo cacciava i serpenti velenosi e le locuste che distruggevano i campi, l’icneumone scovava e mangiava le uova dei coccodrilli, rettili a loro volta oggetti di culto perché la loro presenza teneva lontane dalle sponde del Nilo le bande di predoni arabi e africani8. Diodoro terminava le proprie riflessioni ricordando che gli animali sacri erano rispettati e amati perché non consumavano cibi destinati alla mensa degli uomini, come lenticchie, fave e grano. Anche i pesci non intaccavano le risorse alimentari umane ma, pur rappresentando un’immensa fonte di nutrimento, erano considerati esseri imperfetti perché utili solo come cibo9. Anche altre specie animali, come i maiali, davano solo carne ma si potevano allevare, mentre i tentativi di allevare pesci si erano rilevati deludenti e dispendiosi. Marrone scriveva che Ortenzio, per costruire le peschiere a Baulì, spendeva più in cibo per i pesci che in vitto per gli asini: per un somaro bastavano uno schiavo, un po’ d’orzo e dell’acqua mentre per sfamare i pesci erano necessari molti operai e grandi quantità di pesce salato. Lucullo aveva fatto scavare addirittura un canale sotterraneo per fare entrare acque di mare nelle sue peschiere che, costruite più per piacere della vista che per profitto, contribuivano a vuotare la borsa piuttosto che riempirla10! Il tabù è un prodotto culturale complesso e per molti studiosi il termine va utilizzato con gran cautela. Steiner sostiene che nella categoria dei tabù sono rientrate troppe cose del tutto differenti tra loro e che nella cultura occidentale si è abusato indiscriminatamente e impropriamente del termine11. Freud invitava a riflettere sulla differenza tra divieti e tabù mentre Radcliffe-Brown ricordava che l’uso della parola tabu nel linguaggio polinesiano avesse un significato più vasto del termine «proibito» e, proponeva di usare il termine «proibizione rituale» per quelle credenze secondo cui una maggiore o minore sventura colpisse chi infrangeva le norme dello status rituale12. I tabù alimentari del mondo antico, come molti miti, rivelano una complessità tale da spingerci a pensare che resteranno indecifrabili. Baudrillard scrive che ogni interpretazione si oppone alla seduzione e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia13. E Calvino aggiunge che qualsiasi spiegazione impoverisce e soffoca il tabù o un mito, la cui enorme ricchezza di significati non può essere rivelata dalla logica di un ragionamento14. Il tabù può essere riferito a natura, storia, superstizione, scienza, religione, psicologia, medicina o economia e sembra avere un senso in ciascun campo. È un fenomeno sociale totale che, per le sue caratteristiche, investe ogni ambito della vita dell’uomo e della società; è una realtà culturale complessa che può essere analizzata in prospettive molteplici e complementari ed è del tutto inutile trovare origini o spiegazioni poiché spesso contiene in sé motivazioni spesso in contraddizione o addirittura in opposizione15. Sul polpo gli antichi scrivevano tutto e il contrario di tutto. Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava catturare. Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori dall’acqua. Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per impedire che queste potessero chiudersi. Secondo alcuni studiosi il polpo era un animale che scappava di fronte alla minaccia mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi tentacoli16. Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di fori cambiasse colore come quella di un camaleonte a causa della sua paura17. Per altri studiosi il polpo era un animale coraggioso e, quando giungeva a una certa grandezza, conseguiva una forza tale da essere considerato una «tigre del mare». Olao Magno Gotho raccontava che l’animale fosse feroce, crudele, aggressivo e che preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al combattimento; aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai, pescatori e palombari18. Maier sosteneva che il polpo era il simbolo del coraggio e raffigurato nelle monete di alcune città della Magna Grecia esprimeva la forza e il carattere guerriero degli abitanti19. Giovanni Fiore, interpretando una moneta di Turio sui cui lati erano raffigurati un delfino e un polpo, scriveva che il primo simboleggiava la volontà di girare come un pellegrino per il mondo, il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, la sedentarietà e la cura per i beni20. Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse descritto dagli antichi come un dissipatore di sostanze e un divoratore senza ragione: gli egiziani, ad esempio, nei geroglifici lo utilizzavano per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della propria potenza21. Per Ateneo e Olao Magno il polpo era l’emblema della libidine, infedele alla compagna e sempre in giro per appagare le voglie sessuali, debilitandosi a tal punto da divenire preda d’innocui pesciolini che lo divoravano nella sua stessa tana. Gioia scriveva, invece, che il polpo fosse un animale tranquillo, tanto terribile e feroce quando affrontava il nemico quanto dolce e affabile nei confronti della famiglia. Disinteressato alle conquiste femminili, dopo la caccia tornava sotto il tetto coniugale e la compagna si sentiva protetta e appagata dalla sua fedeltà e dal suo amore22. Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura e a non disprezzare le altre. Lo stesso san Paolo si era comportato come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone leggi e tradizioni23. Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare, un pesce molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere nefandezze e soddisfare i loro interessi venali24. L’elenco di opinioni discordi sul polpo potrebbe continuare. Eliano e Picinelli, ad esempio, sostenevano che fosse così avido e ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro cibo25. Ateneo e Plinio scrivevano che le mutilazioni dei polpi fossero da attribuire ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie alla vischiosità delle membra, sfuggivano la morsa tentacolare26. Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica: egli simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia, vizi riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i Siracusani. D’altro parere lo studioso Testa, secondi cui il polpo incarnava l’immagine della città siciliana. In alcuni piombi di navi mercantili il mollusco era raffigurato con una stella marina, per simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove dimoravano i polpi27. Secondo alcuni il polpo era l’animale marino che incarnava le cattive abitudini degli uomini ed era indicato dai predicatori cristiani come simbolo del demonio, ma in alcune città marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla puerpera28. I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi. Un proverbio antico diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che non erano né tutte buone e né tutte cattive29. Il pensiero mitico va oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza contrastarsi, sono aspetti complementari di una realtà unica. L’octopus indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina: questo rapporto dialettico e la convivenza degli opposti alimentavano il suo mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno accanto all’altro. Importanti sono le riflessioni sui pesci del cuoco e scalco Domenico Romoli, soprannominato «Panonto». Alla fine del Cinquecento scriveva che non fosse consigliabile mangiare pesci perché di scarso nutrimento, particolarmente dannosi e difficili da digerire. Egli spiegava che esistevano tre tipi di pesci: di mare, di fiume e d’acqua dolce e salata. I meno buoni da mangiare erano senza dubbio quelli delle acque dolci, la cui l’umidità era superiore rispetto a quella dell’acqua salata. I pesci marini erano più caldi e meno viscosi degli altri perché la salsedine, intiepidendoli, li rendeva magri e quindi di più facile digestione. I pesci che vivevano in mare si dividevano a loro volta in due specie: quelli che vivevano lungo la costa e quelli che vivevano in alto mare; questi ultimi, anche se meno saporiti, erano più assimilabili e più idonei alla salute dell’uomo. Pascendo in acque fredde e umide i pesci di fiume erano più grassi e densi e, di conseguenza, più difficili da assimilare. Quelli dei fiumi impetuosi erano da preferire a quelli dei fiumi che scorrevano pigramente e, tra questi, i migliori erano i pesci che vivevano in acque dominate da venti di tramontana. Le acque chiare e veloci intenerivano le carni dei pesci, facevano perdere grossezza e toglievano il cattivo odore, mentre le acque lente e torbide rendevano le carni grasse, pesanti e sgradevoli. I pesci dei fiumi rapidi e pietrosi erano migliori di quelli che abitavano in fiumi placidi e fangosi, quelli che vivevano in fiumi arenosi superiori a quelli degli stagni melmosi. I pesci meno buoni da mangiare erano quelli che vivevano nelle acque spesse e torbide delle paludi: le loro carni si corrompevano presto e generavano umori nocivi allo stomaco. Sebbene fossero gustosi, anche i pesci dei laghi e delle peschiere non erano consigliabili. I pesci che passavano dal mare in acque dolci ingrassavano e diventavano più pesanti, mentre i pesci di acqua dolce che passavano in mare diventavano più leggeri. I pesci con carne molle, viscosa e grassa erano più nocivi per la salute degli uomini, generavano sangue cattivo ed erano più difficili da digerire; meglio scegliere i pesci piccoli rispetto ai grandi e quelli con la carne dura rispetto a quelli con la carne molle. I pesci di taglia media erano più apprezzabili di quelli di taglia piccola e grossa e tra quelli di taglia media erano migliori quei pesci che non erano piccoli o grossi. I pesci che avevano le scaglie erano da preferire a quelli lisci, quelli con scaglie dure e spesse a quelli con scaglie molli e sottili e quelli con molte spine a quelli che ne avevano meno. Le parti mobili dei pesci, come la coda, erano migliori perché più facili da smaltire e, tra queste, le più lodevoli erano quelle dei pesci grassi rispetto a quelli magri30. I ragionamenti di Romoli contenevano indubbiamente conoscenze dettate dall’osservazione e dall’esperienza ma molte congetture non avevano alcun fondamento o, perlomeno, erano discutibili. Egli collocava i pesci in una scala di valori, un sistema di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. Analogamente, Pitagora raccomandava ai discepoli di onorare gli dei prima dei daimoni, i daimoni prima degli eroi, gli eroi prima dei genitori e i genitori prima dei parenti31. Il filosofo considerava il mare un mondo estraneo agli uomini e quindi i pesci che lo abitavano non erano buoni da mangiare e i più immondi erano i molluschi, i crostacei e i melanuri dalla coda nera32. La religione ebraica proponeva una scala di valori dei cibi dividendoli tra puri e impuri, leciti e illeciti, mondi e immondi33. Per Medici, studioso del Settecento, era poco credibile che Dio avesse fornito una lista di animali pericolosi per la salute o che favorivano pensieri poco onesti. A chi sosteneva che la carne in paesi caldi come la Giudea fosse di nocumento al corpo e all’anima, obiettava che ciò era vero anche per gli animali consentiti. La tesi secondo cui alcune bestie fossero vietate perché simbolicamente rappresentavano vizi e difetti degli uomini (come la pusillanimità della lepre, la sordidezza del porco, l’ignoranza della civetta, la rapacità dello sparviero e l’arrendevolezza del cammello) era senza fondamento perché in ogni animale si potevano intravedere aspetti positivi e negativi. Prive di fondamento anche le argomentazioni secondo cui, vietando di mangiare senza spiegazione alcuni animali, Iddio avesse messo il popolo ebraico in condizioni di totale ubbidienza: avendo creato il mondo e gli uomini, non aveva certo bisogno di ricorrere a questi mezzi per essere ricordato e venerato. Molti sostenevano che gli ebrei dividessero gli animali in mondi e immondi, per affermare il proprio primato sulle altre popolazioni; asserzione poco credibile dato che molti animali consentiti e proibiti erano tali anche per i popoli vicini come gli egiziani34. I rabbini non erano in grado di dare spiegazioni convincenti alle proibizioni alimentari. Riguardo ai pesci, ad esempio, sostenevano che bisognasse mangiare solo quelli con pinne e squame perché le prime consentivano un moto regolare nelle acque e le seconde difendevano il corpo dalle impurità. Gli altri pesci erano immondi perché, vivendo nei fondali e nella melma, avevano carni che opprimevano lo stomaco e offuscavano la mente35. Tale ragionamento poteva avere anche una sua logica ma gli ebrei non avevano una tradizione marinara, non conoscevano le abitudini e le caratteristiche delle specie marine e, non a caso, nelle sacre scritture non è citato un sol nome di pesce36. Si è molto discusso sui significati filosofici, economici, sanitari, superstiziosi, religiosi e magici legati alle singole proibizioni degli ebrei ma è difficile spiegare perché fosse consentito mangiare la carne di pecora piuttosto che di lepre, di giraffa piuttosto che di cammello, di vacca piuttosto che di cavallo, d’anatra piuttosto che di struzzo, di cavalletta piuttosto che di serpente, di tacchino piuttosto che di struzzo, di capra piuttosto che di maiale, di salmone piuttosto che di storione e di cefalo piuttosto che di polpo. Bianchi Giovini scriveva che la distinzione tra cibi puri e impuri degli israeliti non fosse fondata su principi morali, religiosi o sanitari ma provenisse da remoti principi e simboli che si perdevano nella notte dei tempi e che ignoravano loro stessi37. Alcuni tabù alimentari del mondo antico sono simili a tante credenze bizzarre e incomprensibili diffuse nel mondo popolare. Nel 1876, Dorsa scriveva che le donne del contado cosentino traevano auspici per i bachi da seta dai vangeli cantati nei giorni di Pasqua. Quando il prete intonava il vangelo «secunnu Marcu», la bigattaia che pensava ai filugelli esclamava «i cuculli s’ammàttulanu» (cioè i bozzoli crescono abbondantemente), mentre quando il prete leggeva il vangelo «secunnu Luca», esprimeva la sua paura mormorando «‘u sìricu s’affuca» (cioè i bachi muoiono prima di fare i bozzoli)38. Lo studioso di tradizioni popolari racconta, inoltre, che in alcuni paesi le siricatrici credevano che assaggiare fichi nel sabato santo rendesse i bozzoli molli e malati, mentre mangiando castagne secche i bozzoli sarebbero cresciuti pieni e sani39. È difficile spiegare perché il vangelo di Marco fosse propizio ai bachi e quello di Luca sfavorevole e che il raccolto dei filugelli andasse male o bene a seconda del cibo mangiato dalle bigattaie. Non riusciremo neanche a spiegare perché il giovedì per i bachi era funesto e il venerdì propizio o perché i semi dei bachi messi in una pezzuola ricavata dalla camicia di un uomo si sarebbero schiusi con successo e risposti in quella di una donna sarebbero morti. È inutile cercare le ragioni di tali credenze, poiché prive di senso e, del resto, ciò che in alcune zone era vietato o cattivo, in altre era consentito o buono. Nello stesso territorio del cosentino, in paesi come Acri, l’influenza dei vangeli sui bachi da seta era intesa diversamente. Se le donne sentivano invocare San Marco, sconsolate dicevano «Santu Marcu: ‘u siricu si ni ‘mmàrca!» (san Marco: il baco s’imbarca per l’aldilà), mentre se sentivano invocare san Luca, dicevano contente «Santu Luca: ‘u sìricu s’ammagliùca» (San Luca: il baco cresce e s’ingrossa)40. L’impressione che certi tabù siano frutto di superstizioni e ignoranza è fallace, in realtà gli antichi osservavano attentamente il mondo naturale. Difilo di Sifno, in un trattato sugli alimenti per malati e sani, analizzava con attenzione i pesci marini più conosciuti indicandone le abitudini e le caratteristiche organolettiche. Scriveva, ad esempio, che i pesci di scoglio fossero saporiti, leggeri e poco nutrienti, mentre quelli pelagici, sostanziosi, pesanti e piuttosto indigesti; i ghiozzi, bianchi e di piccola taglia, erano teneri e di odore delicato, succulenti e di facile digestione mentre quelli gialli, chiamati kaulìnai, erano duri, magri e pesanti; lo scaro e la keris avevano le carni delicate, erano facili da digerire e salutari per l’intestino, mentre per la cernia nera erano buone quelle parti vicino la testa e la coda e pesanti e indigeste quelle del corpo. Gli scorfani di colore rosso che vivevano in acque profonde erano più sostanziosi di quelli catturati vicino alla costa; lo sparo aveva carni gradevoli, tenere, diuretiche e buone per lo stomaco ma era pesante e indigesto se cotto in padella; la triglia era saporita ma di difficile digestione a causa delle carni dure, soprattutto se fritta o cotta alla brace; la razziera era delicata al palato, quella stellata più tenera e succosa, quella liscia puzzava e contraria all’intestino. La seppia, specie se bollita, era tenera e gustosa, facile da smaltire e salutare poiché il succo che rilasciava rendeva più fluido il sangue; il polpo stimolava il desiderio sessuale ma era duro e indigesto e tanto più energetico quanto più era grande41. L’ateniese Mnesiteo, nel trattato sugli alimenti, scriveva che i pesci da trancio, fossero pesanti ma, una volta digeriti, dessero un gran nutrimento. Quelli privi di squame, come i tonni, erano squisiti perché le carni erano grasse, anche se a pesanti e di difficile cozione, particolarmente adatte a essere salate o arrostite. Le specie chiamate «scuoiabili», come le razze, avevano una carne friabile e maleodorante e, tuttavia, se bollite purgavano l’intestino più di qualsiasi altro pesce. I pesci di scoglio come ghiozzi, scorfani e passere fornivano gran nutrimento, si digerivano in fretta, non lasciavano scorie e non provocavano flatulenza ma dovevano essere preparati con scarso condimento. Se lessati, tordi e merli di mare si assimilavano bene, erano diuretici e più purgativi per l’intestino dei pesci di scoglio. A causa degli umori cattivi, visibili mentre erano trattati, i polpi producevano flatulenza ed erano difficili da digerire; la bollitura, però, toglieva gli umori negativi dalla carne, mentre la grigliatura la rendeva dura e indigesta42. Profonde erano le conoscenze sugli animali anche nel mondo popolare. Le contadine cosentine che allevavano i bachi da seta, attraverso l’esperienza e le conoscenze apprese, sapevano bene come allevare i filugelli. Dopo averle sempre accusate di essere ingenue, ignoranti e credulone, in occasione della pebrina che atrofizzava i bachi da seta, i ricercatori della Reale società economica della Calabria citra, riconobbero che le bigattaie sapevano estrarre il seme dalle migliori farfalle per la propria industria nonostante non avessero studi «baconomici e zoologici». Le «siricatrici» erano consapevoli del fatto che ciò che accadeva ai loro «vermuzzi» non fosse causato solo da forze soprannaturali, chiedevano aiuto alla Madonna e protezione al colore rosso, ma avevano sperimentato che lo scirocco e il freddo facevano ammalare i bachi e prendevano precauzioni per difenderli. Ponevano nella pezzuola che conteneva i semi bachi un chiodo e cera benedetta ma sapevano che la cova dei semi bachi era delicata e bisognava mantenere in soffitta una temperatura costante. Pensiero teoricoscientifico e pensiero pratico-religioso convivevano nelle contadine: da una parte proponevano una sapienza magica, dall’altra applicavano un pensiero razionale, da una parte si rivolgevano alle arti occulte, dall’altra al sapere scientifico43. Contrariamente agli ebrei che ritenevano grave peccato durante i digiuni quaresimali mangiare molluschi perché privi di sangue, i monaci cristiani di rito greco potevano mangiare solo pesci che ne fossero privi come polpi, seppie, ostriche, mitili e chiocciole di mare44. I sentimenti che stanno alla base di una proibizione non possono essere analizzati isolatamente, acquistano senso se inseriti in un apparato concettuale che li esprime, nel livello inconscio dove risiede la struttura profonda del pensiero. La classificazione di ciò che contamina e di ciò che è puro rientra in un sistema complesso, in un quadro che stabilisce con precisione obblighi e proibizioni. Pitagora, ad esempio, concepiva l’universo come un cosmo, dando valore a quello che è limite, proporzione, forma e armonia. Per scoprire l’ordine che si nasconde dietro il disordine, gli uomini eletti devono riportare tutto a un numero limitato di principi opposti l’uno all’altro. Il filosofo deve dedicare la propria esistenza a insegnare la pratica della misura nei riguardi di istinti, desideri e pulsioni corporee e convincere tutti a rispettare i canoni divini dell’ordine cosmico con la persuasione o con la forza. Il compito del saggio non è quello di conoscere più cose ma di scoprire le vie razionali che conducono all’ordine del mondo e alla salvezza dell’anima e di porre una misura nei riguardi degli istinti. Filolao raccontava che per i pitagorici la cosa più bella fosse l’armonia, l’unità del molteplice composto e la concordanza delle discordie. La salute fisica e psichica degli uomini risulta dall’equilibrio e dalla mescolanza proporzionata di qualità che secondo la legge naturale si oppongono due a due: umido e secco, freddo e caldo, amaro e dolce, chiaro e scuro. La salute non è altro che l’armonia dei contrari: la predominanza di un elemento sugli altri, turba la condizione di equilibrio45. Il compito del legislatore era quello di dettare regole e stabilire ciò che fosse puro o impuro, lecito o illecito, sacro o profano. Secondo Aristotele, il dualismo fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio dell’illimitato e il bene del limitato46. Attraverso le proibizioni, Pitagora proponeva agli uomini un codice etico per stare nel mondo, i tabù erano un meccanismo logico per mettere ordine nel reale contraddittorio e caotico. Gli uomini, incapaci di governarsi da soli perché condizionati dagli istinti naturali, avevano bisogno di un minaccioso potere superiore che desse moderazione e ordine47. Il modo di ragionare di filosofi e religiosi che imponevano i tabù era semplice: il mondo era un insieme di ordine e disordine, di coppie contrassegnate positivamente o negativamente. Essi legavano le specie permesse o proibite al buono o cattivo, alla purezza o all’impurità, al sacro o al profano e lo facevano perché dovevano introdurre delle distinzioni per ordinare il mondo e creare un sistema razionalmente armonico. La divisione tra cibi consentiti e cibi proibiti non era legata alle proprietà intrinseche degli alimenti ma al fatto che fosse necessario differenziare le specie segnate da quelle non segnate. I divieti alimentari di sacerdoti egiziani, rabbini e pitagorici avevano, dunque, un senso formale, erano senza contenuto e senza significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico che ordinava il mondo. Il tabù del polpo faceva parte di una struttura mentale che rispondeva al principio dell’unione di termini contrari. Le proibizioni facevano parte di un codice concettuale che contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per porli in relazione. Per Lévi-Strauss l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi intorno a una struttura binaria: dualità, alternanza, doppio e simmetria non costituiscono i fenomeni da spiegare, ma i dati della realtà mentale e sociale nei quali riconoscere i punti di partenza di ogni tentativo di spiegazione. Le opposizioni sono utilizzate per decifrare la realtà, costituiscono l’aspetto centrale nel passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura e rappresentano una delle molle principali della creatività naturale, il nucleo più profondo e più antico dello spirito umano48. 1. Opuscoli di Plutarco, cit., pp. 441-447. 2. Sigmund Freud, Totem e Tabù ed altri saggi di antropologia, Newton Compton, Roma 1974, p. 93. 3. Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 203. 4. Claude Lévi- Strass, Il crudo e il cotto, Mondadori, Milano 1990, p. 27. 5. Apuleio, op. cit., pp. 492-493. 6. Giamblico, op. cit., XVIII, 86, p. 381; Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 35, pp. 223-225. 7. Ivi, 34, p. 223. 8. Biblioteca storica di Diodoro Siculo, cit., pp. 161-176. 9. Cfr. Marco Martello, Cenni di filosofia igiologica ossia filosofia della salute, co’ tipi di Varchi e Grassini, Macerata 1838, p. 198. 10. Marco Terenzio Varrone, Dell’agricoltura, tip. di Gio. Silvestri, Milano 1851, pp. 262-265. Giuseppe Averani, op. cit., pp. 28-31. 11. Cfr. Franz Baermann Steiner, Tabù, Boringhieri, Torino 1980, p. 8. Cfr. Danila Visca, La scoperta del tabu, La Goliardica Editrice Universitaria, Roma 1986; Carmela Pignato, Totem mana tabù. Archeologia di concetti antropologici, Meltemi, Roma 2002. 12. Alfred R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva, Jaca Book, Milano 1972, p. 146. 13. Jean Baudrillard, Della seduzione, Cappelli, Bologna 1980, pp. 77-78. 14. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Einaudi, Torino 1988, p. 6. 15. Cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. 16. Niccolò Serpetro, op. cit., p. 323. 17. Opuscoli morali di Plutarco Cheronese filosofo, & historico notabilissimo, appresso Fioravante Prati, Venetia 1598, pp. 194-195. 18. Olao Magno Gotho, op. cit., pp. 272-273. 19. Marco Maier, Il Regno di Napoli e di Calabria descritto con medaglie arricchito d’una descrittione compendiosa di quel famoso regno, ed illustrato d’una succinta dichiaratione intorno alle sue medaglie cavata da i più celebri ed approvati scrittori si antichi come moderni, appresso Antonio Boudeto, Lione 1717, p. 16. 20. Giovanni Fiore, Della Calabria illustrata, per li Socij Dom. e Ant. Parrino e Michele Luigi Mutij, Napoli 1691, p. 334. 21. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, al negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820, vol. I, pp. 449450. 22. Melchiorre Gioia, Esercizio logico sugli errori d’ideologia e zoologia ossia arte di trar profitto dai cattivi libri, coi tipi di Giovanni Pirotta, Milano 1824, pp. 205-206; Pierre Denys de Montfort, op. cit., p. 434. 23. Mario De’ Bignoni, Elogii sacri nelle solennità principali di nostro Signore, della beata Vergine Maria, & altri Santi celebrati dalla Santa Chiesa, appresso Francesco Storti, Venetia 1652, pp. 321-323. 24. Ivi, p. 322. 25. Filippo Picinelli, op. cit., p. 331. 26. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Plinio, op. cit., vol. II, p. 345. 27. Francesco Testa, Piombi antichi mercantili, in Opuscoli di autori siciliani, Palermo, nella stamperia di Rapetti, Palermo 1775, t. XVI, p. 50. 28. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769. Cfr. Lorenzo Stramusoli, Apparato dell’eloquenza, nella Stamperia del Seminario, Padova 1700, p. 216; Ippolito Falcone, Narciso al fonte cioè l’uomo che si specchia nella propria miseria, presso Gio Gabriel Hertz, Venetia 1702, p. 177. Gasparo Ferrucci, Pratiche quaresimali, presso Cristoforo Zane, Venezia 1730, p. 307. 29. Pio Rossi, Convito morale per gli etici, economici, e politico, appresso i Guerigli, Venetia 1677, p. 265. 30. La singolare dottrina di M. Domenico Romoli soprannominato Panonto, dell’ufficio dello Scalco, de i condimenti di tutte le vivande, le stagioni che si convengono a tutti gli animali, uccelli, & pesci, banchetti di ogni tempo, e mangiare da apparecchiarsi di dì, in dì, per tutto l’anno a Principi. Con la dichiarazione della qualità delle carni di tutti gli animali, & pesci, & di tutte le vivande circa la sanità, presso Gio. Battista Bonfaldino, Venetia 1593, pp. 233-247; 363-347. Cfr. Castore Durante, Il tesoro della sanità. Nel quale s’insegna il modo di conservar la sanità e prolungar la vita. Et si tratta della natura de’ cibi, e de’ rimedij de’ nocumenti loro, appresso Guglielmo Facciotti, Roma 1632, pp. 254-257; Michele Savonarola, Trattato utilissimo di molte regole, per conservare la sanità, dichiarando qual cose siano utili da mangiare, & quali triste: & medesimamente di quele che si bevono per Italia. Aggiuntovi alcuni dubij molto notabili, eredi di Giovanni Padovano, Venetiis 1554, pp. 49-53. 31. Eliano, Storia varia, IV, 17, in Maurizio Giangiulio, op. cit., p. 133. 32. Bernardino Baldi, op. cit., p. 29. Cfr. Claudia Cerchiai, L’alimentazione del sapiente e dell’iniziato, in L’alimentazione nel mondo antico, Ministero per i Beni Culturali, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1987, pp. 133-135. 33. Giulio Morosini, Via nella fede mostrata à gli Ebrei, nella stamperia della Sacra Cong. de Prop. Fide, Roma 1683. Cfr. Leon Modena Rabi, Historia de riti ebraici: vita & osservanza de gl’Hebrei di questi tempi, appresso li Prodotti, Venetia 1669, pp. 47-54. 34. Paolo Medici, Riti e costumi degli ebrei descritti e confutati, nella nuova stamperia di Pietro Gaetano Viviani, Firenze 1746, pp. 126-135. 35. Cfr. Benedetto Frizzi, Dissertazione seconda di polizia medica sul Pentateuco in riguardo ai cibi proibiti e altre cose a essi relative, con molte note critiche e fisiche, per Lorenzo Manini Regio stampatore, appresso Pietro Galeazzi, Cremona 1788, pp. 4247. Levitico, XI, in Vecchio Testamento che contiene il secondo e terzo libro del Pentateuco o sia l’Esodo e il Levitico, nella stamperia Arcivescovile, Firenze 1782, pp. 331-340. Cfr. Franco Voltaggio, L’arte della guarigione nelle culture umane, Boringhieri, Torino 1992, pp. 311-315. 36. Benedetto Frizzi, op. cit., pp. 42-47. 37. Aurelio Bianchi Giovini, Biografia di fra Paolo Sarpi teologo e consultore di Stato della Repubblica Veneta, Poligrafa italiana, Firenze 1849, p. 241. 38. Vincenzo Dorsa, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore, Forni, Sala Bolognese 1983, p. 140; L’Istituto Bacologico Consorziale Autonomo per la Calabria e attività svolta negli anni 1924-925; 1925-926; 1926927, Tip. Riccio, Cosenza 1927, p. 159; Giovanni Sole, Bachi e tabù. Credenze magico-religiose nella sericoltura calabrese, Museo della Seta, Mendicino 2007; Id., Secunnu san Luca ‘u sìricu s’affuca. Tabù e credenze magico-religiose delle bigattaie calabresi, in Alario L. (a cura di), Cultura Materiale, cultura immateriale e passione etnografica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 363-384. 39. Vincenzo Dorsa, op. cit., p. 140; L’Istituto Bacologico Consorziale Autonomo per la Calabria, cit., p. 159. 40. Giuseppe Abbruzzo, C’era una volta la bachi-sercicoltura. Storia, tradizione, folklore, in Abbruzzo G., Filippelli P., Graziani A., Serra N., La bachi-sericoltura in Calabria, Cooperativa don Milani, Acri 2003, pp. 73-74. 41. Ateneo, op. cit., VIII, 355b-356d, vol. II, pp. 881-886. 42. Ivi, VIII, 357b-358d, vol. II, pp. 887-889. 43. Vincenzio M. Greco, Sull’andamento dell’industria serica in provincia di Calabria Citra nell’anno 1864. Rapporto letto alla Reale Società Economica dal Segretario Perpetuo presso la medesima, tip. dell’Indipendenza, Cosenza 1865, p. 22. 44. Storia degli ordini monastici, religiosi, e militari, e delle congregazioni secolari dell’uno e dell’altro sesso, fino al presente istituite, con le vite de’ loro fondatori, e riformatori, per Giuseppe Salani e Vincenzo Giuntini, Lucca 1737, p. 194; Gabrielle Bremond, Viaggi fatti in Egitto, superiore et inferiore, libro III, per Paolo Moneta, Roma 1679, libro III, p. 51; Ludovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa, appresso Sebastiano Domenico Cappuri, Lucca 1742, p. 255. 45. Giamblico, op. cit., XXX, 174, pp. 447-451. 46. Aristotele, Etica nicomachea, cit. Giangiulio M. (a cura di), op. cit., p. 91. 47. Cfr. Giovanni Sole, Belli e Brutti. Apollineo e dionisiaco ad Alessandria del Carretto, Centro Editoriale e Librario, Università degli Studi della Calabria, Rende 1998; Id., Il teatro dei Belli e dei Brutti in una comunità montana calabrese, in Costantino V., Fanelli C. (a cura di), Teatro in Calabria 1870-1970. Drammaturgia repertori compagnie, Monteleone, Vibo Valentia 2003, pp. 281-294; Id., La dialettica degli opposti in un carnevale calabrese, in Faeta F., Faranda L., Geraci M., Mazzacane L., Niola M., Ricci A., Teti V. (a cura di), Il tessuto del mondo. Immagini e rappresentazioni del corpo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2007, pp. 185-194. 48. Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1984, p. 99. Tavole Ulyssis Aldrovandi, De reliquis animalibus exanguibus, Baptistam Bellagambam, Bononiae 1606. Eugenio Raimondi, Delle Caccie, per Lazzaro Scoriggio, Napoli 1626. Petri Bellonii Cenomani, De acquatilibus, libri duo cum eiconibus ad vivam ipsorum effigiem, quoad eius fieri potuit, expressis, apud Carolum Stephanum typographum regium, Parisiis 1553. Achille Costa, La pesca nel golfo di Napoli, in Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali Economiche e Tecnologiche di Napoli, pei tipi del commendatore G. Nobile, Napoli 1870. Verissima, e distinta relazione d’un spaventoso mostro marino ritrovato il mese caduto l’anno presente nell’acque di Cadiz dal capitan Daniel Montagna da Napoli, e si ritrova presente a Corfu e in breve verrà in Venezia. Nella quale s’intende la morte di undici uomini uccisi nella sua nave, ed altri danni, appresso Gio. Battista Occhi, Venezia 1764. Joannes Jonstonus, Historiae naturalis de piscibus et cetis, Impensa Matthei Meriani, Francofurti ad Moenum 1649. Hippolyto Salviano, Aquatilium animalium historiae, Hippolyto Salviano, Romae 1554. Pierre Denys de Montfort, Histoire naturelle, générale et particulière del mollusques, animaux sans vertèbres et sang blanc, t. III, de l’imprimerie de F. Dufart, Paris 1801-1805. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, vol. I, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820; Le opere di Buffon nuovamente ordinate ed arricchite della sua vita e di un ragguaglio dei progressi della storia naturale dal MDCCL in poi dal conte di Lacepede, vol. XXXVIII, al negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, vol. I, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820; Le opere di Buffon nuovamente ordinate ed arricchite della sua vita ed un ragguaglio dei progressi della storia naturale dal MDCCL in poi dal conte di Lacepede, vol. XXXVIII, al negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli (sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896. Indice Polpo immondo Polpo e anima Polpo progenitore Polpo libidinoso Polpo adulatore Polpo avido e tiranno Polpo mostro Polpo archetipo Polpo e identità Polpo e storici Diogene e il polpo Polpo in cucina Polpo e mercato Il tabù del polpo Tavole STAMPATO IN ITALIA nel mese di ottobre 2017 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) «www.rubbettinoprint.it»