Download Giovanni Sole - Polpo immondo Tabù alimentari nel mondo antico-Rubbettino Editore (2017)

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Giovanni Sole
Polpo immondo
Tabù alimentari nel mondo antico
RUBBETTINO
Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di
Studi Umanistici dell’Università della Calabria.
Esprimo profonda gratitudine agli impiegati della Biblioteca Civica
e Biblioteca Nazionale di Cosenza. Un particolare ringraziamento a
Paola Pietramala, Rossella Belcastro, Elena Giorgiana Mirabelli e
Amedeo Sole.
© 2017 - Rubbettino Editore
88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968)
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Polpo immondo
I sacerdoti egiziani non mangiavano pesci e consideravano i polpi
immondi1. Agli ebrei era concesso mangiare i pesci muniti di pinne e
squame ma erano vietati i cefalopodi perché impuri2. I pitagorici
evitavano pesci e molluschi ma i motivi alla base di questa
proibizione, secondo quanto scrive Plutarco, erano poco chiari: c’era
chi sosteneva una cosa e chi il contrario3.
1. Vincenzo Mirabella, Delle antiche siracuse, nella stamperia di
Gio. Battista Aiccardo, Palermo 1717, p. 42.
2. Deuteronomio, XIV, 9-10, in Moraldi L. (a cura di), La Sacra
Bibbia. Antico e Nuovo Testamento, Rizzoli, Milano 1973, p. 160;
Levitico, XI, in Vecchio Testamento che contiene il secondo e terzo
libro del Pentateuco o sia l’Esodo e il Levitico, stamperia
Arcivescovile, Firenze 1782, pp. 333-334. Cfr. Claude Fleury,
Costumi degl’Israeliti, Federico Agnelli, Milano 1783, p. 55;
Benedetto Frizzi, Dissertazione seconda di polizia medica sul
Pantateuco in riguardo ai cibi proibiti ed altre cose a essi relative,
Lorenzo Manini regio stampatore, Cremona 1788, pp. 42-47.
3. Opuscoli di Plutarco, tipi di Sonzogno, Milano 1827, pp. 441-447.
Cfr. Ateneo, I deipnosofisti. I dotti a banchetto, IV, 161c, vol. I,
Salerno ed., Roma 2001, p. 401. Salvatore De Renzi, Osservazioni
sulla topografia-medica del Regno di Napoli (Dominj al di qua del
Faro), tip. de’ fratelli Criscuolo, Napoli 1829, p. 202.
Polpo e anima
Un cibo è buono da mangiare perché è anche buono da pensare.
Mangiarlo o meno dipende da costruzioni culturali che a volte
resistono a eventi storici, economici e sociali. Lévi-Strauss sostiene
che i comportamenti alimentari sono influenzati anche
dall’immaginario e dai simboli di cui gli uomini sono portatori e, in
qualche modo, prigionieri. Le ragioni inconsce per cui si pratica
un’usanza sono lontanissime da quelle invocate per giustificarle, gli
uomini agiscono e pensano per abitudine e la resistenza nel
mantenere alcune tradizioni deriva più dall’inerzia che da volontà
cosciente1.
A volte le credenze resistono al tempo e sono fatte proprie da
altre culture. Sulla traccia di quanto stabilito da egiziani ed ebrei, re
Numa ordinò di sacrificare e consumare durante i banchetti religiosi
solo pesci con pinne e squame, vietando seppie, totani, calamari,
polpi e altri esseri «vestiti» in pelle perché, da impuri, avrebbero
offeso gli dei2. Anche in alcuni ambienti cristiani si rispettava il
divieto di mangiare polpi e cefalopodi. San Barnaba, convertitosi al
cristianesimo, richiamandosi a quanto aveva detto Mosè, scriveva in
un’epistola che non si dovessero mangiare pesci dalla cute molle
come la murena, il grongo, il polpo e la seppia3. Pietro Rota,
predicatore cappuccino, affermava che i fedeli dovessero astenersi
dal consumo di pesci privi di ali e di squame poiché immondi, simili
a quegli uomini esecrandi che vivevano come fossero solo carne,
nuotando nel fango e sempre a caccia di piaceri mondani4.
Alcuni pesci, nonostante i divieti religiosi, costituivano un
alimento apprezzato nella dieta delle persone comuni. Durante il suo
viaggio in Egitto, Antenore annotava che la popolazione mangiasse
pesce, nonostante i sacerdoti, ritenendolo un alimento contaminato, lo
bruciassero davanti alle case. Nei sette giorni antecedenti le
celebrazioni di riti solenni, i chierici si astenevano dal cucinare
pesci e legumi e, sin da giovani, si abituavano a vivere con scarsi
alimenti5. Plutarco conferma che durante il nono giorno del mese di
thoth gli Egiziani erano soliti consumare pesci arrostiti mentre i
prelati, per rispetto a Osiride, si limitavano a bruciarlo davanti
all’uscio poiché le loro carni erano corrotte6. Erodoto raccontava
che i sacerdoti praticavano diversi riti di purificazione: radevano
spesso il corpo per eliminare insetti e sporcizia, si lavavano due
volte di giorno e due di notte con acqua fredda, si nutrivano solo di
cibi cotti, non disdegnavano la carne d’anatra e di bue ma non
toccavano fave e pesci, impuri e malefici per l’anima7.
Secondo alcuni scrittori antichi, i sacerdoti egiziani rifiutavano i
molluschi perché, mettendo in subbuglio l’organismo ed essendo di
difficile digestione, non favorivano sogni tranquilli. Paragonavano la
carne del polpo ad alcune belle poesie d’amore: dilettevoli sì, ma
causa di sogni laidi e dannose per i buoni costumi8. Aristotele
riteneva che polpi e fave provocassero strane visioni e torbide
fantasie e che, soprattutto chi prediceva il futuro per mezzo dei sogni,
dovesse astenersene9. Molluschi e polpi avevano carni contaminate,
creavano nell’organismo un intorpidimento che offuscava la mente,
svigorivano i sensi, favorivano orribili visioni e impedivano una
corretta produzione onirica, indispensabile per conoscere il futuro.
Uno dei pochi pesci considerati benefici per lo spirito e il corpo era
lo scaro, secondo Ateneo tenuto così in considerazione da attribuirgli
il potere di condurre alla santità chi se ne cibava10. Non sappiamo se
i polpi abbiano effetti negativi sull’attività onirica, ma tale
convinzione era diffusa anche in ambienti popolari e ancora oggi nei
villaggi marinari si dice che calamari e polpi rendano le notti
insonni11.
Nell’antichità si prestava molta attenzione ai sogni: divinità e
defunti visitavano gli uomini durante il sonno, i primi guarendo, i
secondi divinando. Ovidio annotava che il dio Sonno fosse il più
placido fra gli dei, ristorava gli uomini dal duro lavoro e li
preparava a nuove fatiche. Aveva mille figli, tra cui Morfeo, artista
capace di assumere qualsiasi sembianza umana, Fobetore, che si
presentava con aspetto d’animale, e Fantaso che riusciva a
trasformarsi in cose inanimate12. Antenore raccontava che i sacerdoti
egiziani capaci di interpretare i sogni prescrivevano ai clienti bagni
profumati e vivande sugose per dare maggiore leggerezza al corpo13.
Gli ebrei davano molta importanza alle visioni e chi faceva sogni che
portavano malinconia digiunava tutto il giorno e la sera chiamava tre
amici ai quali diceva sette volte: «Buono sia il sogno che ho veduto»
ed essi ogni volta rispondevano «Buono sia»14.
Artemidoro scrisse un saggio sulla spiegazione dei sogni
attingendo informazioni dai predecessori e prestando orecchio agli
indovini che incontrava nelle fiere. Nel suo trattato si legge che
sognare di mangiare pesci grandi prometteva cose utili e buone,
mentre cibarsi in sogno di pesci piccoli presagiva debolezza,
malinconia, inimicizie, scarsi guadagni e vane speranze. I pesci con
un colore «simile ai malati» mostravano insidie e raggiri, quelli rossi
annunciavano tormenti e infermità; reti e attrezzi da pesca lasciavano
presagire inganni; i pesci che si «scorzavano» erano di buon augurio
per i sofferenti, mentre quelli privi di scaglie o di ossa – come
ortiche di mare, seppie e polpi – anticipavano guai. Le donne sterili
che vedevano in sogno dentici e triglie, invece, sarebbero divenute
fertili15.
I sacerdoti greci più valenti nel decifrare i sogni erano molto
stimati dalla popolazione perché ritenuti ispirati dalle divinità. Nei
santuari «incubatori» si raccomandava ai pellegrini di coricarsi
indossando vesti bianche per rendere i sogni più chiari e a notte
avanzata, perché erano i sogni mattutini ad annunciare il volere degli
dei16. Per riuscire a vedere in sogno il loro futuro si consigliava di
seguire una «dieta sacra», nella quale erano interdetti diversi cibi
che potevano intorpidire la mente17. L’esperienza insegnava che
l’abbondanza o la mancanza di cibo influenzava fortemente l’attività
onirica e che gli eccessi alimentari erano capaci di affaticare la
mente, provocando sogni confusi o inattendibili; una dieta
equilibrata, invece, favoriva sogni chiari e verosimili perché il
pensiero riusciva a esprimersi liberamente. I sogni migliori si
verificavano durante le prime ore del mattino, a digestione terminata,
e in primavera perché, con le piante in fiore, gli uomini si nutrivano
senza eccedere.
I ministri del culto egiziani non mangiavano pesce e non
rivolgevano alcun saluto ai pescatori perché consideravano il mare
una mescolanza di materie impure che offendevano gli dei ed erano
capaci di generare pestilenze18. I pitagorici, dal canto loro, non
mangiavano pesci e molluschi perché li ritenevano d’ostacolo alla
facoltà profetica e alla purezza dell’anima19. La loro scuola gravitava
attorno al principio orfico secondo il quale l’uomo ha un’anima
immortale imprigionata in un corpo mortale destinata a rinascere in
altri corpi: per riconquistare definitivamente l’origine divina, era
necessaria la rigorosa astinenza da animali impuri. Purezza e
salvezza andavano perseguite con privazioni ed espiazioni poiché
solo l’austero tenore di vita poteva preservare la sanità del corpo e,
conseguentemente, quella dello spirito20.
Certe privazioni alimentari, come quella dei pesci, erano
probabilmente parte di un corpus di leggi che i religiosi erano
chiamati a rispettare per raggiungere lo stato della perfezione, per
purificare l’anima e riconquistare l’origine divina. Le proibizioni
allenavano gli adepti a combattere il vizio, a reprimere le tendenze
abominevoli e a controllare gli istinti animaleschi: il fine era placare
le passioni per creare armonia tra corpo e anima21. I precetti
pitagorici e dei sacerdoti egiziani erano finalizzati a rendere i
seguaci santi e la santità si poteva raggiungere tramite rinuncia,
sacrificio ed esperienza della separazione. «Santo» significava
distaccato dal resto del mondo corrotto e le regole dietetiche
inducevano alla meditazione, tenevano a distanza gli attentati
all’integrità e allontanavano il pericolo di contaminazione con le
cose impure.
1. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, il Saggiatore,
Milano 1998, p. 31.
2. Giuseppe Pasquali, Commento su i frammenti delle antiche leggi
delle XII tavole, plebisciti e sen. consulti col di loro nascimento,
progresso, mutazione e stato, e tutto con istorie dell’antichità
romana adornato, appo Vincenzo Lorenzi, Napoli 1784, pp. 11-14.
3. Ibidem.
4. Pietro Rota, Giardino fiorito di varij concetti scritturali e morali
sopra le domeniche doppo la pentecoste, presso Paolo Baglioni,
Venetia 1661, pp. 67-68.
5. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie
sopra l’Egitto. Manoscritto greco trovato nell’antica Ercolano,
Marotta e Vanspandoch, Napoli 1832, p. 87.
6. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 471. Cfr. Girolamo Pozzoli,
Dizionario di ogni mitologia e antichità, presso Barelli e Fanfani,
Milano 1823, p. 650.
7. Erodoto Alicarnasseo, pel Desiderj, Roma 1789, p. 128.
8. Giovanni Piero Valeriano, I ieroglifici overo commentarii delle
occulte significationi de gl’Egittij, & altre Nationi, presso Gio.
Battista Combi, Venetia 1625, p. 352. Cfr. Paolo Aresi, Imprese
sacre con triplicati discorsi, per Giunti e Baba, Venetia 1699, p.
377.
9. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 457. Cfr. John Robinson, Antichità
greche ovvero quadro de’ costumi, usi, ed istituzioni de’ greci nel
quale si espone tutto ciò che riguarda la loro religione, governo,
leggi, magistrature, procedure giudiziarie, tattica e disciplina
militare, marina, feste, giuochi pubblici e particolari, banchetti,
spettacoli, esercizi, matrimoni, funerali, abbigliamenti, pesi e
misure, monete, edifizi pubblici, case, giardini, agricoltura ec. ec.,
tipografia Porcelli, Napoli 1823, p. 95.
10. Giuseppe Pasquali, op. cit., p. 12.
11. Costantino Pescatori, La mitologia greca e romana, tip. della
Gazzetta d’Italia, Firenze 1874, p. 211.
12. Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, XI, 616-644, Einaudi,
Torino 1994, pp. 289-291.
13. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie
sopra l’Egitto, cit., p. 85.
14. Leon Rabi da Modena, da Historia de riti hebraici: vita, &
osservanza de gl’Hebrei di questi tempi, appresso li Prodotti,
Venetia 1669, pp. 7-8.
15. Daldiano Artemidoro, Dell’interpretazione dei sogni, appresso
Gabriel Gioito de Ferrari, Vinegia 1547, pp. 34-35; 56-58.
16. Giovanni Boschi, Storia biblica corredata dalle principali
notizie per servire all’intelligenza storica, archeologica,
cronologica, geografica e filosofica dei libri santi, stab. tip.
Morelli, Napoli 1862-1865, pp. 211-212; J. Robinson, op. cit., pp.
95-96.
17. Cfr. Giulio Guidorizzi, Tabù alimentari e funzione onirica in
Grecia, in Longo O., Scarpi P. (a cura di), Homo edens. Regimi, miti
e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo,
Diapress, Milano 1987, pp. 169-177.
18. Ercole Mattioli, La pietà illustrata. Accademie sacre dove
s’erudisce in ordine ad essa un giovane nobile, per Alberto Pazzoni
e Paolo Monti, Parma 1694, p. 42; Francesco Zanotto, Dizionario
pittoresco di ogni mitologia d’antichità, d’iconologia e delle favole
del Medio Evo, stab. naz. di Giuseppe Antonelli, Venezia 1853, pp.
801-802.
19. Bernardino Baldi, Vita di Pitagora, tip. delle Scienze
Matematiche e Fisiche, Roma 1888, p. 29; Fulvio Gherli, La scuola
salernitana dilucidata: o sia lo scovrimento del vero e del falso,
dell’utile e dell’inutile di questa stimatissima opera, per sapersi
conservar sano, e prolungare la vita, spiegandosi tutto sul buon
gusto moderno, presso Giuseppe Corona, Venezia 1733, pp. 184185; Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e
particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue
bianco, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820, p. 168.
20. Giamblico, La vita pitagorica, in Giangiulio M. (a cura di),
Pitagora. Le opere e le testimonianze, XXIV, 106-107, vol. II,
Mondadori, Milano 2000, p. 397. Cfr. Francesco Grillo, Pitagora di
Samo nella storia e nel mito, Cosenza 1956, estratto da Calabria
Nobilissima, a. X, n. 29, 1956; Alberto Gianola, La fortuna di
Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto,
Francesco Battiato, Catania 1921, p. 201.
21. Giamblico, op. cit., XXV, 110, p. 399. Cfr. Olao Magno Gotho,
Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali,
appresso i Giunti, Vinegia 1565, p. 272; Plotino, Enneadi, IV, 7, 8,
26-37, Mondadori, Milano 2002, p. 1103.
Polpo progenitore
Gli scrittori antichi raccontano che Siri, Persiani, Fenici, Egizi,
Cretesi e altri popoli non mangiavano alcuni pesci perché sacri agli
dei se non addirittura, essi stessi dei1. Gli Egiziani veneravano
l’ossirinco perché pensavano che uno di questi pesci avesse ingerito
parti del corpo d’Osiride gettate nel Nilo dopo essere stato fatto a
pezzi dal fratello minore Seth2. Gli abitanti d’Ascalona non
pescavano né mangiavano i pesci del vicino lago per rispetto della
regina Derceta. Venere la fece innamorare di un bellissimo giovane e
dal loro rapporto era nata una bambina ma la donna, vergognandosi
del peccato, allontanò l’amante, abbandonò la figlia nel deserto, si
gettò nel lago e diventò pesce3. I Greci ritenevano sacro il pesce
pompilo. Apollonio di Rodi racconta che Apollo, invaghitosi
d’Ociroe, decise di rapirla mentre il pescatore Pompilo la stava
traghettando a Mileto per partecipare a una festa in onore
d’Artemide. Il dio dell’amore portò via la giovane e trasformò
Pompilo in pesce, affidandogli il compito di scortare e proteggere le
navi durante la navigazione4. Tra i pesci sacri Aristotele citava anche
l’anthìas, perché indicava ai pescatori di spugne e d’ostriche dove
immergersi per evitare bestie marine e Teocrito di Siracusa indicava
sacro il leukos, in grado di riempire le reti dei pescatori5.
Sembra che anche il polpo fosse oggetto di venerazione in alcune
città del Mediterraneo. Secondo Ateneo, l’octopus dagli otto piedi,
come la testuggine di mare, era considerato sacro a Trezene ed era
assolutamente vietato pescarlo, toccarlo o mangiarlo6. Il polpo
argonauta o nautilo, riconosciuto dai marinai come maestro della
navigazione, era venerato nell’antichità e celebrato da diversi poeti
come un essere portentoso: quando le acque erano calme agitava le
braccia come remi e, se si alzava un venticello, issava le vele7.
I polpi erano tenuti in gran considerazione perché, a differenza
delle altre creature marine, riuscivano a vivere anche sulla
terraferma e perché si autorigeneravano8. Si moltiplicavano alla
maniera degli alberi: come da tanti rami strappati all’albero e
conficcati nella terra nascevano altre piante, così dai tentacoli
staccati nascevano altri polpi9. Gli scienziati chiamavano «polipi»
gli animali con molte braccia, che, pur vivendo in acque dolci e
salate, si comportavano come piante. I naturalisti del Settecento
erano affascinati dai polipi poiché avevano una forza riproduttrice
non riscontrabile in nessun animale terrestre o marino10. Attraverso
alcuni esperimenti fu possibile osservare che si riproducevano come
le piante e, per questo motivo, vennero catalogati come
«piantanimali», esseri viventi posti tra il mondo vegetale e quello
animale11. Riformandosi da una parte del corpo, il polpo era
immortale come una divinità e alcuni eruditi immaginavano il
creatore dell’universo somigliante a un mollusco gigantesco12.
I pesci sacri dovevano essere rispettati, pena una severa punizione
degli dei. Secondo Eliano, gli Egiziani veneravano a tal punto il
pesce ossirinco da non pescare in certi periodi per timore che questi
finisse nelle reti13. Pancate raccontava che Epopeo e il figlio,
pescatori dell’isola d’Icaria, presero e mangiarono per fame alcuni
pompili. Per non aver avuto alcun riguardo del sacro pesce, mentre
calavano nuovamente la rete, il vecchio Epopeo fu afferrato da una
balena e annegò nelle acque profonde. I pescatori riferivano che,
mangiando le carni dei pompili, i delfini perdevano ogni vigore,
diventavano «stupidi» e finivano sulla spiaggia per essere divorati
dagli uccelli marini14.
Mirtilo scrive che i pitagorici, ritenendo sacro il silenzio,
consideravano divini i pesci perché erano muti15. Laerzio sostiene
che Pitagora ordinava ai discepoli di non mangiare pesci perché
sacri e ricordava spesso di avere appreso la sapienza da loro16.
Giambico racconta che il filosofo aveva uno stretto rapporto con le
acque al punto da parlare col fiume Nesso17. Plutarco afferma che
Pitagora non aveva in odio i pesci e non li considerava nemici
perché, a differenza degli animali terrestri, non danneggiavano gli
uomini: la triglia non guastava i campi, lo scaro non mangiava l’uva
e il muggine non raccoglieva semi18.
Diversi filosofi greci pensavano che l’uomo fosse nato dal mare e
che i pesci fossero suoi parenti. Ovidio scriveva che Pitagora amava
ripetere di avere visto terre che prima erano oceani e che in cima ai
monti si disseppellivano conchiglie marine19. Una mattina, trovandosi
presso alcuni pescatori affermò di sapere quanti pesci si trovassero
nella rete e, fra lo stupore dei presenti, ne indovinò il numero: come
ricompensa, chiese che fosse resa la libertà ai pesci, nostri antenati20.
Gli Jeromnemones, sacerdoti di Nettuno, adoravano il dio del mare
Phytalmios perché loro progenitore e non mangiavano pesci perché
ritenevano che l’uomo, composto di sostanza umida, in origine
vivesse nel mare. Anassimandro di Mileto sosteneva che l’uomo si
fosse generato dentro un pesce e, una volta allevato, avesse
abbandonato le acque per stabilirsi sulla terra: mangiare pesci,
dunque, era come mangiare il padre e la madre21. L’uomo era figlio
del mare e nel mare doveva tornare. In diversi villaggi lungo le coste
del Mediterraneo si gettavano nelle acque i corpi dei morti affinché
tornassero nel luogo d’origine: i pesci che avevano nutrito gli uomini
in vita, li utilizzavano come pasto dopo la morte22.
Fra tutti i pesci antenati e consanguinei dell’uomo, quello che
aveva con lui maggiore vicinanza era il polpo. La testa, gli occhi e la
pelle del cefalopode, somigliavano a quelli umani; come l’uomo,
camminava sulla terra, nuotava nell’acqua e cambiava colore
secondo gli stati d’animo. In alcuni centri del Mediterraneo si usava
portare in dono alle puerpere un polpo affinché il figlio avesse le sue
doti. Diversi racconti evidenziavano il rapporto tra mollusco e
gestanti. Il cappuccino Egidio, nato a Castellaneta nel 1537, stimato
in terra d’Otranto per il suo spirito profetico, presagì a una giovane
donna di Lequile che il parto sarebbe stato dolorosissimo e il feto
sarebbe stato simile a un polpo23. Ad Acireale, nel 1723, Venera
Greco, moglie di un pescatore, partorì fra dolori un grosso
cefalopode per aver osservato a lungo un polpo24.
Mangiare polpi, esseri della stessa stirpe degli uomini, era un atto
di cannibalismo. Gli umani erano legati da vincoli di parentela anche
alle fave poiché, esposte ai raggi solari, emanavano l’odore del
liquido seminale; inoltre, sotterrandone i fiori in un vaso di
terracotta, dopo novanta giorni s’intravedeva la testa di un bambino
oppure un sesso femminile25. Le fave, come i polpi, avevano la stessa
natura degli uomini e bastava aprire un baccello fresco e guardare il
seme per capire che esso fosse simile al feto di un bambino. Eraclide
Pontico raccontava che da una fava gettata nel letame, dopo una
gestazione di quaranta giorni, il tempo di fioritura della pianta,
nasceva un uomo26. Nel mondo antico era diffusa l’idea che dalla
putredine potessero venire al mondo degli esseri viventi e Gian
Battista della Porta affermava che alcuni pesci nascessero dalle
«intestine della terra»27.
Uomini e pesci avevano un profondo legame. Oannes o Euhandes,
secondo i siriaci mezzo uomo e mezzo pesce, ogni mattina usciva dal
Mar Rosso e si recava nella città di Babilonia per iniziare gli
abitanti alle scienze e alle arti; i sacerdoti caldei sostenevano che
avesse insegnato ai loro padri ogni cosa utile e che da allora
l’umanità non avesse più scoperto niente d’importante28. Il mare era
popolato da esseri metà pesce e metà uomini. Le sirene, secondo
Aristotele numerose nel braccio di mare tra Cuma e Posidonia, erano
fanciulle marine che ingannavano i naviganti con il loro aspetto e il
loro canto: dal capo fino al ventre avevano il corpo umano e, dal
ventre in giù, avevano code squamose che celavano nei gorghi29.
Ovidio narrava che le divinità come Tritone, Proteo ed Egeone
fossero di colorito azzurro e che Doride e le figlie, dopo aver
nuotato in acque salate o navigato in groppa a grossi pesci,
asciugavano al sole i verdi capelli30. Secondo Plinio alcuni
ambasciatori provenienti da Olsipone raccontarono all’imperatore
Tiberio che in una grotta era stato visto un Tritone suonare la conca.
Quel mare era pieno di Nereidi, donne col corpo ispido di squame e
si narra che alcune persone, attratte da un triste canto, ne videro
morire una sulla spiaggia31. Viaggiatori e marinai, durante la notte,
avevano avvistato nell’Oceano Gaditano un uomo marino così
pesante da affondare le imbarcazioni sulle quali si posava32.
Rondelezio, professore di medicina, in un trattato scientifico
d’ittiologia del 1554 descrive alcune specie di pesci dalle forme
incredibili tra cui il de monstro leonino, il de pisce monachi habitu
e il de pisce episcopi habitu di cui forniva anche dettagliati
disegni33. Nel 1565 Olao Magno scriveva che in mare vivevano
pesci tanto mostruosi che a guardarli riempivano di spavento e
stupore. Alcuni, dalle rosse pupille e coperti da peli spessi e lunghi,
affondavano agevolmente grandi navi e sopprimevano robusti
marinai; altri ne sovrastavano gli alberi e le inondavano d’acqua,
facendole inabissare; altri ancora avevano bocche così grandi da
distruggere enormi vascelli azzannandoli a prua o a poppa34.
Vallisneri affermava che in mare esistessero pesci con volti,
braccia, mani e busto simili a quelli degli uomini ed erano in grado
di vivere per molto tempo fuori dell’acqua35. Rossi raccontava di
aver acquistato e portato a Roma un pesce «vocale» dalla forma di
un vitello che stette fuori dell’acqua per più di un mese36. Nel 1403
fu catturata una donna marina, gettata in un lago dalle onde
dell’oceano e, poco dopo, un uomo marino con barba, capelli e peli
che mangiò pane e altre cose37. Al tempo di papa Eugenio fu preso a
Selenico un pesce che somigliava in tutto all’uomo ma con la pelle
come le anguille, in testa due piccole corna, le mani con due dita e i
piedi palmati come ali di pipistrello38. Ortensio Lando raccontava
che navigando verso la Sicilia vide con i compagni un uomo marino
che saliva sulla poppa della nave e si rituffava in acqua. Il giorno
dopo osservarono un gran numero di Tritoni e Nereidi dal corpo
peloso ed effige umana; una notte, navigando ad alcune miglia dalla
costa, udirono il dolce canto di cento sirene simile a un coro d’angeli
discesi dal cielo39. Beluacense sosteneva che al tempo di re Ruggero
di Sicilia, mentre un giovane nuotava nelle acque notturne, prese per
i capelli una donna muta: i due si sposarono ed ebbero un bel
bambino. Insospettitosi che la moglie fosse un pesce, minacciò di
uccidere il figlio se non avesse detto la verità, ma la donna si gettò in
mare col bambino e nessuno ebbe più notizie di entrambi40.
Se pesci-uomini lasciavano il mare per vivere sulla terra, uominipesce che vivevano sulla terra amavano stare in mare. Sotto il regno
di Federico II viveva in Sicilia un famoso «immergitore», chiamato
«Pescecola» o «Niccolò il pesce». L’uomo pescava coralli, ostriche
e conchiglie che rivendeva poi al mercato ed era un nuotatore
talmente esperto da riuscire a sopravvivere quattro o cinque giorni in
mare nutrendosi di pesce crudo. Si diceva che avesse mani come i
palmipedi e che stesse sott’acqua come un mammifero marino. Il re,
trascorrendo dei giorni a Messina, seppe delle imprese di Niccolò e
gli chiese di esplorare il gorgo di Cariddi. Pescecola si tuffò in
mare, emerse tre quarti d’ora dopo e raccontò al sovrano che tre cose
rendevano inaccessibile quel luogo: trombe d’acqua che sorgevano
minacciose dal fondo, rocce dalla punta aguzza e polpi col corpo
d’uomo e braccia lunghe dieci piedi. Il re gli chiese di esplorare
ancora il gorgo invogliandolo con una borsa piena di monete d’oro
ma Pescecola fu divorato dai grandi polpi41.
1. Emiliano Janitsch, Concordia della religione naturale colla
rivelata in confutazione de’ sedicenti filosofi moderni, presso
Michele Morelli, Napoli 1793, p. 36; Antonio Epifania, Trattato
elementare di mitologia universale, dalla tip. dell’Osservatore
Medico, Napoli 1827, p. 149. Cfr. Angelo De Gubernatis, Zoologia
mitologica dei pesci, in Archivio per l’antropologia e la etnologia.
Organo della società italiana di antropologia e di etnologia, stab.
tip. G. Pellai, Firenze 1872, pp. 121-137; Dizionario d’ogni
mitologia e antichità, presso Batelli e Fanfani, Milano 1823, pp.
649-654.
2. Francesco Zanotto, op. cit., pp. 797-798; Girolamo Pozzoli, op.
cit., p. 653; Domenico Valeriani, Nuova illustrazione istoricomonumentale del Basso e dell’Alto Egitto, presso Paolo Fumagalli,
Firenze 1836, pp. 485-489.
3. Francesco Sansovino, Le antichità di Beroso Caldeo sacerdote, et
d’altri scrittori, così Hebrei, come Greci, & Latini, che trattano
delle stesse materie, alla Libraria della Fortezza, Vinegia 1583, p.
19.
4. Ateneo, op. cit., VII, 283d, p. 676. Cfr. Oppiano, Della pesca e
della caccia, appresso il Tartini e il Franchi, Firenze 1728, pp. 189190; Carlo Antonio Vanzon, Dizionario universale della lingua
italiana, dalla stamperia di Paolo Vannini, Livorno 1838, p. 786;
Eugenio Raimondi, Delle Caccie, per Labaro Scoriggio, Napoli
1626, pp. 405-406.
5. Ateneo, op. cit., VII, 282d-284d, vol. II, pp. 673, 677.
6. Ivi, VII, 317c, vol. II, p. 769.
7. Michele Lessona, Dopo il tramonto, tip. de’ Sordo-Muti, Genova
1865, p. 6; Notizia sull’Argonauta Argo del Linneo, in Memorie di
matematica e di fisica della Società Italiana delle Scienze, dalla
tip. Gambaretti e Compagno, Verona 1809, t. XIV, p. II, pp. 122-127.
8. Opere di Francesco Redi gentiluomo aretino e accademico della
Crusca, dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1811,
p. 376.
9. Filippo Arena, La natura e coltura de’ fiori fisicamente esposta
in due trattati con nuove ragioni, osservazioni e esperienze,
appresso Angelo Felicella, Palermo 1767, pp. 32-33.
10. Gianbattista Moratelli, Nozioni elementari di storia animale per
le donne, tipografia Francesco Sonzogno, Milano 1808, pp. 267-272.
11. Novelle letterarie pubblicate in Firenze l’anno MDCCXLV, t.
VI, nella stamperia della SS. Annunziata, Firenze 1795, pp. 287-288;
Carlo Bonnet, Contemplazione della natura, presso Giovanni Vitto,
Venezia 1781, pp. 226-248; Charles Bonnet, Considerazioni sopra i
corpi organizzati dove si tratta della loro origine, del loro
sviluppamento, della loro riproduzione, appresso Francesco di
Niccolò Pezzana, Venezia 1781, pp. 36-45; Filippo Cavolini,
Memorie per servire alla storia de’ polpi marini, s.e., Napoli 1785.
12. Vincenzo Palmieri, Analisi ragionata de’ sistemi e de’
fondamenti dell’ateismo e dell’incredulità, presso Delle Piane
Stampatore della Prefettura, Genova 1811, p. 52.
13. Francesco Zanotto, op. cit., p. 798.
14. Ateneo, op. cit., VII, 283d, vol. II, p. 675. Cfr. Li tre libri di
Nicolo Leonico de varie historie, nuovamente tradotti in buona
lingua volgare, per Michele Tramezzino, Venetia 1544, p.109.
15. Ibidem.
16. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 34, in Giangiulio M. (a cura
di), op. cit., p. 223. Cfr. François Della Motta Le Vayer, Scuola de’
prencipi e de’ cavalieri cioè la geografia, la rettorica, la morale,
l’economica, la politica, la logica e la fisica, appresso Nicolò
Mezzana, Venezia 1684, pp. 220-221.
17. Giamblico, op. cit, XXVIII, 134, p. 417.
18. L’Odissea di Omero, per l’Erede di Alberto Pazzoni, Mantova
1778, p. 256.
19. Publio Ovidio Nasone, op. cit., XV, 262-272, p. 617.
20. Vincenzo Cuoco, Platone in Italia, stamperia Carmignani, Parma
1820, p. 240.
21. Opuscoli di Plutarco, cit., pp. 441-447. Cfr. Cécile Guérad,
Piccola filosofia del mare. Da Talete a Nietsche, Guanda, Parma
2010; I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, RomaBari 2002.
22. Pierre Muret, Cerimonie funebri di tutte le nazioni del mondo,
presso Gio. Battista Recurti, Venezia 1722, pp. 136-138.
23. Silvestro da Milano, Annali dell’Ordine de’ frati Minori
Cappuccini, nella stamperia di Pietro Antonio Frigerio, Milano
1744, p. 217.
24. Antonino Mongitore, Della Sicilia ricercata nelle cose più
memorabili che contiene quanto si è osservato di raro nel mare
siciliano, suo littorale, pesci, pescagioni, cose maritime, tempeste,
assorbimenti, ed inondazioni, acque, bagni, monti, grotte, terre, e
pietre memorabili della Sicilia, nella stamperia di Francesco
Valenza Regio Impressore della Santissima crociata, Palermo 1743,
p. 21.
25. Porfirio, Vita di Pitagora, in Giangiulio M. (a cura di), op. cit.,
vol. II, 43-44, p. 283. Cfr. Giovanni Sole, Il tabù delle fave.
Pitagora e la ricerca del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.
26. Ileana Chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti
greci, ed. dell’Ateneo, Roma 1968, p. 39.
27. Giovanni Battista Della Porta, Della magia naturale, appresso
Antonio Bulifon, Napoli 1677, pp. 47-49.
28. Federigo Leopoldo di Stolberg, Storia della religione di Gesù
Cristo, nella stamperia della S. Congregazione, Roma 1824, pp. 507508; Aurelio Bianchi-Giovini, Storia degli Ebrei e delle loro sette e
dottrine religiose durante il secondo tempio, tip. Pirotta e C.,
Milano 1844, p. 321.
29. Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, Studio Tesi,
Padova 1997, p. 45. Cfr. Corrado Bologna, Liber monstrorum de
diversis generibus, Bompiani, Milano 1977.
30. Publio Ovidio Nasone, op. cit., II, 9-14, p. 47.
31. Plinio, Storia naturale, Einaudi, Torino 1999, vol. II, p. 301.
32. Ibidem.
33. Gulielmi Rondeletii, Libri de piscibus marinis, in quibus verae
piscium effigies expressae sunt, apud Matthian Bonhomme, Lugduni
1554, pp. 491-494. Cfr. William Swainson, Discorso preliminare
sullo studio della storia naturale, G. Pomba, Torino 1843, pp. 1314.
34. Olao Magno Gotho, Historia delle genti et della natura delle
cose settentrionali, appresso i Giunti, Venezia 1565, p. 163.
35. Antonio Vallisneri, Istoria della generazione dell’uomo e degli
animali, appresso Gio. Gabbriel Hertz, Venezia 1721, p. 433.
36. Pio Rossi, Convito morale per gli etici, economici, e politici
ordinato et intrecciato si della ragion di stato, come delle
principali materie militari, appresso i Guerigly, Venetia 1639, p.
358.
37. Giovanni Botero, Relazioni universali divise in quattro parti.
Arricchite di molte cose rare, e memorabili, con l’ultima mano
dell’Autore, per li Bertani, Venetia 1671, p. 50.
38. Teodoro Albmair, I quattro elementi spiegati in venticinque
discorsi, ne’ quali si ragiona delle cose principali, che nascono in
essi, cioè, Delle pietre preziose; Del muschio; Dell’ambra, Del
balsamo; Del zibetto; De’ metalli; De’ fiori più rari, e della
coltura di essi; Dell’erbe; Degli agrumi, e del modo di
moltiplicargli, e conservargli; Degli alberi; Delle frutte; Degli
animali quadrupedi dimestichi, e salvatichi, De’ serpenti, e delle
serpi; Degl’insetti, e altri animalazzi; Degli uccelli dimestichi, e di
rapina; De’ fiumi più principali; e de’ pesci di essi; Del mare e de’
pesci, e mostri di esso; Del fuoco, e di alcuni animali, che (dicesi)
vivono esso. Delle quali cose, dimostrandosi la virtù, si scoprono
bellissimi segreti, all’insegna della Stella, Firenze 1668, p. 211.
39. Ortensio Lando, Commentario delle più notabili, & mostruose
cose d’Italia, & altri luoghi, appresso Giovanni Bariletto, Venetia
1569, p. 9.
40. Antonino Mongitore, op. cit., p. 65.
41. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e
particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue
bianco, al Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820, pp. 504-507.
Cfr. Antonino Mongitore, op. cit., pp. 66-67; Benedetto Chiarello,
Chimica filosofica ò vero problemi naturali sciolti in uso morale,
nella stamperia di D. Antonio Maffei, Messina 1702, p. 158.
Polpo libidinoso
Per gli scrittori antichi, il polpo era libidinoso e le sue carni
afrodisiache. In molti era diffusa la convinzione che i pesci fossero
più fecondi e ingordi sessualmente degli animali terrestri.
Nell’Ottocento alcuni studiosi rilevavano che nei villaggi lungo le
coste, la popolazione, grazie a una dieta a base di pesce, era più
prolifica di quella che viveva nelle zone interne1. In un trattato di
polizia medica si legge che i pesci, alterando la costituzione del
corpo umano, aumentavano la libidine e che la gran fecondità nelle
città marittime dipendesse dall’eccessivo consumo di pesce. Uomini
santi che vivevano in luoghi di mare, si flagellavano e si
tormentavano in mille modi per reprimere le pulsioni libidinose che
senza colpa si destavano in loro2!
Tra tutti i pesci, quelli maggiormente lascivi e viziosi erano i
polpi. Gli egiziani dipingevano un polpo per indicare un uomo
incapace di staccarsi da una donna e sostenevano che solo l’erba
pulicaria riuscisse a farlo desistere dal coito3. La bramosia sessuale
dei polpi li spingeva ad accoppiarsi ripetutamente ed erano così
insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla
propria corona di tentacoli. Cicerone in una lettera, utilizza questo
simbolismo quando si riferisce all’episodio di un polpo tinto di
porpora e camuffato da testa di Giove, servito alla tavola di Peto
Papirio4.
Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio
scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano
sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume»
svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e
bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale
persino tra i deboli. A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che
desideravano procreare figlioli, acquistavano a caro prezzo i polpi
essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del
Mediterraneo5. Per favorire il concepimento le donne inghiottivano
pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro,
coriandolo e cumino6.
Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a
considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la
continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale e
per gli stessi cefalopodi era causa della breve esistenza. Plinio e
altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le
femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione7. Il
naturalista Minasi confermava che fosse proprio la loro brama
sessuale a condurli alla morte di tabe prima del compimento di due
anni8. Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori
cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai
continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici9.
L’arcivescovo Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il
veemente coito, si debilitavano a tal punto da essere portati via dalle
loro tane e divorati lentamente da fragili pesciolini10.
Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le
sue carni spingevano alla copula; vietava anche il consumo d’ortiche
marine perché, bollite o fritte, erano anch’esse afrodisiache11. I polpi
a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e
diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di
vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini12. La brama
sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai
sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in
acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si
avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno
all’altro, erano tirati sulla barca13.
Per Freud i tabù avevano un’origine legata alla sfera sessuale.
Egli sostiene che se un nevrotico ossessivo decide che mangiare
qualcosa può provocargli una grave disgrazia, da quel momento
rispetta rigorosamente la rinuncia: tale proibizione è la
manifestazione di una situazione irrisolta, una fissazione psichica
generata da un conflitto permanente tra divieto e pulsione. L’origine
di questi divieti, che mutano quando l’imposizione perde la sua
carica, è legata alla sessualità. Il divieto non elimina la pulsione ma
la rimuove relegandola nell’inconscio.
La matrice sessuale del divieto del polpo appare fin troppo
evidente. I polpi erano il simbolo della libidine e della sensualità, le
loro carni avevano una forza erotica che induceva gli uomini in
tentazione e, poiché tale «malattia» era contagiosa, attraverso il tabù,
il desiderio proibito si relegava nell’inconscio. La funzione del tabù
è quella di rammentare agli uomini le pulsioni rimosse verso le quali
permane una forte inclinazione; astenersi dal toccare o dal mangiare
il polpo era un modo per espiare ma anche per risarcire la pulsione
verso una cosa negata. Il tabù è una nevrosi privata divenuta
collettiva grazie all’autorità. Il nevrotico, anche se
inconsapevolmente, sceglie i suoi oggetti di contaminazione
richiamandosi spesso a un patrimonio culturale comune. I tabù erano
divieti antichissimi imposti in una determinata epoca a una
generazione di uomini e trasmessi con la forza a quella successiva
grazie all’autorità esercitata dalla famiglia e dalla società14.
1. Dizionario delle date, dei fatti, luoghi ed uomini storici o
repertorio alfabetico di cronologia universale, stab. naz. di G.
Antonelli, Venetia 1847, p. 795.
2. Johann Peter Frank, Sistema compiuto di polizia medica, Bertani
Antonelli e C., Livorno 1836, p. 28.
3. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 352.
4. Giovanni Fabrini (a cura di), Le lettere familiari latine di M.
Tullio Cicerone e d’altri autori commentate in lingua volgare
toscana, appresso gli Heredi di Marchio Sessa, Venetia 1568, p.
121.
5. Paolo Giovio, Libro de’ pesci romani, Venetia, appresso il
Gualtieri, 1560, pp. 181-183; Ulyssis Aldrovandi, De reliquis
animalibus exanguibus, Baptistam Bellagambam, Bononiae 1606,
pp. 5-6. Cfr. Francesca Lugli, Massimo Vidale, Le Gargoulettes
(orci perforati) per la pesca del polpo a Gerba (Tunisia), in
«Archeologia postmedievale», n. 4, ed. all’Insegna del Giglio, 2000,
pp. 123-135.
6. Opere compiute d’Ippocrate, co’ tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli,
Venezia 1838, p. 592.
7. Plinio, op. cit., vol. II, p. 347; Paolo Giovio, op. cit., p. 180.
8. Antonio Minasi, Dissertazione seconda su de’ timpanetti
dell’udito scoverti nel granchio paguro e sulla bizzarra di lui vita
con curiose note e serie riflessioni, nella stamperia Simoniana,
Napoli 1775, pp. 54-55.
9. Giovanni Rho, Delle orazioni sacre, per il Balba, Venetia 1652, p.
634.
10. Olao Magno Gotho, op. cit., pp. 272-273.
11. Saverio Macrì, Memoria intorno a tre nuove specie di meduse
del mar Tirreno, in Atti della Reale Accademia delle Scienze.
Sezione della Società Reale Borbonica, nella Stamperia Reale,
Napoli 1825, vol. II, p. 68.
12. Olao Magno Gotho, op. cit., p. 272.
13. Dizionario delle scienze naturali nel quale si tratta
metodicamente dei differenti esseri della natura, considerati o in
loro stessi, secondo lo stato attuale delle nostre cognizioni, o
relativamente all’utilità che ne può risultare per la medicina,
l’agricoltura, il commercio e le arti, per V. Battelli e comp., Firenze
1847, vol. XVIII, p. 203.
14. Sigmund Freud, Totem e tabù, Mondadori, Milano 2001, p. 27.
Polpo adulatore
Zenobio citava un proverbio greco in cui si diceva che l’uomo,
come il polpo, deve adattarsi alle usanze del luogo e agire ora in un
modo ora in un altro1. Diogeniano ne citava un altro che consigliava
di adattarsi alle circostanze così come il polpo si adegua al colore
della pietra su cui si avvinghia2. Clearco suggeriva al figlio Anfiloco
di essere come un polpo e di conformarsi agli usi e ai costumi delle
città visitate3. Odisseo Megaclide scriveva che, frequentando popoli
diversi, l’uomo doveva ispirarsi al polpo che si mostra simile allo
scoglio a cui si accosta4. Sofocle consigliava a una donna prossima a
sposarsi di mettere da parte ogni schietto pensiero e di disporsi nei
confronti del marito così come il polpo prende il colore delle rocce5.
Erasmo da Rotterdam osservava che i greci dicevano «comportati
come il polpo» quando esortavano un uomo ad assumere
atteggiamenti mutevoli per adeguarsi alle circostanze. «Il luogo dove
ci si trova rappresenta la legge», sentenziavano i saggi per ricordare
che ogni popolo aveva le proprie abitudini e che, quando si era
accolti, non bisognava condannare o giudicare ma, per quanto
possibile, imitare e assumere le usanze e i costumi di chi dava
ospitalità. Erasmo ricordava che il greco Alcibiade era stato un
grande statista perché si era comportato come un polpo: ad Atene
scherzava con facezie e motti arguti, allevava cavalli e viveva in
modo elegante, a Sparta si radeva, si lavava con acqua fredda e
portava il palio, in Tracia combatteva, mangiava e beveva
smisuratamente, a Tissaferne si diede alla mollezza, ai piaceri e al
fasto.
Chi condannava le abitudini straniere era selvaggio, scorbutico e
ignorante e lo stesso Omero apprezzava il «versatile» Ulisse capace
di confrontarsi con le culture più svariate. Per Europoli l’uomo di
mondo si comportava come un polpo e Plutarco, citando Pindaro,
scriveva che adottando la condotta del polpo intratteneva buoni
rapporti con i forestieri. I grandi uomini spesso erano stati costretti a
indossare panni diversi: Ulisse mentì nella grotta di Polifemo e si
vestì da mendicante per ingannare i Proci, Bruto finse di essere
stolto, Davide diede l’impressione d’essere folle e l’apostolo Paolo
si servì dell’astuzia per evangelizzare gli ebrei6.
Nell’apologetica cristiana il polpo era, invece, indicato come
metafora del male e paragonato al demonio perché, grazie all’abilità
nel travestirsi, circuendo le anime ingenue con lusinghe, le avvolgeva
nei tentacoli, le soffocava e le divorava7. Il polpo era immondo ed
empio in quanto si occultava abilmente per provocare la morte altrui
e detestabile perché nuotava nelle limacciose acque dei fondali8.
Libidinoso e vorace, frutto della metamorfosi diabolica, era
l’immagine di ciò che sarebbe accaduto agli uomini se avesse
trionfato l’Anticristo, un monito per i cristiani affinché non si
lasciassero sopraffare dalla materialità e dalle passioni.
Il gesuita Salas ricordava che Gesù Cristo, durante la
peregrinazione sulla terra, non aveva mutato le sue idee neanche di
fronte alla morte e che i profeti della buona novella non avevano mai
ossequiato i sovrani alla maniera dei polpi che assumono il colore
degli scogli ove sono attaccati9. Sant’Ambrogio mostrava il polpo
come simbolo di piaceri, lussuria e carnalità e san Basilio ne faceva
l’emblema dell’adulazione. I predicatori lo additavano come
personificazione di tentazione e perfidia: assumendo i colori
dell’ambiente circostante mutava lesto per ottenere vantaggi e
compiere nefandezze e, grazie all’abilità nel travestirsi, si aggirava
pericolosamente per corrompere gli animi10. San Girolamo
paragonava gli eretici agli octopus poiché sotto false vesti
raggiravano gli ingenui fedeli cristiani per allontanarli dalla fede e
dalla salvezza11. Uomini col cappuccio si muovevano dolcemente
come i polpi ma, quelle vesti, celavano traditori simili a Giuda
Iscariota, diavoli che al pari dei cefalopodi erano privi di cuore12.
Aresi, vescovo di Tortona, paragonava il polpo alle donne. I latini
lo chiamavano pesce molle per la morbidezza delle sue carni ma con
i potenti tentacoli stringeva e soffocava le vittime, proprio come
quelle donne senza scrupoli che, fingendo di amare, depredavano i
poveri malcapitati. Il polpo simboleggiava le femmine ingorde che,
dopo avere intenerito con vezzi e carezze il più duro dei cuori, lo
spolpavano senza pietà; che abbandonavano le proprie famiglie per
andare in giro senza vesti a caccia di nuove prede; che dopo aver
succhiato con bocca vogliosa il sangue delle vittime, le
disprezzavano e le lasciavano; che entrando di notte nelle case altrui
arraffavano il cibo apparecchiato per gli altri. I maschi, se catturati
dalle donne assatanate, dovevano recidere i loro «tentacoli» senza
esitazione, proprio come facevano gronghi e murene con i polpi13!
1. Zenobio, Epitome della raccolta di Didimo e del Terreo ordinata
alfabeticamente, I, 24, in Lelli E. (a cura di), I proverbi greci. Le
raccolte di Zenobio e Diogeniano, Rubbettino, Soveria Mannelli
2006, p. 75.
2. Diogeniano, Proverbi popolari, I, 23, in Lelli E. (a cura di), op.
cit., p. 253.
3. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769.
4. Ivi, XII, 513e, vol. III, p. 1275.
5. Ivi, XII, 513d, vol. III, p. 1276.
6. Erasmo da Rotterdam, Adagia, Salerno editrice, Roma 2010, pp.
89-101.
7. Luigi Polidori, Del pesce come simbolo di Cristo e dei cristiani,
dalla tip. Boniardi-Pogliani, Milano 1843.
8. Battista Gallicciolli (a cura di), Lettera universale di San
Barnaba apostolo. Traduzione dal greco, dalla tip. di Antonio Curti,
Venezia 1797, p. 109.
9. Luigi Salas, La cattività de’ Giudei in Babilonia, stamperia degli
Eredi di Alessio Pellecchia, Napoli 1759, p. 6.
10. Carlo Gregorio Rosignoli, Opere spirituali e morali. Meraviglie
della natura, ammaestramenti di moralità, nella stamperia Baglioni,
Venezia 1723, vol. II, p. 20; Pierre Denys de Montfort, op. cit., p.
452.
11. Paolo Biscioli, Tre discorsi sopra la lettera di Baruc profeta
scritta à gl’Ebrei captivi in Babilonia. Ne i quali s’applicano le
maligne qualità de gl’idoli, e de l’idolatria, à gl’eretici, & eresia,
per Baldasar Arcione, Como 1620, p. 55; Carlo Gregorio Rosignoli,
op. cit., p. 20. Cfr. Giulio Cesare Capaccio, Trattato delle imprese,
appresso Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, Napoli 1592, p. 42;
Emanuele Tesauro, La filosofia morale derivata dall’alto fonte del
grande Aristotele stagirita, appresso Nicolò Mezzana, Venetia 1673,
p. 260.
12. Antonio Vieira, Seconda parte delle prediche, a spese di Gio.
Battista e Giuseppe Corvi, Roma 1686, p. 291; Ferdinando Zucconi,
Lezioni sacre sopra la Divina Scrittura, nella stamperia Baglioni,
Venezia 1724, p. 144.
13. Paolo Aresi, Imprese sacre con triplicati discorsi illustrate &
arricchite, presso Giacomo Sarzina, Venetia 1629, pp. 435-469.
Polpo avido e tiranno
Per definire un balordo, Alceo scriveva che era uomo sciocco e
aveva il cervello di un polpo1. Ateneo, Aristotele e Clearco
giudicavano stupido il polpo poiché, malgrado fosse dotato
d’astuzia, a volte si lasciava catturare facilmente dal nemico2. Plinio
scriveva che il polpo era considerato talmente tonto da nuotare verso
la mano del pescatore, ma in realtà era un animale intelligente,
capace di districarsi nei labirinti e usare ogni artificio per difendersi
o procurarsi il cibo3. Eliano e Teognide di Megara annotavano che i
polpi si acquattavano sotto le rocce e ne assumevano il colore così
da sembrare anch’essi rocce: i pesci si avvicinavano a loro
credendoli scogli e, impreparati a un attacco, erano fatti prigionieri4.
Giovio confermava che il polpo era molto intelligente poiché durante
la caccia escogitava vari trucchi per impossessarsi della preda. I
pescatori raccontavano che il cefalopode poneva tra le valve delle
ostriche una pietra per impedire loro di chiudersi e poterle mangiare;
quando stava per soccombere lanciava l’inchiostro contro gli
inseguitori per disorientarli e si trascinava spesso sulla terra per
depredare i frutti degli alberi5.
Un guerriero doveva essere forte ma anche astuto e il polpo era un
animale scaltro, intelligente e versatile poiché, trasformandosi
meglio di un camaleonte, scherniva le insidie degli avversari; si
aggirava placidamente tra gli scogli ma, nel momento del bisogno,
sfrecciava rapido nell’acqua, staccava i tentacoli per sfuggire al
nemico e schizzava inchiostro per oscurare il campo di battaglia6. Il
polpo usava l’astuzia per evitare il rivale ma non si sottraeva alla
battaglia e si lasciava uccidere piuttosto che scappare. I suoi otto
tentacoli dotati di potenti ventose erano forti come le braccia di
Ulisse aggrappato allo scoglio per non essere trascinato via dai
potenti flutti7. I pescatori raccontavano che quando afferrava una
preda la stritolava con vigore e solo la ruta riusciva a
immobilizzarlo o spaventarlo8. Da alcuni scrittori i polpi erano
indicati come tra i più feroci abitatori delle acque, robusti e
coraggiosi al punto da attaccare addirittura gli uomini9. I polpi
giganti erano talmente forti da battersi anche contro un leone o da
combattere in aria con un’aquila, farla precipitare nell’acqua e
mangiarla10. Fermi sulle rocce apparivano tranquilli, ma stimolati
dall’appetito o minacciati, montavano in furia, il corpo fremeva, la
pelle s’increspava, gli occhi diventavano carboni ardenti e le
«braccia» armate si muovevano minacciosamente11.
Il polpo era vorace e si scagliava con avidità su tutto ciò che
potesse satollarne la fame: come una tigre beveva il sangue delle
vittime e ne disdegnava la carne, si lanciava sulle prede con balzi
per soffocarle, uccideva molto più di quello che mangiava12.
Diquemarre sosteneva che il polpo negli scontri si batteva sino alla
morte e notò che, anche gravemente ferito, non mollava mai la preda.
A causa dell’intensa cupidigia uccideva in maniera spietata anche
quando non aveva fame e non era aggredito13. Non aveva rivali nei
fondali rocciosi, uno dei pochi animali che riusciva a sconfiggerlo
era la murena. Oppiano scriveva che il polpo tentava di avvolgerla e
stringerla con i lacci dei tentacoli ma, grazie al corpo liscio, la
murena si liberava dalla morsa e con la terribile mascella dai denti
aguzzi, lo lacerava e ne faceva banchetto14.
Si raccontavano diverse storie su vitalità e forza dei polpi. Lungo
il litorale di Palermo detto Espera, un esperto pescatore che voleva
dare prova di maestria, trasse un gran polpo dalla tana con un uncino
ma il mollusco gli si avventò contro avvincendo con i tentacoli il
collo per affogarlo15. Tartaro, il feroce alano irlandese di Bulifon, fu
aggredito da un polpo gigantesco che «russava» con forza, vibrava
vigorosi colpi di frusta e, nonostante fosse ferito, riuscì a trascinare
il cane tra gli scogli. Lo studioso scriveva che quell’animale gli era
parso tanto feroce nell’avventarsi sulla preda che avrebbe preferito
domare una tigre anziché addomesticare un polpo16.
Il polpo era un astuto e forte guerriero ma superbia, avarizia e
voracità spesso lo conducevano alla morte. Ghiotto d’olive, andava a
mangiarle sugli alberi e i pescatori, conoscendo questa sua golosità,
calavano una fronda d’ulivo nelle acque alla quale il mollusco
ingordamente si avvinghiava sino a essere tirato sulla barca. A volte
usciva di notte per andare a saccheggiare i pesci salati e i salumi
conservati nei magazzini ma finiva per essere ucciso dai guardiani
che lo appostavano con zappe, asce e forconi17. Eliano racconta che
aveva uno stomaco prodigioso e una tale voracità da sbranare, in
caso di fame, persino i propri piccoli18. Oppiano annotava che
durante le tempeste, acquattato nella tana, per soddisfare la fame
mangiava i propri tentacoli come fossero carni altrui19. Gli egiziani
solevano dipingere il polpo con i piedi tronchi poiché il mollusco,
quando non era in grado di trovare cibo, si pasceva dei propri
tentacoli20. Esiodo e Ferecrate confermavano che i polpi vivevano
d’olive selvatiche e, nelle giornate rigide e senza sole, per sfamarsi
rodevano le braccia che poi ricrescevano21. Difilo raccontava a un
amico di un polpo con tutti i tentacoli integri poiché non aveva
divorato se stesso e in una commedia Giovambattista della Porta
faceva dire a Morfeo: «Avrei preferito che la natura mi avesse fatto
polpo così nella gran fame avrei mangiato le mie braccia!»22.
Il polpo mangiava se stesso come aveva fatto Erisictone, re della
Tessaglia, uomo empio che non temeva la collera degli dei. Ovidio
racconta che il re profanò un recinto sacro a Cerere nel quale si
ergeva una gigantesca quercia votiva. L’uomo ordinò ai servitori di
tagliare la pianta sacra e, poiché questi esitavano, strappò dalle mani
di uno loro la scure e vibrò decisi colpi contro l’albero fino ad
abbatterlo. Per punirlo, Cerere stabilì una pena esemplare: sarebbe
stato divorato dalla terribile Fame. Erisictone fu così preda della
smania di mangiare da richiedere una quantità di vivande che
avrebbe sfamato un popolo intero. Alla fine, consumate tutte le
risorse, sventurato cominciò a rosicare il proprio corpo23.
Il polpo era considerato un animale rapace e paragonato dagli
antichi a un sovrano insaziabile che con i suoi tentacoli arraffava
tutto, un essere talmente ingordo che andava a saccheggiare persino i
frutti degli alberi24. Gli Egiziani solevano dipingere un polpo per
indicare un uomo che non aveva rispetto per le cose utili, era
occupato unicamente ad accumulare robe e divorava avidamente ogni
cosa25. L’octopus aveva quel piacere soverchio del goloso che
mangiava squisite vivande ed era privo di quello stesso piacere
perché, nella continua ricerca di nuovi sapori, consumava e gettava
via i cibi senza gustarli. Simbolo dell’ingordigia era una donna
vestita di color ruggine che nella mano sinistra teneva un polpo: il
color ruggine era dato dal fatto che divorasse anche il ferro e il
polpo perché, in mancanza di cibo, si nutriva della sua stessa carne26.
Il polpo era rappresentato come un animale immondo e non a caso,
come si legge in un dizionario del Settecento, i pescatori lo
classificavano nella razza «bestina»: pesci viscidi, orridi e
puzzolenti che camminavano lentamente e vivevano nella melma, a
differenza dei pesci «nobili» che con le pinne nuotavano in acque
alte e pulite27.
Capaccio scriveva che nel mondo antico coloro che usavano il
tempo solo per accumulare ricchezze erano paragonati al polpo che
depredava e serbava tutto nella spelonca28. Nei geroglifici la seppia
rappresentava un uomo che mancava alla parola data, mentre il polpo
simboleggiava il principe tiranno che angariava il popolo con
arroganza29. Secondo Mirabella, sulla moneta d’argento della
Repubblica di Siracusa, la figura di un polpo da un lato e di donna
dall’altro, rappresentava l’eterna lotta tra tirannia e repubblica. Il
polpo, in quanto incarnazione di vizi immondi e odiosi, raffigurava il
dispotismo del tiranno Dionigi, che per anni aveva vessato i
Siracusani30.
L’octopus era indicato come un simbolo negativo da oratori e
filosofi che predicavano temperanza e moderazione. Pitagora
ricordava ai concittadini che occorreva estirpare con ferro, fuoco e
ogni altro mezzo la dismisura delle cose: alla logica distruttiva
dell’eccesso, contrapponeva la logica costruttiva dell’equilibrio31.
Giamblico annotava che per i pitagorici l’uomo non doveva essere
libero di fare ciò che voleva perché, abbandonato a se stesso, cadeva
nella malvagità e nel vizio32. La vita dissoluta portava alla rovina e
le guerre non recavano così tante morti quanto la gola: l’uomo
doveva mangiare per vivere e non vivere per mangiare, l’astinenza
era madre della santità e l’intemperanza del demoniaco.
Nel mondo popolare, un uomo arrogante e avido lo si chiamava
«polpo» poiché con i suoi tentacoli arraffava tutto avidamente33. A
Venezia chiamavano «folpo» una persona goffa, tozza e malfatta
mentre in Sicilia si chiamava «purpu» chi era senza cuore e
interessato solo ai suoi beni34. Nel 1432, dopo l’omicidio del gran
siniscalco Sergianni Caracciolo a opera di Pietro Paganiani, i
ragazzi napoletani cantarono per le vie della città una canzone dal
ritornello: «Morto è lo pulpo e sta sotto la preta, morto è ser Janne
figlio de poeta». Sergianni era odiato dal popolo a causa della
tendenza ad agire in modo scellerato per i propri fini35. Il colonnello
Filippo Nardoni, cavaliere e segretario della gendarmeria pontificia
nel governo di Pio IX, accusato dai romani di turpitudini, vizi e
scelleratezze, era chiamato dalla plebe «polpo» perché usava il
potere per arraffare tutto quello che poteva ed egli stesso nelle
lettere, amava firmare con tale nomignolo36.
Gli uomini accecati da egoismo, avarizia e cupidigia avrebbero,
tuttavia, fatto una brutta fine. Nei geroglifici il polpo era scolpito o
dipinto anche per rappresentare il condottiero che a causa
dell’egoismo non aveva conservato le sue conquiste e il sovrano che
per insaziabile avidità dilapidava tutti gli averi37. «O ppurpo se coce
comme co ll’acqua soja» si sentenziava a Napoli per indicare che la
persona avida si castigasse da sé, mentre si diceva «comme a ppurpo
lo vatte» per le persone che non si «cocevano» bene se prima non
erano battuti con una canna38. Un lucerniere di bronzo trovato a
Pompei rappresenta un polpo intento a consumare la preda, un
delfino che sta per piombargli addosso e un amorino che sembra
difenderlo perché simbolo dei piaceri. Il polpo nella scultura è
l’emblema dello scellerato che proprio nel momento del delitto
pagava il suo misfatto39!.
Ancora oggi, il polpo è simbolo degli uomini che avvolgono la
società, dell’alta finanza che strozza e annichilisce i popoli senza
pietà, della mafia tentacolare che controlla il territorio, delle sette
occulte che cospirano minacciosamente. Gli ebrei, nonostante
aborrissero i cefalopodi perché impuri e immondi, sono stati sempre
paragonati a giganteschi polpi che con i tentacoli ghermiscono il
mondo. In Sardegna i pescatori chiamavano «pruppu bonu» o
«pruppu veru» il polpo verace, mentre «pruppu giudeu» quello rosso
e meno pregiato40. Nazisti e fascisti associavano gli ebrei alle piovre
che, mutando colore, erano capaci di confondersi tra la gente per
succhiarne il sangue e vivere alle spalle altrui. Gli ebrei divennero il
simbolo dell’anticristo, una minaccia per l’umanità da sopprimere
senza pietà. Piovra mostruosa e gigantesca era definita anche la
Massoneria che, tramite i tentacoli delle logge segrete, s’insinuava
nei gangli più importanti sino a controllare l’intero mondo. Alla fine
dell’Ottocento un giornale cattolico scriveva che la comunità dei
cristiani era simile a una nave assalita da un mostruoso cefalopode
dalla testa mostruosa, due occhi ciclopici in fronte e otto tentacoli
disseminati di ventose; la bestia, dopo averla avviluppata e stretta,
provava a capovolgerla e affogarla: questo «polpo gigante» era la
Massoneria41!
1. Ateneo, op. cit., VII, 316b, vol. II, p. 766.
2. Ivi, VII, 316b-317c, vol. II, pp. 766-769.
3. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345.
4. Eliano, Storie varie, I, Adelphi, Milano 1996, p. 33; Ateneo, op.
cit., VII, 516e, vol. II, p. 768. Cfr. Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp.
37-38.
5. Paolo Giovio, op. cit., p. 180.
6. Sigismondo Negrelli, Alcuni panegirici sacri, appresso Andrea
Poletti, Venezia 1707, p. 356.
7. Odissea di Omero tradotta da Ippolito Pindemonte, presso
Gaetano Schierati, Milano 1830, p. 102; Odissea, Einaudi, Torino
1995, vv. 432-440, pp. 152-153.
8. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 46; Cesare Ripa, Iconologia
nella quale si descrivono diverse imagini di virtù, vitij, affetti,
passioni humane, arti, discipline, humori, elementi, corpi celesti,
provincie d’Italia, fiumi, tutte le parti del mondo, ed altre infinite
materie, appresso gli Heredi di Matteo Florimi, Siena 1613, p. 99.
9. Giuseppe Virey, Storia dei costumi e dell’istinto degli animali
con una metodica e naturale distribuzione di tutte le classi, nella
tipografia di Pietro Bizzoni, Pavia 1826, p. 195.
10. Le opere di Buffon nuovamente ordinate ed arricchite della sua
vita ed un ragguaglio dei progressi della storia naturale dal
MDCCL in poi dal conte di Lacépéde, al negozio di libri all’Apollo,
Venezia 1824, pp. 353-358; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 7; 3334.
11. Le opere di Buffon, cit., p. 389.
12. Melchiorre Gioia, Esercizio logico sugli errori d’ideologia e
zoologia ossia arte di trar profitto dai cattivi libri, coi tipi di
Giovanni Pirotta, Milano 1824, pp. 204-205.
13. Emanuele Kant, Geografia fisica, dalla tip. di Giovanni
Silvestri, Milano 1808, vol. II, pp. 168-169.
14. Oppiano, op. cit., pp. 255-260. Cfr. Ulyssis Aldrovandi, op. cit.,
pp. 26-28; Nicolai Parthenii Giannettasi, Halieutica, ex officina
Jacobi Raillard, Neapoli 1689, pp. 61-63.
15. Antonino Mongitore, op. cit., p. 89.
16. Le opere di Buffon, cit., pp. 362-363; 381.
17. Giovanni Rho, op. cit., p. 639.
18. Eliano, op. cit., p. 33.
19. Oppiano, op. cit., p. 255; Cfr. Dizionario delle Scienze naturali,
vol. XVIII, Battelli e Comp., Firenze 1817, pp. 203-204.
20. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 349.
21. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Le opere di Esiodo,
Ferdinando Baret, Milano 1815, p. 74.
22. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Giovambattista De La
Porta, La fantesca, in Commedie di Giovambattista De La Porta
napoletano. L’olimpia, la fantesca, la tabernaria, la carbonara,
nella stamperia a spese di Gennaro Muzio, Napoli 1726, p. 37.
23. Publio Ovidio Nasone, op. cit., VIII, 738-878, pp. 331-339. Cfr.
Biografia universale antica e moderna. Parte mitologica, ossia
storia, per ordine d’alfabeto, de’ personaggi, de’ tempi eroici e
delle deità greche, italiche, egizie, indiane, giapponesi,
scandinave, celtiche, messicane, ecc., presso Gian Battista
Missiaglia, Venezia 1838, vol. II, pp. 8-9.
24. Giovanni Rho, op. cit., p. 635.
25. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 349.
26. Cesare Ripa, Iconologia overo descrittione di diverse immagini
cavate dall’antichità, & di propria invenzione, trovate e dichiarate,
Appresso Lepido Facij, Roma 1603, p. 232.
27. Abate D’Alberti di Villanuova, Dizionario universale critico
enciclopedico della lingua italiana, nella stamperia di Domenico
Marescandoli, Lucca 1797, t. I, p. 254. Cfr. Benedetto Frizzi, op. cit.,
p. 42. Cfr. Basilio Puoti, Vocabolario domestico napoletano e
toscano, dalla stamperia del Vaglio, Napoli 1850, p. 359.
28. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 10.
29. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 350; Giulio Cesare
Capaccio, op. cit., p. 13; Ferdinando Cospi, Museo Cospiano
annesso a quello del famoso Ulisse Aldrovandi, per Giacomo Monti,
Bologna 1677, p. 410; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 30-32.
30. Vincenzo Mirabella, op. cit., pp. 41-43.
31. Porfirio, op. cit., 22, p. 269. Cfr. Antonio Cocchi, Del vitto
pitagorico per uso della medicina, Napoli, Venezia, appresso
Simone Occhi, Napoli 1744; Vincenzo Corrado, Del cibo pitagorico
ovvero erbaceo per uso de’nobili e de’ letterati, Napoli, nella
stamperia dei fratelli Raimondi, Napoli 1781; Discorsi di Luigi
Cornaro intorno alla vita sobria. L’arte di godere della sanità
perfetta di Leonardo Lessio e discorso di Antonio Cocchi sul vitto
pitagorico, per Giovanni Silvestri, Milano 1841.
32. Giamblico, op. cit., 203, p. 467.
33. Giulio Cesare Capaccio, op. cit., p. 13.
34. Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, tip. di
Giovanni Cecchini, Venezia 1856, p. 278; Vincenzo Mortillaro,
Nuovo dizionario siciliano-italiano, Stamperia di Pietro Pensante,
Palermo 1853, p. 693.
35. Augusto di Platen, Storia del Reame di Napoli dal 1414 al 1443,
presso l’editore Alberto Dekten, Napoli 1864, p. 160; Giulio
Petroni, Del gran palazzo di giustizia a Castel Capuano in Napoli,
stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1861, p. 10.
36. Aurelio Angelo Bianchi-Giovini, La corte del papa. Memorie di
un carabiniere, tip. Sarda di Calpini e Cotta, Torino 1859, p. 104.
37. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 350; Sebastiano Erizzo,
Discorso sopra le medaglie de gli antichi. Con la dichiaratione
delle monete consulari, & delle medaglie de gli imperadori romani.
Nella qual si contiene una piena & varia cognitione dell’istoria di
quei tempi, appresso Giovanni Varisco & Compagni, Vinegia 1571,
p. 229.
38. Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si
scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche
sulle medesime degli Accademici Filopatridi, presso Giuseppe
Maria Porcelli, Napoli 1789, p. 51.
39. Bernardo Quaranta, Memoria sopra un licnuco pensile di bronzo
dissotterrato in Pompei, in Memorie della Reale Accademia
Ercolanese di Archeologia, dalla Stamperia Reale, Napoli 1856,
vol. VIII, pp. 281- 312.
40. Atti del Comitato Direttivo della Prima Esposizione Sarda,
Cagliari, tip. ed. dell’Avvenire di Sardegna, Cagliari 1872, pp. 139140.
41. Civiltà cattolica, Anno quarantesimoprimo, Alessandro Befani,
Roma 1890, vol. VII, p. 401.
Polpo mostro
La figura del polpo era molto apprezzata nel mondo antico:
l’animale campeggiava, infatti, su vasi, monete, quadri e gioielli1. In
bellissimi mosaici erano riprodotti octopus con lunghi tentacoli che
si libravano nell’acqua, aggredivano ostriche e aragoste,
combattevano con murene o erano attaccati dai delfini. In una moneta
di Taranto si scorge Nettuno a cavallo di un delfino che afferra con la
mano destra il tridente e con la sinistra un polpo; in un’altra medaglia
il dio del mare ha il polpo in una mano e nell’altra un delfino con una
conchiglia. In due monete di Siracusa, una di rame e una d’oro, su
una faccia è rappresentato un polpo e sull’altra la testa di una donna
velata2.
Il polpo non suscitava paura e ripugnanza, non era spaventoso né
terribile e gli studiosi ne rimarcavano il carattere solitario, timido e
pauroso. Aristotele scriveva che l’octopus possedeva otto braccia
con due filiere di ventose per mezzo delle quali assumeva il cibo e
che proprio grazie all’abitudine di gettare fuori dalla tana i gusci dei
piccoli bivalvi di cui si nutriva, i pescatori riuscivano a scovarlo.
Maschio e femmina si accoppiavano d’inverno avviluppandosi l’uno
all’altro e, durante la copula, il maschio deponeva il seme attraverso
un condotto detto «sifone». La femmina generava uova a grappoli in
primavera e rimaneva a covarle nella tana, difendendole fino alla
schiusa da possibili predatori3. Come gli altri cefalopodi, i polpi
avevano due denti vicino alla bocca e, in luogo della lingua una parte
carnosa con la quale gustavano i cibi. Dalla cavità orale partiva un
lungo esofago, cui faceva seguito un gozzo simile a quello degli
uccelli e, subito dopo lo stomaco, un intestino fino all’orifizio. Per
potersi difendere i molluschi avevano il cosiddetto «inchiostro»,
raccolto in una tasca membranosa, con la quale intorbidivano l’acqua
per farsene scudo. Se l’inchiostro della seppia era nero e abbondante
perché era unico strumento di difesa, il polpo schizzava inchiostro
rossastro in quantità minore, potendo utilizzare i tentacoli o cambiare
colore4. Aristotele notava che i cefalopodi, privi di sangue, erano
freddi e paurosi e, se spaventati, restavano immobili emettendo
«residui» e alcuni, come il polpo, erano capaci di mimetizzarsi5.
Nonostante le rassicurazioni degli esperti, alcuni scrittori del
mondo antico indicavano il polpo come uno degli animali più
pericolosi. Secondo Trebio Nigro non vi era pesce più spietato
nell’uccidere poveri naufraghi o nuotatori: li afferrava con le otto
braccia, li soffocava e li svuotava con le ventose6. Plinio racconta
che a Carteia un polpo usciva dalle acque per saccheggiare i pesci
salati conservati dai marinai in grandi vasche vicino alla costa. Non
sapendo chi fosse il ladro, i guardiani costruirono degli sbarramenti
intorno al fabbricato che l’astuto e vigoroso animale superava
salendo su un albero. Una notte, mentre ritornava al mare, il polpo fu
circondato dai cani e i pescatori capirono che fosse il ladro a causa
dell’orrendo fetore che emanava imbrattato com’era di salamoia. Di
dimensioni gigantesche, iniziò a colpire le bestie con i poderosi
tentacoli e a fatica fu ucciso con armi taglienti. La testa, mostrata a
Lucullo, aveva la grandezza di una botte capace di contenere 15
anfore, e i tentacoli, che a malapena si stringevano con entrambe le
braccia, erano lunghi 30 piedi e forniti di ventose grandi come catini
e della capacità di un’urna. I resti pesavano complessivamente 700
libbre7!
La storia del polpo che usciva dalle acque e passeggiava
indisturbato nei villaggi era un topos utilizzato da diversi autori.
Eliano, ad esempio, narra che a Pozzuoli un gigantesco polpo,
penetrando attraverso una condotta sotterranea usata per scaricare in
acqua l’immondizia, saccheggiava le derrate dei magazzini di alcuni
mercanti iberici. I pescatori che si accorsero del furto, non sapendo
spiegare l’accaduto – la porta del fabbricato non era forzata, né le
mura erano sfondate – decisero di nascondersi per sorprendere il
ladro. La notte seguente, un guardiano vide arrivare nel magazzino un
polpo gigantesco che, rotti i vasi con i tentacoli, si mise a divorarne
il contenuto. Terrorizzato dal mostruoso animale, l’uomo non lo
affrontò ma raccontò l’accaduto ai compagni che decisero di
appostarsi in gruppo il giorno seguente: quando il polpo entrò nei
magazzini, serrarono la condotta e con falci e coltelli, a guisa di
potatori di vitigni, tagliarono i tentacoli e uccisero l’animale8.
Gli scrittori erano concordi nell’affermare che il polpo dalla fame
insaziabile spesso usciva dalle acque per arrampicarsi sugli alberi
d’ulivo e cogliere i frutti di cui era particolarmente ghiotto. Oppiano
racconta che l’octopus camminava spavaldamente, si avvinghiava
all’albero di Minerva, mangiava avidamente tutte le olive e, una
volta satollo, tornava soddisfatto nelle acque. Era così goloso
d’olive che bastava immergere un ramo della pianta nelle acque dove
pascevano per tirarne su diversi aggrappati al ramo9. Ateneo
conferma che i polpi uscivano spesso dal mare ed era possibile
vederli avvinghiati agli ulivi mentre, con i lunghi tentacoli,
raccoglievano i frutti10. Clearco, invece, sosteneva che i polpi
fossero particolarmente ghiotti di fichi e che d’estate fosse possibile
vederli impegnati a raccoglierli dagli alberi vicino al mare11.
Questi racconti furono confermati da altri scrittori nei secoli
seguenti. Il polpo, spinto da una fame insaziabile, si recava sulla
terra e Dicquemare lo vide addirittura uscire dalle finestre,
arrampicarsi sulle muraglie e salire sopra i tetti per far razzie12.
Giovio scriveva che il polpo se ne stava sugli scogli a prendere il
sole e spesso, spinto dalla sua voracità, si trascinava lungo il
litorale, saccheggiava le piante ed entrava nelle case per razziare le
dispense13. Serpetro annotava che i polpi si saziavano di tutto ciò che
trovavano sottomano e, spesso, si arrampicavano sugli alberi da
frutto o, attratti dall’odore, si avvicinavano ai pescatori impegnati ad
arrostire pesci sulla spiaggia14.
Nell’Ottocento, in un trattato sui cefalopodi, il naturalista francese
Pierre Denys de Monfort, riportò diversi racconti su polpi mostruosi
che aggredivano e affondavano le navi. Lo spunto della poderosa
ricerca sembra sia stato un dipinto conservato in una chiesa di SaintMalo. Il quadro ritraeva la lotta tra la ciurma di una nave e un
gigantesco mostro ed era stato commissionato dagli stessi marinai
come ex voto per essere scampati alla terribile avventura. Il polpo
colossale descritto dallo studioso era un animale malefico con
un’attitudine alla distruzione ma, ancora più spaventoso, era il
kraken o «pesce montagna», l’essere più maestoso della terra. Lungo
centinaia di metri, dotato di tentacoli più grossi degli alberi di una
nave e coperto da alghe marine, era spesso scambiato dai naviganti
come una piccola isola galleggiante. Polpi giganteschi e kraken erano
stati avvistati in alcune parti del mondo tanto che viaggiatori e
marinai raccontavano di essere sfuggiti miracolosamente alle loro
grinfie miracolosamente o dopo battaglie estenuanti15.
Denys de Montfort fu deriso dai colleghi per i suoi racconti e lo
stesso Kant muoveva seri dubbi sull’esistenza del kraken, essere
mostruoso della lunghezza di un quarto di miglio che con braccia
grandi come tronchi trascinava i navigli negli abissi16. Alcuni
studiosi, definendo racconti «favolosi» le testimonianze sui polpi
grandi come cetacei e capaci di rovesciare una nave, precisavano
che in mare vivevano solo alcuni polpi abbastanza grandi da
avvolgere un uomo con i tentacoli17. I racconti di pescatori e marinai
su polpi dalla dimensione di un’isola erano certo delle
farneticazioni, ma le narrazioni del naturalista francese influenzarono
così diversi scrittori che persino in alcuni dizionari scientifici era
possibile leggere che negli oceani vivevano kraken spaventosi e di
smisurata grandezza18.
Non sappiamo se Denis de Montfort credesse all’esistenza dei
polpi montagna ma, secondo Lessona, si divertiva pensando alla
credulità dei lettori. «Se il mio kraken è preso sul serio», diceva a un
amico, «la prossima volta lo metterò con i piedi che toccheranno
dall’una all’altra sponda dello stretto di Gibilterra»; ad un altro
compagno confessava che se i lettori si erano convinti dell’esistenza
del polpo colossale che avvolgeva un bastimento, nella seconda
edizione gli avrebbe fatto avvinghiare un’intera flotta19.
Polpi, kraken e piovre affascinarono tuttavia alcuni romanzieri
francesi che raccontarono storie avvincenti e fantastiche. Michelet
scriveva che i polpi non uccidevano per nutrirsi ma per il solo
desiderio di distruggere ed erano talmente potenti da mettere in
pericolo la stessa natura20. Hugo narrava la terribile lotta tra Gilliat e
un polpo che chiamava «piovra», una bestia ripugnante che
rappresentava la somma di tutti gli orrori, testimonianza negativa del
dio creatore, la prova dell’esistenza di Satana21. Verne descriveva la
lotta del capitano Nemo contro un misterioso mostro marino
somigliante a un polpo che affondava le navi con gli immensi
tentacoli22. Il Conte di Lautréamont scriveva che il polpo Maldoror
era così maestoso da abbracciare con i tentacoli un pianeta23. Dumas
annotava che polpi antidiluviani infestavano le acque del
Mediterraneo, avvolgevano gli uomini facendo loro subire le pene
dell’inferno e, pericolosi quanto i serpenti di mare, attaccavano e
affondavano le navi con le loro lunghe braccia armate di ventose24.
Questi autori descrivono il polpo come un essere votato alla
carneficina e all’annientamento, la minaccia più grande per gli
uomini costretti a frequentare il mare. Il fatto che l’octopus fosse
lontano dal loro orizzonte culturale, secondo Caillois ha facilitato le
fantasticherie dei francesi. Racconti di polpi giganteschi che
avvolgevano grandi vascelli, di pescatori che tagliavano con le asce
i tentacoli o di marinai che li infilzavano con arpioni in un mare nero
e tempestoso, attraevano l’attenzione del pubblico. Da sempre
considerato più commestibile che temibile, il polpo, grazie alla
fervida immaginazione, fu trasformato in un mostro capace di
suscitare un orrore iperbolico25. Il polpo innocente e ornamentale, a
volte prudente e a volte sensuale, presentato da alcuni scrittori
antichi, lasciava il posto a un mostro gigantesco, espressione del
male assoluto, protagonista della nuova mitologia popolare.
Questo mollusco fu improvvisamente oggetto di un’attenzione
sproporzionata in quanto dotato di caratteristiche capaci di agire
sull’immaginazione con eccezionale efficacia. Il successo che il
polpo ebbe tra i lettori dei romanzi di Hugo, Verne, Dumas non era
accidentale, era come se la sua figura dormisse nell’immaginazione
umana e aspettasse il momento di venire a galla26. Secondo Caillois,
uno degli aspetti del polpo capace di stimolare la fantasia dei
romanzieri e dei lettori, era lo sguardo commovente o terribile. Gli
occhi umani del mollusco, nei quali ognuno vedeva a piacere
inquietudine o ferocia, tristezza o fermezza, esercitavano una forte
seduzione. Il polpo sembrava essere una sorta di Medusa con occhi
profondi in grado di pietrificare e ipnotizzare le vittime27. Con la
testa incappucciata e lo sguardo penetrante ricordava il torturatore di
una setta misteriosa, grazie ai tentacoli a raggiera somigliava a un
anemone carnivoro che minacciosamente si apriva e si chiudeva, la
sua pelle vischiosa lo rendeva simile a un ragno le cui zampe
costituivano la ragnatela, con le orride ventose sembrava un essere
vellutato bevitore di sangue umano28.
Per Caillois, il polpo rispondeva positivamente alle sfide
titaniche che pervadevano i sentimenti di molti romantici
dell’Ottocento. La nuova sensibilità spingeva a considerare con
occhio avido quell’animale sconosciuto e a estasiarsi davanti alla
sua maestosa ripugnanza: era una figura bestiale e primigenia, figlia
del male e del demoniaco contro cui combattevano eroi animati da
grandi ideali e spirito di sacrificio.
Le osservazioni di Caillois sono giuste ma il kraken non è
un’invenzione dell’Ottocento. Lessona scriveva che poeti e filosofi
antichi consideravano l’octopus un animale piacevole, elegante,
leggiadro, grazioso e intelligente ma altri lo avevano descritto come
un essere spaventoso e malefico che ispirava orrore e ribrezzo29.
Nelle leggende dei villaggi marini il polpo è stato sempre
considerato come un animale cattivo e solo in una si mostra amico
dell’uomo. Si narra che a Tellaro, un borgo fortificato del golfo di La
Spezia, quando nel 1660 di notte i saraceni stavano per sbarcare
sulla costa, un gigantesco polpo uscì dalle acque, si arrampicò lungo
il campanile e con i tentacoli suonò energicamente le campane della
chiesa di San Giorgio per svegliare gli abitanti.
Lessona ricordava che menzionando uno di questi animali feroci,
Plinio sosteneva che pesasse 350 chilogrammi, avesse braccia
lunghe dieci metri e una testa grande come una botte di quindici
anfore. Olao Magno raccontava le gesta di un polpo colossale lungo
almeno un miglio e Bartolino riferiva che il vescovo di Nidaros
aveva confuso uno di questi giganteschi animali con un’isola e,
improvvisato un altare, vi aveva celebrato sopra addirittura la
messa. Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, sosteneva che vi erano
kraken talmente grandi che sul dorso avrebbe potuto manovrare un
reggimento di soldati, mentre Sonnini narrava di un cefalopode che
con i tentacoli aveva avvolto con facilità un bastimento30.
Polpi giganteschi e malefici che emergevano silenziosamente dagli
abissi e avvinghiavano i bastimenti in una stretta fatale con i tentacoli
armati da formidabili ventose, furono descritti anche prima
dell’Ottocento. Nel Seicento, Buondelmonte scriveva che, di fronte
all’isola di Santorini, aveva visto un polpo afferrare una nave
genovese che riuscì a sfuggire dalla morsa dei tentacoli solo grazie
al forte vento. Pochi giorni dopo, tuttavia, cinque galee veneziane di
ritorno da Baruti furono rovesciate da quel cefalopode smisurato e
fortunosamente la gran parte dei marinai riuscì a salvarsi31. Albmair
annotava che nel mare vivevano polpi con una tale forza da prendere
un marinaio dalla nave, trascinarlo in mare e saziarsi delle sue carni.
Nessuno poteva liberarsi dai loro abbracci mortali, si staccavano
dalla preda solo se gli si lanciava «qualche cosa fetida» perché non
sopportavano certi odori32. Nel Settecento, un sacerdote della
Compagnia di Gesù, scriveva che, «animalazzo» ingordo, il polpo
grazie alla continua crapula cresceva a tal punto da rovesciare grandi
vascelli; diversi testimoni ne videro uno nei pressi dell’isola di Rodi
ribaltare senza sforzo una «peota» veneziana33. Kossin, affermava
che nel mondo animale non vi erano esseri più crudeli e più forti dei
polpi: quelli di grandi dimensioni a volte si accostavano
silenziosamente alle navi e, servendosi dei lunghi tentacoli,
avvinghiavano i poveri marinai per poi trascinarli negli abissi e
farne banchetto34. La nave del capitano napoletano Daniele
Montagna, diretta verso la Catalogna, fu attaccata da un polpo di
grandezza inaudita. Durante la notte, l’animale, dopo essersi
«aviticchiato» sotto la chiglia, afferrò undici uomini dell’equipaggio
trascinandoli in mare. I marinai si armarono e la notte seguente,
quando il mostro ritornò alla carica, gli recisero un tentacolo che fu
fatto a pezzi e distribuito in porzioni di quattro «onzie» ai duecento
uomini del vascello. Montagna per sfuggire al mostro spinse la nave
verso la costa ma il polpo ferito restò minacciosamente al largo ad
aspettarla. Il capitano, fece innescare un pesce porco a una piccola
ancora gettandola nelle acque. L’octopus gigantesco, inghiottì l’esca
con ingordigia e venti marinai impiegarono più di un’ora per tirarlo
con l’argano a bordo. La ciurma mangiò per dodici giorni le sue
carni e ciò che rimase fu messo sotto sale in quattrocento barili35. Il
conte di Lacépéde raccontava la lotta tra polpo gigante e balena,
signori dei mari: il primo, con le otto braccia così lunghe da formare
un recinto di oltre duecentocinquanta piedi, attaccava con temibili
assalti e con la rapidità di un lampo, la balena a volte riusciva a
metterlo in fuga con i colpi dell’enorme coda36.
Alcuni esseri viventi, per l’apparenza o per il comportamento,
stimolano l’immaginazione umana, inducono sogni e fantasticherie,
suscitano ripugnanza e terrore, ispirano favole complesse e
immaginifiche37. In ogni epoca il polpo ha rappresentato il simbolo
di un mondo oscuro che spaventa e affascina l’umanità. Con la testa
simile a un cappuccio, occhi profondi e tentacoli come braccia
umane, l’octopus di grandi dimensioni e forme repellenti emergeva
dalle acque, avvolgeva navi e divorava marinai. Era un mostro
feroce, sanguinario e terrificante, un essere immane che
rappresentava la completezza assoluta del male. Il polpo mostruoso
confermava la radicata convinzione dell’esistenza nel mare di esseri
infernali dotati di potenza smisurata che aggredivano, soffocavano e
risucchiavano gli uomini nelle profondità degli abissi.
Gli equipaggi delle navi, sorpresi dalle tempeste, rimanevano
paralizzati dalla forza immensa e oscura delle acque, perdendo il
controllo di sé e della realtà38. La violenza e i pericoli del mare
contribuirono in maniera decisiva all’invenzione di creature orribili
come il «kraken»: frustrati dalle lunghe giornate di navigazione,
frastornati dai cocenti raggi del sole, spaventati dalle onde
gigantesche e dal cielo nero, i marinai materializzavano le paure in
mostri orribili. Il contatto con l’abisso faceva riaffiorare angosce
primordiali che producevano narrazioni popolari in cui la realtà era
distorta e trasformata in mito.
Albmair nel 1668 redigeva un lungo elenco di mostri marini
descrivendone caratteristiche e abitudini. Il robusto Bue del mare era
talmente iracondo e violento da uccidere le sue femmine; il vorace
Abune nascondeva la testa dentro il corpo e, se tormentato dalla
fame, si nutriva delle proprie carni; la Martora marina aveva denti
così potenti da spezzare grandi pietre in mille briciole; il Chaab era
maestoso, senza ossa e con piedi simili alla vacca; il feroce
Equiuolo, con gambe e unghie come il coccodrillo, sfondava le navi
facendole affondare; il mostro Cavallo, dalla lunga chioma, i piedi di
mucca e la coda di porco, viveva sia in acqua che in terra; le
Nereidi, bestie irsute e ispide, ridevano e piangevano come gli
uomini; il Pister era il terrore dei marinai perché vomitava sui
vascelli grandi quantità d’acqua facendoli affondare; la Scilla dai
denti orribili, il ventre bestiale e la coda di delfino, si nutriva
unicamente di carne umana; l’orrido Zidrac aveva il capo di un
destriero, il corpo di un dragone e la coda di serpente; il Soldato del
mare teneva in testa un elmetto di pelle rugosa, al collo appeso un
grande scudo, il corpo coperto di squame che resistevano agli
archibugi e mani con cui colpiva violentemente; il pesce Serra,
nuotando silenziosamente sotto le navi, le segava per affondarle e
saziarsi dei marinai; le Sirene dal ventre in su erano donne, il corpo
come le aquile, la coda di pesce e i piedi con unghie acute per
lacerare le carni dei poveri marinai addormentati dal loro dolce
canto; il crudele Dragone marino aveva il capo piccolo rispetto al
corpo ma con una bocca orribile con cui lacerava gli uomini; la
Loligine viveva nelle profondità delle acque ma grazie alle sue
grandi ali andava a volare con gli altri uccelli; il Monoceronte aveva
un corno al centro della testa col quale forava le navi facendole
inabissare39.
Alcuni «mostri», come i feroci pescecani e le orche marine, erano
reali. Swinburne nel Settecento scriveva che i mari calabresi erano
continuamente attraversati da branchi di orche marine. Di notte i
pescatori calavano in mare canestri di rami di mirto intrecciati ma le
orche, con i robusti denti, le distruggevano per divorare i pesci e,
come aveva appreso da fonti attendibili, spesso avanzavano sulla
riva mangiando perfino l’uva che cresceva vicino alle spiagge40.
Stolberg scriveva che a Scilla la lotta tra i «cani di mare» e i pesce
spada era incessante. Un giorno le onde avevano scaraventato sulla
spiaggia uno xiphias gladius e uno carcharodon carcharias: il primo
aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la spada e a
nuotare liberamente, era morto insieme a lui41. Per De Tavel non
bisognava assolutamente immergersi nel mare di Calabria perché le
acque erano infestate da pescecani che strappavano gambe e braccia
agli incauti bagnanti42.
Numerosi sono i racconti sugli squali mangiatori di uomini. Il 20
agosto 1649 gli equipaggi dell’Armata reale diretti a Napoli,
passando vicino al faro di Messina, videro un mostro marino che si
avventava con ferocia sui corpi di alcuni uomini che galleggiavano.
Secondo alcuni era una «canesca» lunga almeno quindici passi e
larga cinque, con testa spaventosa, occhi sanguinosi e denti
acutissimi a guisa di coccodrillo. Arrivati a Napoli i marinai
appresero che probabilmente lo stesso mostro avesse divorato alcuni
pescatori di Pozzuoli, due giovani intenti a raccogliere frutti di mare
vicino alla Conciaria e tre persone vicino al mare di Chiaia. Dopo
diversi colpi di moschetto e di cannone, la «canesca» era riuscita a
sfuggire grazie alla sua rapidità e la gente di mare, ormai sfiduciata e
arresa, pregava chiedendo un intervento del Padre Eterno43. Nel
giugno del 1721, fu aggredito e divorato da un pescecane un uomo
che pescava molluschi nel mare del Ponte della Maddalena. Il 6
giugno, dopo una faticosissima caccia, i marinai lo circondarono con
alcune barche e lo catturarono. Il canis carcharias, lungo 20 palmi e
dal peso di 12 cantaia, nel ventre aveva una testa umana,
probabilmente quella del giovane pescatore. Il mostro fu sotterrato
astenendosi dal consumarne le carni dato che si nutriva di esseri
umani ma gli furono estirpati i denti aguzzi perché erano utilizzati
come amuleti per preservare i fanciulli dalla paura e per far passare
il mal di denti44.
Le leggende sui mostri nascevano anche perché molte specie di
pesci o mammiferi marini erano sconosciute agli stessi pescatori45. Il
17 gennaio 1724, nel golfo di Napoli, fu catturato un essere
mostruoso con «peli di mostaccio» capace di camminare e vivere
fuori dall’acqua. Secondo una dettagliata relazione, la creatura era
giunta nel golfo partenopeo dai mari del Nord, perché allettata
dall’esca di «umani cadaveri» gettati dai vascelli. Per ammirare tale
«meravigliosa curiosità» accorsero aristocratici e alti prelati tra cui
il cardinale viceré con la sua corte. Qualcuno ipotizzò che si trattasse
di un pesce che i caldei chiamavano «dio dabut», i greci «labor», i
romani «tigre marina» e Plinio «foca»46.
Lacépède scriveva che l’immaginazione dell’uomo volgare
chiedeva con impazienza di pascersi della vista e della descrizione
di esseri strani e meravigliosi e ciò spingeva alcuni editori a
pubblicare ridicoli e bizzarri racconti di pesci mostruosi47. A volte
questi animali straordinari erano equipaggiati con oggetti prodotti
dall’uomo. Nella Città del Sole, l’Ammiraglio raccontava al Gran
Maestro che sulle pareti esterne del terzo girone vi erano dipinti il
pesce Vescovo, Catena, Corazza, Chiodo, Stella e altri meravigliosi
esseri marini48. Bernardino Moretti scriveva che il 19 luglio 1623
nelle acque della Vistola era stato avvistato un pesce lungo 35 piedi,
con orride squame, la faccia umana, una croce in bocca, una corona
sul capo, un cannone sulla schiena e spade, pistole, stendardi e
alabarde sul corpo49! Moretti forniva un dettagliato disegno
dell’animale marino identico a un altro presente in un opuscolo che
raffigurava un pesce preso nei pressi del golfo di Salerno il 16 aprile
1730! Nella relazione si legge che il mostro era stato catturato con
grande fatica e aveva vissuto per ben quindici giorni fuori
dall’acqua. L’orrendo pesce, di smisurate dimensioni, aveva scaglie
così grandi e dure da non essere scalfite neanche dai colpi di
schioppo. Lungo dodici braccia e mezza, aveva la testa umana, una
corona sul capo, una croce in bocca, un collare da schiavo, un
cannone sulla schiena, la coda quadrata, le zampe d’aquila e, sul
dorso, un teschio, una spada, tre pistole, un’alabarda e due bandiere
con differenti lettere50!
Le narrazioni su polpi giganteschi e voraci, erano funzionali alla
società poiché rinsaldavano la coesione sociale, rafforzavano la fede
e dettavano regole a cui tutti dovevano sottomettersi. La minaccia del
kraken volgeva un conflitto interno verso l’esterno, allentava la
tensione, riaffermava l’ordine vigente e rendeva visibili i valori
comunitari. Il mito del polpo feroce e gigantesco era una narrazione
apparentemente debole dal punto di vista della logica ma efficace
per fornire un aspetto naturale a un’ideologia. Con le sue forme
repellenti, il kraken rappresenta il passaggio dall’animalità
all’umanità, la fase primordiale, mai superata e dominata dagli istinti
bestiali, nella quale gli uomini, per mancanza di regole, possono
precipitare in qualsiasi momento. L’immagine del mostro è ciò che
sta negli abissi, pronto a riemergere per riportare il disordine, la
bestia non ancora domata, il caos che si ripropone di nuovo e che
può avere il sopravvento sul cosmo.
Il kraken è funzionale alla società: rappresentando la deformità, le
comunità sanzionano la normalità, creando il disordine sanzionano
l’ordine. Mettendo in discussione l’ordine esistente, il polpo
mostruoso spinge la società a riorganizzarsi; l’unità sociale non può
prescindere dal suo contrario: la luce del giorno prevede la notte, la
normalità presuppone la mostruosità, il disordine giustifica l’ordine.
In latino monstrum significa «prodigio», qualcosa fuori del comune e
la parola si lega ai verbi monere, ammonire e monstrare, indicare
una via da non seguire51. Il kraken costituiva la proiezione mitologica
di paura, terrore e morte, l’immagine dell’alterità e del mondo
sotterraneo, una costruzione complessa per addomesticare quella
parte del mondo ostile e per espellere il terrore oltre i confini della
comunità.
Il polpo gigantesco e la società sono due universi distinti e
separati ma con profonde relazioni, il loro rapporto somiglia molto a
quello tra il ricamo e il rovescio. Capovolgendo l’immagine nitida
della figura ricamata, se ne vede un’altra senza forma, fatta di fili che
s’intrecciano disordinatamente; ma in quella figura aggrovigliata ci
sono molti elementi che la uniscono a quella nitida e creano un forte
legame tra le due immagini. Nel ricamo ogni filo che si unisce ad
altri per creare contorni nitidi e pieni di significato, corrisponde a
fili che s’intrecciano ottenendo figure senza forma e senza
significato. Per essere chiara la figura ha bisogno di quel groviglio di
fili, della sua profondità, di ciò che le dà la forza d’essere tale:
quando quei fili in qualche modo si spezzano, anche la figura del
ricamo perde chiarezza, il groviglio senza forme che sta sul rovescio
rappresenta la vera forza ed essenza del ricamo.
Ogni ordine nasce dal disordine: la società ha un rovescio, un
mondo caotico e magmatico da cui ricava sicurezze e sapienza;
dietro la cultura «chiara» che caratterizza la vita degli uomini ce n’è
una nascosta che le dà forza, ci sono miti da cui ricava certezze. Il
trascendente è avvertito come diverso e misterioso, ma in realtà è
parte della vita quotidiana; il mostro mette in discussione la società
ma ne è anche il riflesso, rende visibili sentimenti spesso celati ma
centrali nella cultura e che contribuiscono alla coesione. Il mostro
riflette la società e la società riflette il mostro, l’uno non può stare
senza l’altra; apparentemente la società nega i valori del mostro ma
in realtà lo porta in grembo e se ne serve per trovare conferma ai
propri valori.
Il kraken segna il confine che non può essere valicato, la linea che
taglia due mondi inconciliabili. La sua immagine non deve essere
troppo lontana, altrimenti la sicurezza interna e l’ordine
rischierebbero di andare in frantumi. Il mostro mette in discussione
le regole che si è data la collettività e genera instabilità; così facendo
legittima l’ordine esistente e ricorda agli uomini un tempo remoto
privo di ordine. Per difendere norme e tradizioni, la società dà un
volto a ciò che maggiormente la minaccia: orrore e mostruosità non
sono sconfitti nella comunità ma localizzati e posti in un luogo
sicuro.
1. Roger Caillois, La piovra, Franco Maria Ricci, Milano 1975 p.
21.
2. Le opere di Buffon, cit., p. 453; Ulyssis Aldrovandi, op. cit., p.
36. Cfr. Mariangela Puglisi, Il simbolismo del polpo, in Caccamo
Caltabiano M., Castrizio D., Puglisi M. (a cura di), La tradizione
iconica come fonte storica. Il ruolo della numismatica negli studi
di iconografia, in Atti del I Incontro di Studio del Lexicon
Iconographicum Numismaticae (Messina, 6-8 marzo 2003), Falzea
Editore, Reggio Calabria 2004, p. 159; Francesco De Dominicis,
Repertorio numismatico per conoscere qualunque moneta greca
tanto urbica che dei re e la loro respettiva stima, tip. Varà, Napoli
1826, t. I, p. 481.
3. Ateneo, op. cit., VII, 316e-317c, vol. II, pp. 767-770.
4. Aristotele, Parti degli animali, in Opere, Laterza, Roma-Bari
1973, vol. II, pp. 801-803. Cfr. Hippolyto Salviano, Aquatilium
animalium historiae, Romae, s.e., 1554, pp. 159-164; Gulielmi
Rondeletii, Libri de piscibus marinis, in quibus verae piscium
effigies expressae sunt, Lugduni, apud Matthian Bonhomme, 1554,
pp. 513-519; Joannes Jonstonus, Historiae naturalis de exanguibus
acquaticis, in Historiae naturalis de piscibus et cetis, Impensa
Matthei Meriani, Francofurti ad Moenum 1649, libro V, pp. 5-9;
Ulyssis Aldrovandi, op. cit., pp. 3-5; 9-17; 22-23; Stefano Delle
Chiaie, Animali invertebrati della Sicilia Citeriore osservati vivi
negli anni 1822-1830, stab. tip. di C. Batelli e comp., Napoli 1841,
pp. 1-7.
5. Aristotele, Parti degli animali, cit., p. 732. Cfr. Hippolyto
Salviano, op. cit., pp. 159-164; Gulielmi Rondeletii, op. cit., pp.
513-516.
6. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345.
7. Ivi, p. 349.
8. Memorie della Regale Accademia Ercolanese di Archelogia,
nella Stamperia Reale, Napoli 1856, vol. VIII, pp. 304-305.
9. Oppiano, op. cit., pp. 362-365. Cfr. Gio. Battista Della Porta,
Della magia naturale, appresso Antonio Bulifon, Napoli 1677, p.
440; Carlo Gregorio Rosignoli, op. cit., p. 20.
10. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769. Cfr. Torquato Tasso, I
dialoghi, Le Monnier, 1859, Firenze p. 423.
11. Ivi, p. 770.
12. Le opere di Buffon, cit., p. 375.
13. Paolo Giovio, op. cit., p. 180.
14. Nicolò Serpetro, Il mercato delle maraviglie della natura, overo
istoria naturale, per li Tomasini, Venetia 1653, p. 340.
15. Pierre Denys de Montfort, op. cit., pp. 548-567.
16. Emanuele Kant, op. cit., pp. 165-184.
17. Alphonse Chevallier, Achille Richard, Dizionario delle droghe
semplici e composte o nuovo dizionario di storia naturale medica,
di farmacologia e di chimica farmaceutica, ed. tip. Girolamo Tasso,
Venezia 1831, t. IV, p. 285.
18. Dizionario delle scienze naturali, Battelli e Comp., Firenze
1817, vol. XVIII p. 204.
19. Michele Lessona, La Pieuvre. Cenni intorno ai cefalopodi,
Tommaso Vaccarino, Torino 1867, p. 35.
20. Jules Michelet, La mer, Hachette, Paris 1861.
21. Victor Hugo, Le travailleurs de la mer, Lacroix, Paris 1866.
22. Jules Verne, Vingt mille lieues sous les mers, Hetzel, Paris 1870.
23. Lautréamont, Les chants de Maldoror, Blanchetiére, Paris 1927.
24. Alexandre Dumas, Grand dictionnaire de cusine, Alphonse
Lemerre Editeur, Paris 1873, pp. 388-394.
25. Roger Caillois, op. cit., p. 128.
26. Ivi, p. 99.
27. Ivi, pp. 182-188.
28. Ivi, pp. 213-220. Cfr. Alfredo Cattabiani, Simboli miti credenze
e curiosità sugli esseri delle acque, Mondadori, Milano 2002.
29. Michele Lessona, La Pieuvre. Cenni intorno ai cefalopodi, cit.,
pp. 7-8.
30. Ivi, pp. 34-35.
31. Thomaso Porcacchi da Castiglione, Le isole più famose del
mondo, appresso Paolo et Francesco Galignani, Padova 1620, p.
120.
32. Teodoro Albmair, op. cit., p. 206.
33. Ferdinando Zucconi, Lezioni sopra la Sacra Scrittura, Firenze,
per Michele Nestenus, Firenze 1702, t. II, p.120.
34. Dionisio Kossin, L’eroismo ponderato nella vita di Alessandro
il Grande, illustrata con discorsi istorici, politici e morali, per
Paolo Monti, Parma 1716, p. 510.
35. Verissima, e distinta relazione d’un spaventoso mostro marino
ritrovato il mese caduto l’anno presente nell’acque di Cadiz dal
capitan Daniel Montagna da Napoli, e si ritrova presente a Corfù e
in breve verrà in Venezia. Nella quale s’intende la morte di undici
uomini uccisi nella sua nave, ed altri danni, appresso Gio. Battista
Occhi, Venezia 1764.
36. Etienne Lacépède, Le avventure del gigante del mare rinvenuto
morto ne’ primi giorni di maggio 1827, presso Otranto, città del
Regno di Napoli, dalla tip. di Angelo Trani, Napoli 1827, pp. 36-37.
37. Ivi, pp. 13-14.
38. Cfr. Laura Sannia Nowé, Maurizio Virdis (a cura di), Naufragi,
Atti del Convegno di Studi, Cagliari 8-9-10 aprile 1992, Bulzoni,
Roma 1993.
39. Teodoro Albmair, op. cit., pp. 202-212.
40. Henry Swinburne, Viaggio in Calabria (1777-1778), Effe Emme,
Chiaravalle Centrale 1977, p. 139.
41. Friedrich Leopold von Stolberg, Viaggio in Calabria,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1986, p. 30.
42. Duret De Tavel, Lettere dalla Calabria, Rubbettino, Soveria
Mannelli 1985, p. 102.
43. Il nuovo racconto dello spaventevol mostro, detto canesca, ò
drago marino del Faro di Messina, dove s’intende le rovine,
occisioni, e devoramenti d’huomini, che hà fatto, e fà giornalmente
in Napoli, li 20 agosto 1649, nella stamperia del Grignani, Roma
1649.
44. Distinta relazione del mostruoso pesce preso da’ pescatori
napolitani nella spiaggia detta il Ponte della Maddalena il dì 6.
Giugno 1721, per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi,
Napoli & Bologna 1721.
45. Massimo Centini, Mostri marini. Creature misteriose tra mito,
storia e scienza, Magenes, Milano 2016; Armand Landrin, Les
monstres marins, Librairie Hachette, Paris 1875.
46. Relazione del meraviglioso pesce condotto da Napoli a Roma e
del modo come fu preso, e delle sue virtù, che possiede in se
medesimo, il quale si vede vivo con ammirazione universale, nella
stamperia dell’App. Gen. della Carta, Livorno 1724.
47. Etienne Lacépède, Le avventure del gigante del mare rinvenuto
morto ne’ primi giorni di maggio 1827, presso Otranto, città del
Regno di Napoli, dalla tip. di Angelo Trani, Napoli 1827, p. 106.
48. Tommaso Campanella, La città del sole, tip. di G. Ruggia e C.,
Lugano 1836, p. 10. Cfr. Giovanni Botero, op. cit., p. 50.
49. Il tremendissimo prodigio d’un pesce che è stato preso nel
fiume Istola, che sempre corre torbido, vicino alla nobilissima città
di Varsavia dove risiede la Maestà del re di Polonia, alle Scale di
Badia, Venetia-Firenze 1624.
50. Distinta relazione del mostruoso pesce ritrovato nel porto di
Salerno. Al di 16. aprile 1730, il Sardi, Salerno & Padova 1730.
51. Corrado Bologna, Mostro, in Enciclopedia, Einaudi, Torino
1980, vol. IX, p. 562. Cfr. Georges Balandier, Il disordine. Elogio
del movimento, Dedalo, Bari 1991.
Polpo archetipo
Jung sostiene che gli archetipi sono contenuti psichici
dell’inconscio collettivo, rappresentazioni comuni, immagini
universali presenti sin dai tempi remoti1. Il polpo gigantesco è un
archetipo, espressione di modelli culturali inconsci che resiste
tenacemente all’usura del tempo. Il suo mito rimanda a una realtà
primordiale, un patrimonio carico di significati profondi; la sua
immagine, inscritta nell’architettura dello spirito umano, è una
proiezione simbolica di ricordi antichissimi già fissati dalla
coscienza collettiva.
Il polpo è una figura prototipica che concerne le origini stesse
dell’umanità, una rivelazione originale della psiche preconscia della
coscienza umana che non ha bisogno di essere spiegata e che ha
contenuti uguali per tutti gli individui. È un’immagine archetipica che
riflette lo spirito formatosi in un’epoca in cui l’uomo era meno
soggetto a condizionamenti del pensiero conscio, in cui la
conoscenza era frutto soprattutto della percezione, in cui il senso era
legato alla forma e il significato s’identificava col significante. È un
simbolo prodotto in un mondo preistorico nel quale la mente umana
si esprimeva non tramite il pensiero astratto ma tramite figure che
inglobavano forma e contenuto.
Il polpo gigantesco è una forma d’espressione simbolica remota,
un modello che nel corso del tempo si è frammentato conservando
nelle continue scissioni una struttura solida; presente nella memoria e
nell’inconscio degli uomini, produce emozioni non molto diverse da
quelle del passato. È una figura mitica che si sottrae ai
condizionamenti storici e non si lascia rinchiudere nelle gabbie di
tempo e spazio: un’esperienza immaginaria che è stata vissuta nel
passato, è vissuta nel presente e probabilmente sarà vissuta nel
futuro. Gli esseri mostruosi dalla forma di polpo variano da un luogo
all’altro e nel corso del tempo ma il disegno centrale rimane
inalterato: feroci più di qualunque animale, divorano gli uomini
ricorrendo a forza, seduzione e inganno, sono orribilmente grandi,
dimorano negli abissi e sembrano voler difendere un luogo che
separa il mondo conosciuto da quello sconosciuto.
Il kraken rappresenta la narrazione della creazione, di ciò che è
accaduto quando il mondo era caratterizzato dalla lotta tra esseri
primordiali, una forza ctonia che desta inquietudine e turbamento, il
perturbante di cui parla Freud, quella sorta di spaventoso rimosso
dagli uomini che riemerge a loro insaputa2. Raffigura il pericoloso
del mondo ignoto che tutti vogliono conoscere per superare le paure,
immagine archetipica che affiora nell’animo istintivamente;
personifica la voragine buia nella quale niente è distinto,
un’esperienza onirica che capovolge la realtà e dà spazio
all’irrazionale che abita nelle profondità dello spirito, che trasporta
gli uomini in un mondo agitato da forze misteriose e oscure alla
ragione.
La figura del polpo colossale getta nell’oblio, produce una catarsi
e coinvolge gli uomini in una vicenda di rovesciamento le cui ragioni
trascendono le verità. Il suo simbolo rinvia a una struttura segreta e
minacciosa, espressione di desideri inconsci e pulsioni affettive che
si manifestano nei sogni, nei fantasmi delle nevrosi o
nell’aspirazione al sacro; proietta la realtà nel mondo fantastico che
popola le visioni oniriche, incarna la presenza del mostruoso e
dell’inclassificabile. È una figura che indica una zona di confine tra
due mondi, il naturale e il soprannaturale e tra due nature, l’umana e
l’animale; è la rappresentazione dell’inizio ma anche il rischio della
fine, rammenta agli uomini che il disordine può nuovamente
impadronirsi della loro vita e che in ogni momento si può precipitare
nel caos.
La narrazione mitica riconosce e rinnova la potenza del disordine
e allo stesso tempo traccia un confine e lo addomestica, permette che
il mondo abbia un sopra e un sotto, un centro e una periferia, spazi
che per essere tali devono essere continuamente attraversati.
Attraverso il racconto delle piovre gigantesche e orrende gli uomini
rendono chiare le paure che dominano la vita e allo stesso tempo le
neutralizzano. Il mitico kraken è una costruzione intellettuale logica il
cui fine è armonizzare il rapporto tra uomini e natura, spiega la
trasformazione del caos in cosmo, il passaggio dalle tenebre alla
luce, dall’acqua alla terraferma, dall’informe alla forma, dal nulla
alla creazione. Le storie mitiche dei polpi giganteschi hanno
coerenza interna, danno ordine all’universo e spiegano ciò che è
accaduto non mediante teorie scientifiche ma tramite archè o storie
dell’origine.
La figura archetipica del polpo è tuttavia sottoposta ai nuovi
condizionamenti culturali e materiali. Un essere mitico scompare se
non trova un equilibrio nelle sue molteplici funzioni e se viene meno
il flusso di credenze tramandate da una cultura all’altra. Il kraken è
un archetipo ma non può essere isolato dal contesto sociale e
culturale. Per non rischiare di generalizzare e avanzare
interpretazioni diverse e perfino opposte, bisogna collocare il mito
nel tempo in cui nasce e si sviluppa, inserito nel processo di
trasformazione sociale, esso non si sottrae alla dinamica interna
delle forze creative umane.
In passato lo straordinario aveva connotazioni diverse: la minore
capacità di controllo sulla natura offriva meno sicurezze e favoriva il
proliferare di divinità con cui l’uomo doveva rapportarsi e
riconciliarsi, la gente propendeva fortemente verso il meraviglioso,
l’intervento soprannaturale era parte integrante della trama culturale.
Gli dei greci non solo non avevano creato il mondo ma essi stessi
erano stati creati da temibili potenze primordiali esistenti. Zeus non
condizionava il destino del mondo e degli uomini con i quali era
persino imparentato; l’universo divino era popolato da esseri
mostruosi con cui le divinità dovevano fare i conti e contro i quali
erano anche impotenti3.
Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha creato nuovi orizzonti e
affermato un’idea razionale del mondo, la sfera del sacro va sempre
più restringendosi e si assiste alla desacralizzazione di tempo e
spazio. Molte paure degli uomini legate al mare – e con esse le
proiezioni mitiche e le immagini che costituivano strumento di
spiegazione e di protezione –sono scomparse o si sono attenuate.
Tanti studiosi ritengono che non si possa pensare ai primitivi e al
passato con l’attuale sistema mentale poiché le storie che adesso
sembrano ingenue, assurde, ambigue e fantastiche, in un lontano
passato erano razionali e logiche. Levy-Bruhl sostiene che l’universo
mentale dei primitivi era dominato da affettività e misticismo e che
tra il pensiero dei selvaggi e il nostro c’è una distanza incolmabile4.
È difficile tuttavia immaginare che l’uomo primitivo fosse
talmente privo di strumenti di conoscenza da pensare che ogni cosa
fosse soprannaturale e prodotta da potenze sconosciute. Chi
ascoltava racconti su polpi grandi due miglia e dai tentacoli lunghi
come gli alberi di una nave, rimaneva sconcertato e meravigliato. Il
processo logico è attivo nel pensiero primitivo come in quello
moderno, non c’è un passaggio da uno stadio psicologico a uno stato
razionale, una barriera tra mentalità prelogica e pensiero scientifico,
uno spazio mitico e simbolico che appartiene solo a determinati
periodi della storia, una coscienza strutturale che caratterizza alcune
epoche e non altre.
Il kraken che suscitava sgomento tra i marinai si è inabissato per
sempre nel mare e tuttavia la sua immagine rimane nella coscienza
degli uomini. Le modifiche del mostruoso nel corso dei secoli sono
profonde, ma ci sono simboli, miti e rituali che resistono nel tempo.
Tanti sentimenti, bisogni e comportamenti dell’uomo antico non sono
diversi da quelli dell’uomo moderno, molti atteggiamenti
psicologici, individuali e collettivi non hanno subito grandi
cambiamenti nel corso dei secoli. L’uomo moderno come i suoi
antenati sfida continuamente la paura, si sforza di superare le
minacce reali e immaginarie esorcizzandole con rappresentazioni
favolose. Oggi, come in passato, l’uomo teme le forze distruttrici
della natura, ha il terrore di trovarsi da solo di fronte a potenze più
grandi, crede che ci siano divinità che minacciano la sua integrità. La
vita d’ogni individuo è sempre esposta al rischio della fine, nessuno
può sottrarsi alla possibilità di essere sopraffatto o d’essere
semplice spettatore ed evitare che il dolore irrompa nella sua
esistenza. Razionalità, desacralizzazione e rimozione hanno forse
finito per aumentare nell’uomo il senso di precarietà, l’accentuata
secolarizzazione lo ha privato di punti di riferimento, disorientato,
impoverito e posto in una condizione d’angoscia e smarrimento forse
maggiori che in passato.
Il polpo gigantesco che con tentacoli muniti di ventose succhia e
inghiotte le vittime costituisce ancora oggi una delle paure più
elementari. In forme diverse il mostro continua ad agire perché è una
forza che proviene dalle profondità dello spirito. Grazie alla
rivelazione di contenuti universalmente umani, il mito supera i limiti
sociali e spazio-temporali ricordando agli uomini il rischio di
sprofondare negli abissi. L’incontro col kraken è materializzazione
del rischio della paura ma anche metafora di quella via d’uscita che
da sempre caratterizza le imprese umane. Nelle comunità l’uomo si
preoccupa di rassicurare se stesso e il proprio universo, di porre dei
limiti, rendere familiari gli spazi, allontanare e respingere verso
l’esterno ciò che può essere pericoloso o turbare la propria
esistenza. A volte, però, accade che gli equilibri si rompano, che lo
spazio conosciuto non sia più visibile, che orientamenti e confini si
perdano, che nel proprio ambiente l’uomo viva un senso di
sradicamento e di perdita dell’appartenenza. Quando le forze
cominciano a vacillare, per non brancolare nell’oscurità e trovare
risposte alle proprie angosce, l’individuo si separa dalla sua gente,
avverte un disperato bisogno di allontanarsi e perdersi oltre il
confine per trovare delle nuove coordinate. Non sempre ciò che si
trova oltre i limiti del suo ambiente appare ambiguo e spaventoso,
quel mondo lontano e sconosciuto, considerato da sempre
pericoloso, è necessario per ritrovare se stesso. Nel momento in cui
vive un forte disorientamento, l’uomo avverte il senso di perdita
della presenza, si sente minacciato dal terrore della fine e non ha
forze sufficienti per andare avanti, cerca di fuggire il tempo storico
andando verso l’ignoto. Per evitare di precipitare nel nulla si fa
errante, alla ricerca di un luogo che gli restituisca il dominio
dell’esistenza; il bisogno di sicurezza lo spinge a ricercare un
fondamento e una garanzia che lo pongano al riparo dal disordine che
lo minaccia.
L’uomo ha bisogno di affrontare l’ignoto, di dominare la paura di
smarrirsi e misurarsi con l’angoscia dell’estraneo. Fromm scrive che
l’individuo, perduto il paradiso - ossia il sentimento di far
intrinsecamente parte della natura - è diventato l’eterno pellegrino,
costretto a camminare senza sosta nel tentativo di sapere ciò che non
è ancora conosciuto. Parte per rispondere agli interrogativi supremi
che angosciano l’umanità e per ritrovare una nuova armonia che lo
ricongiunga alla natura e a se stesso5. Per superare l’incubo del caos
l’uomo deve raggiungere il mondo dell’assolutamente «altro», quel
luogo lontano dal mondo che tuttavia ha creato sia l’uomo che il
mondo; per forgiare una nuova dimensione dell’essere deve
affrancarsi da una cultura ordinata dalle norme, navigare in un tempo
e in uno spazio magico di un mondo originario definitivamente
perduto. Per ritrovare il fondamento dell’ordine deve spingersi sino
al limite estremo, verso il confine tra essere e non essere, deve
ritornare al tempo mitico della creazione in cui dal caos si creò il
cosmo. Arrivando sino al limen, ai confini del mondo, liberandosi di
ciò che è terribile e spaventoso, potrà ristabilire l’armonia originaria
che esisteva un tempo tra uomo e natura.
Per incontrare l’assolutamente altro l’uomo deve sottoporsi a
prove e fronteggiare pericoli, affrontare l’ignoto, attraversare un
mondo indecifrabile e navigare nel mare aperto. Il mare è il luogo
del non luogo, dello spazio che non è spazio, delle paure ataviche
dell’inconscio; nel mare i limiti sono assenti, non vi è centro, non vi
sono punti di riferimento; viaggiare verso l’orizzonte infinito
dell’oceano è rischioso, il naufragio è possibile in ogni momento. Il
mare è un luogo selvaggio e sconosciuto, infido e misterioso,
avversario beffardo, crudele persecutore e annientatore implacabile.
L’uomo che viaggia lungo rotte sconosciute non è sostenuto
dall’antico sistema di certezze, davanti ha solo l’orizzonte senza fine,
un mondo inquietante e pauroso dove può smarrirsi e perdersi per
sempre.
Kraken, piovre e polpi giganteschi rappresentano gli ostacoli posti
agli estremi dell’universo che gli uomini devono oltrepassare per
conoscere la verità e per trovare risposta agli interrogativi
fondamentali della sua vita. I mostri marini sono la personificazione
della minaccia che incombe sull’uomo, la paura dell’inghiottimento e
della caduta negli abissi, rappresentano l’infinita potenza selvaggia
che sbarra e segna la fine d’ogni cammino. I luoghi in cui vivono
sono la frontiera che contrappone e separa il mondo naturale da
quello divino, ma anche il punto nel quale universi distinti
comunicano. Gli abissi sono il posto del caos, il territorio
dell’origine, il punto della creazione dell’universo, lo spazio fuori
della storia in cui presente, passato e futuro coincidono. Gli uomini
che arrivano in quel luogo proibito hanno paura ma respirando il
tempo mitico della creazione, ricongiungendosi al primordiale e
vivendo l’esperienza del disordine, s’impossessano di un sapere che
permette loro di ristabilire l’ordine. I mostri che vivono nel mare
rappresentano la conoscenza. Nel suo viaggio, combattuto tra l’ansia
per la patria e la passione per il sapere, Ulisse tura le orecchie ai
propri compagni per evitare che ascoltino il canto pericoloso delle
sirene ma egli si fa legare per ascoltarlo senza cedere alle lusinghe6.
L’uomo naviga nel mare immenso e misterioso ma anche dentro se
stesso, nel passato più oscuro, verso le proprie radici. Il suo è un
cammino che affina lo spirito, un percorso iniziatico verso la
trascendenza, un errare volto a scoprire la verità assoluta; si spinge
fino al limite estremo delle capacità e raggiungere le profondità della
coscienza. L’uomo non accetta la compiutezza della vita e
l’ineluttabilità della morte, navigando nel mare aperto supera la
finitezza e proietta l’esistenza in una realtà soprannaturale, il suo
errare è un morire per rinascere, un rigenerarsi attraverso la fine.
Il viaggio in mare e l’incontro col kraken sono il desiderio
dell’uomo di trascendere l’esistente per ricercare un ethos
valorizzante, sono la rivalutazione della vita, il tentativo di
risollevarsi dalla finitezza dei bisogni immediati per non perdersi e
non annullarsi, la ribellione contro limiti invalicabili e un destino di
sofferenza e di morte, la volontà di negare il dolore e il male, il
bisogno di fronteggiare l’incubo del caos. L’uomo vive per risolvere
problemi materiali e nel contempo desidera elevarsi per meditare e
trovare risposta alle questioni supreme; non tenta solo di guarire
dalla crisi ma di migliorare la propria vita conferendole una
dimensione sacra.
Il viaggio dell’uomo verso il kraken è reale e mitico allo stesso
tempo. Illuminato dalla fede e avanzando nella direzione
dell’escathon attua la comunione col divino, eleva lo spirito al
supremo grado di purezza, diviene santo egli stesso. L’umanità non
può restare immobile in contemplazione di quel che accade, poiché
non esiste un posto sulla terra nel quale è possibile fermarsi. Gli
uomini sono costretti a vagare senza tregua proprio perché
desiderano fermarsi, pervasi dal bisogno di muoversi per poi
riposare, andranno avanti sino a quando non troveranno risposte7.
La storia dell’uomo è una storia inquieta. Egli intraprende il
viaggio per conoscere ma il suo desiderio non sarà mai appagato
interamente, poiché quel che cerca, verità ineffabile e oscura, si
estende aldilà dei limiti stessi del pensiero e dell’agire umano. Per
evitare di precipitare negli abissi, per trovare risposte alle domande
l’uomo dovrà mettersi nuovamente in viaggio alla ricerca di un luogo
che gli restituisca il dominio sull’esistenza. Il bisogno di sicurezza lo
spingerà a cercare il fondamento che lo preservino dal disordine; il
desiderio di sconfiggere l’angoscia lo spingerà a risalire verso
l’origine, a rinascere a se stesso, a riprendere il controllo di sé, ad
aprirsi alla dimensione trascendente dell’essere.
L’uomo è condannato a non avere fissa dimora perché è escluso
dalla verità. Finché avrà il bisogno di riaffermare la propria identità
e liberarsi dalle inquietudini, sarà costretto a errare e navigare in
mare aperto dove lo attendono mostri. Il mondo umano non è fissato
in un ordine, ma ostinatamente muore e rinasce. L’uomo del mondo
ordinario ha regole morali cui è legato ma, come dice De Martino, sa
che costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere nel mondo
ma il dover esserci; è consapevole del rischio radicale di non essere
in alcun mondo possibile e quindi decide di partire, di trascendere
l’esistenza per cercare un ethos valorizzante8.
Attraverso il viaggio, l’uomo supera l’esistente, traspone in
un’altra dimensione gli interrogativi della vita, rende visibili energie
vitali e istinti repressi, mostra in un’atmosfera irreale e sacrale i
desideri inespressi e insoddisfatti. Gli uomini hanno bisogno di
andare oltre e ciò costituisce la vera condizione trascendentale
dell’esistenza. Per esistere, ogni società deve progredire oltre la
naturalità e trascendere la vita: l’ethos del trascendimento è il
vissuto umano per eccellenza. L’uomo è consapevole di non poter
restare sulla terraferma a contemplare la nave che periclita nella
tempesta; l’alternativa all’abisso non è la fuga, non c’è posto al
mondo in cui ritenersi al sicuro. Nella perigliosa traversata
dell’esistenza è contemplato il pericolo del naufragio, in ogni angolo
della terra ci sono kraken a ostacolarne la rotta. Il distacco
dell’uomo dal mondo costituisce l’ethos primordiale, la volontà
originaria di cultura e storia che resiste alle tentazioni del nulla. Il
viaggio dell’uomo è il desiderio di trascendere l’esistente, il
tentativo di risollevarsi dalla finitezza dei bisogni immediati: terrore,
panico e paura forniscono la spinta verso la conoscenza. Polpi
giganteschi incalzano l’uomo mantenendolo in uno stato
d’inquietudine, mutano nomi e forma ma continuano ad aspettarlo per
sopprimerlo. Viaggiare per terre e per mari spinge l’uomo a creare
mostri mitici che lo sollevino dalla sua umana condizione rendendolo
mitico9.
1. Carl Gustav Jung, L’archetipo della madre, Boringhieri, Torino
1990, p. 4.
2. Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere. 1917-1923. L’io e
l’es e altri scritti, Bollati-Boringhieri, Torino 1989; Tobia Nathan,
La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria, Ponte alle Grazie,
Firenze 1990; Otto Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella
letteratura e nel folklore, SugarCo, Milano 1972.
3. Jean-Pierre Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi,
Torino 1981, pp. 97-114.
4. Lucien Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1981.
5. Erich Fromm, Psicanalisi e religione, Ed. di Comunità, Milano
1971, pp. 26-27.
6. Cfr. Giovanni Sole, Scilla. Interpretazioni di un mito, Università
della Calabria, Centro Editoriale e librario, Rende 2000; Id., Il tabù
degli stretti: il mito di Scilla e Cariddi, in Teti V. (a cura di), Storia
dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli, Roma
2003, pp. 167-188.
7. Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi
delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 673.
8. Ibidem.
9. Cfr. Ludwig Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino
1972.
Polpo e identità
Per difendere potere e identità, caste sacerdotali e sette religiose
dovevano elaborare continuamente strategie per differenziarsi dal
mondo esterno. Non mangiare alcuni cibi era un modo per
distinguersi dalla società, un precetto categorico che gli adepti
dovevano rispettare senza discutere poiché rafforzava i valori della
setta.
Una società chiusa, come quella pitagorica, era caratterizzata da
un equilibrio frutto di un continuo superamento delle contraddizioni
interne. La risoluzione dei conflitti avveniva anche tramite i divieti:
osservando i tabù, gli adepti mostravano all’esterno la natura segreta
della loro scuola e allo stesso tempo avevano consapevolezza della
propria diversità. La setta era costantemente minacciata da
contaminazioni e, per difendersi, doveva stringersi intorno alle sacre
obbligazioni. Astenersi da alcuni alimenti che erano sulle tavole
delle persone comuni, era un efficace mezzo di coesione, un modo
per distinguersi dal mondo profano. I tabù costituivano un mezzo
formidabile per la coercizione reciproca: la costruzione del
consenso e l’osservanza delle regole offrivano il privilegio di
appartenere a un gruppo, rafforzava i valori comuni e rimarcava
l’identità1.
I «non fare» di Pitagora erano un codice morale che proteggeva la
società da comportamenti che potevano distruggerla. Erano inseriti in
una struttura di pensiero che tendeva a fissare dei confini per
proteggere la setta da minacce esterne e conflitti interni,
rappresentavano un codice morale che creava uno steccato contro le
contaminazioni rendendo gli adepti consapevoli della propria
diversità2. I discepoli dovevano essere assoggettati a regole e
prescrizioni che orientavano la loro esistenza. L’interesse del singolo
individuo e quello dei suoi compagni coincidevano: i tabù dovevano
essere onorati e, chi non lo faceva, doveva essere punito o
allontanato. Si racconta che quando un pitagorico trasgrediva una
regola o un divieto, era considerato morto e si erigeva una lapide col
suo nome. Empedocle e Ippaso furono mandati via in maniera
infamante per aver violato i segreti della scuola e si riteneva che il
secondo fosse morto in un naufragio voluto dagli stessi dei, per
punirlo della sua empietà3.
I divieti alimentari erano fondamentali per riprodurre la struttura
sociale, comandamenti la cui violazione faceva sorgere un senso di
colpa che era ancora più forte se la proibizione era inspiegabile,
aveva un’origine oscura e si presentava come insensata. I divieti
avevano lo scopo di contribuire a consolidare la scuola e proteggerla
da comportamenti che potevano danneggiarla, creavano un muro
invalicabile con altre culture che rischiavano di contagiare i suoi
adepti.
Per imporre un tabù, specie se bizzarro e illogico, c’era bisogno
di un’autorità riconosciuta da tutti. «Egli l’ha detto», dicevano i
pitagorici per affermare che nessuno poteva mettere in discussione
ciò che aveva sentenziato il maestro, infallibile al pari di un nume.
Pitagora, come scrive Timeo, era così rispettato che i sodali
dovevano ascoltare i suoi insegnamenti senza poterlo vedere finché
non avessero superato il giudizio d’ammissione. Come Apollo Pizio,
comunicava le verità con un linguaggio oracolare e teneva in gran
considerazione quei discepoli in grado di individuare il segno
nascosto dei suoi simboli4. Aristotele sostiene che per i pitagorici,
oltre alla specie umana e divina, esisteva una terza specie di esseri
come Pitagora, e cioè individui ispirati, intermediari tra il mondo
terreno e ultraterreno. I biografi lo descrivono come un dio capace di
volare da una parte all’altra e di trovarsi contemporaneamente in
posti diversi, in grado di sedare tempeste, guarire ammalati,
incantare animali e prevedere il futuro5. In un certo senso il filosofo
rappresentava egli stesso un tabù: alcuni allievi non potevano
rivolgergli la parola o guardarlo in faccia sino a quando non
avessero conosciuto e appreso le verità sacre6.
Nella comunità pitagorica vigeva una struttura gerarchica che
garantiva il rispetto verso tutto ciò che diceva o faceva il maestro. Le
proibizioni nella scuola, come in altre esperienze settarie e religiose,
erano legate a una struttura di tipo gerarchico; il grado inferiore era
soggetto al veto di quello superiore e la proibizione era esercitata
per mezzo del tabù. Il capo era il depositario della tradizione segreta
e la gerarchia nell’ordine era indiscussa perché, se fosse venuta
meno, si sarebbe compromesso l’equilibrio nella setta. I tabù,
dunque, rinsaldavano le gerarchie e allo stesso tempo erano prove
che gli adepti dovevano superare per dimostrare di meritare il grado
successivo.
L’ammissione degli allievi era subordinata a un giuramento e a
rigorosi esami in cui il catecumeno doveva dimostrare fedeltà e
fermezza nei propositi. L’elite di giovani a cui erano rivelati i segreti
più profondi della comunità era divisa in «acusmatici» e
«matematici»: ai primi era imposto il silenzio e una rigida disciplina
di apprendimento, i secondi avevano la facoltà di porre quesiti ed
esprimere opinioni personali. Il giovane iniziato era un uomo in
viaggio: più soffriva la fatica e rinunciava ai piaceri più si
avvicinava alla luce, più viveva in un mondo altro da sé, più
raggiungeva il sapere. La verità sacra si apprendeva come salendo
una scala: ogni gradino che l’adepto oltrepassava, acquisiva nuove
conoscenze. «Arrivato alla frontiera non tornare indietro», diceva un
«simbolo» di Pitagora e il senso era quello di invitare i sodali a non
cedere alla fatica, alle privazioni e allo scoraggiamento che li
accompagnavano durante il cammino verso la conoscenza.
Per una comunità con un pensiero oligarchico e teocratico come
quella di Pitagora, rimarcare le differenziazioni culturali verso il
mondo esterno era fondamentale. Le minacce che provenivano da
fuori spingevano gli adepti ad avere un sostegno spirituale e
simbolico che andava verso l’integrità e la purezza. In una struttura
piramidale come la setta pitagorica, i tabù avevano la funzione di
tenere gli adepti lontani dal mondo esterno ed erigere differenze tra
gli stessi adepti. Un maestro accresceva il proprio potere e il proprio
carisma imponendo tabù a se stesso e agli altri e non aveva
importanza se avevano un senso etico o morale, se erano utili o
inutili, se erano logici o illogici. Al contrario, più i divieti erano
indecifrabili più erano efficaci, più erano misteriosi più
aumentavano l’autorità, più erano strampalati più accrescevano il
carisma.
Con l’avvento del cristianesimo molti tabù alimentari del mondo
antico erano destinati a scomparire. I cristiani non avevano cibi
proibiti dalla legge e non pensavano che ci fossero alimenti cattivi
per loro natura. San Paolo, nella lettera agli Ebrei, ricordava che
tutte le cose create dalle mani di Dio fossero monde e che nessuna
cosa era impura per se stessa7. La Chiesa, nel corso dei secoli
stabilì, tuttavia, che in alcuni periodi dell’anno e in occasione di riti
solenni, i fedeli dovessero praticare il digiuno e astenersi dal
consumare alcuni alimenti. Su cosa mangiare il dibattito rimase
aperto e diversi chierici che facevano una differenza tra i cibi, erano
accusati di «giudaizzare» i fedeli. Lunghe discussioni si accesero
anche sulle caratteristiche «buone» e «cattive» degli alimenti. Nel
Settecento, ad esempio, mentre diversi frati sostenevano che chi
bevesse una chicchera di cioccolata peccasse poiché soddisfaceva
più la gola che il ventre, altri erano del parere che la dolce bevanda
non interrompesse il digiuno quaresimale e rinforzasse solo il
ventricolo contro i pungoli della fame8.
I chierici erano concordi tuttavia nell’affermare che il diavolo non
tentasse i fedeli con i cibi vietati ma li spingesse a eccedere: non
bisognava riempire smoderatamente il ventre poiché aggravava lo
spirito e offuscava l’intelletto. Per san Tommaso chi mangiava
alimenti che sapeva essere nocivi o chi mangiava di soverchio
unicamente per soddisfare la gola, peccava mortalmente. Il digiuno
era stato istituito per vincere le tentazioni e avvicinarsi a Dio e
bisognava consumare i frutti della natura non elaborati dall’arte dei
cuochi. La Chiesa condannava i fedeli che non osservavano il
digiuno non perché rimanessero contaminati dagli alimenti, quanto
perché non rispettassero le sue leggi divine: disobbedire alla Chiesa
era come disobbedire a Dio. I fedeli che non osservavano il digiuno
commettevano lo stesso peccato di Adamo ed Eva: il Padre Eterno
aveva permesso di mangiare i frutti del paradiso terrestre, eccetto
quelli dell’albero del bene e del male, ma i due, tentati dal demonio,
disobbedirono e persero l’immortalità.
Gli ordini monastici prevedevano severe condanne per i frati che
mangiavano cibi proibiti9. I monaci dell’Ordine di san Francesco di
Paola, durante i digiuni non dovevano toccare carne e latticini poiché
l’astinenza corporale sollevava il sentimento, umiliava il cuore,
toglieva la concupiscenza, smorzava la libidine e accendeva il lume
della castità. Chi contravveniva al voto quaresimale era deposto da
qualsiasi ufficio e imprigionato per tre mesi a pane e acqua10. Per i
fedeli che trasgredivano i digiuni erano previsti: due giorni di pane e
acqua per chi mangiava prima dell’ora stabilita, venti giorni di pane
e acqua per chi trasgrediva il digiuno, sette giorni di penitenza per
chi violava le privazioni nella Quaresima e quaranta per chi
trasgrediva il digiuno dei «quattro tempora»11.
Se l’autorità della Chiesa non era in grado di smascherare i
trasgressori, ci pensava il Padre Eterno. Alcuni gentiluomini nolani
diretti a un convento per la Pentecoste, avevano fatto portare a un
servitore, di nascosto, carne e formaggio: improvvisamente il cielo
diventò nero e scoppiò una terribile tempesta. Spaventato il servitore
confessò al decano del monastero la sua colpa e, quando andò a
prendere i cibi, li trovò pieni di vermi: il superiore li fece ridurre in
cenere e la tempesta cessò12. Un anziano monaco di Ravenna che
durante la sera di Natale si era abbuffato di vino e carne, mentre in
cielo cantavano gli angeli e gli uomini festeggiavano la nascita di
Gesù, pur essendo robusto e sano improvvisamente morì13. Un
principe, rispettato e amato dai suoi sudditi perché viveva da buon
cristiano e osservava i digiuni, si sentì male e morì dopo aver
mangiato in occasione della Quaresima alcuni cibi proibiti14.
1. Cfr. Giovanni Sole, Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del
limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; Id., Pitagora e il tabù
delle fave, in Il ritorno di Pitagora, «Quaderni di Pitagora», n. 3,
Castello Fortezza di Crotone (4-5-6 settembre 2003),
Amministrazione Comunale, Crotone 2005, pp. 33-61.
2. Cfr. Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di
contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna 1975.
3. Giamblico, op. cit., XVIII, 88, p. 383.
4. Ivi, XXIX, 161, p. 437.
5. Ivi, XXVIII, 135, p. 419; XXIII, 104, p. 395; XXIX, 161, p. 437.
6. Ivi, XXIV, 107, p. 397.
7. Cfr. Arnaud Bernard Duquesne, Lettere di san Paolo agli ebrei, a
spese di Francesco Alessandri, Venezia 1794.
8. Daniele Concina, Memorie storie storiche sopra l’uso della
cioccolata in tempo di digiuno, appresso Simone Occhi, Venezia
1748; Memorie veridiche contrapposte alle memorie istoriche
sull’uso del cioccolate il giorno di digiuno, s.e., s.l., 1748.
9. Agostino Calmet, Commentario letterale, istorico, e morale
sopra la Regola di S. Benedetto, per Michele Bellotti, Arezzo 1751,
p. 81.
10. Regola de’ frati dell’ordine de’ Minimi di Francesco di Paola,
da’ torchi di Raffaele Miranda, Napoli 1824, pp. 14; 62-63.
11. Daniello Concina, La disciplina antica e moderna della romana
chiesa intorno al sagro quaresimale digiuno, appresso Simone
Occhi, Venezia 1742, p. 37.
12. Marco De Masellis, Iconologia della madre di Dio Maria
Vergine, per Onofrio Savio stampatore della Corte, Napoli 1654, p.
208.
13. Serafino Razzi, Giardino d’essempi, overo fiori delle vite de i
santi, presso Daniel Zanetti, Venetia 1599, p. 6.
14. Lodovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa,
appresso Sebastiano Domenico Cappuri, Lucca 1742, p. 314.
Polpo e storici
Le notizie degli scrittori antichi sui tabù alimentari devono essere
utilizzate con cautela. Diogene Laerzio sostiene che Pitagora si
nutrisse di miele, favo, pane, verdure e raramente pesci, ripetesse ai
discepoli di non contaminare il corpo con pietanze empie e proibisse
di sopprimere o nutrirsi d’animali poiché condividevano con gli
uomini il privilegio dell’anima1. Secondo Porfirio, Pitagora
raccomandava di non danneggiare o abbattere piante fruttifere e non
sopprimere e mangiare bestie innocue per l’uomo2. In un frammento
di Eudosso si legge che oltre a non mangiare animali, non si
accostasse neanche a macellai e cacciatori3.
Gli scrittori nei loro resoconti cadevano, tuttavia, in evidenti
contraddizioni. Riguardo alle proibizioni alimentari, ad esempio,
Diogene Laerzio affermava che il filosofo non uccidesse bestie per le
divinazioni ma sacrificasse galli, capretti, porcellini e si astenesse
dal mangiare solo il bue e l’ariete4. Giamblico confermava che
Pitagora non immolasse nessun essere vivente e considerasse sacro il
gallo ma poco dopo sosteneva che di tanto in tanto offrisse in
sacrificio galli, agnelli e altre bestie5. Gellio assicurava che si
nutrisse di carne e pesce ed era persino ghiotto di fave che
consigliava vivamente per le loro qualità energetiche6. Aggiungeva,
inoltre, che il musicologo Aristosseno, appassionato cultore di
letteratura antica, affermasse che Pitagora di nessun altro legume
facesse maggiore uso che delle fave, convinto che questo cibo
rilassasse il ventre7.
Secondo alcuni biografi lo stesso maestro e i suoi allievi erano
contraddittori. Diogene, citando Timone, ricordava che Pitagora,
sempre a caccia di discepoli per la sua scuola, «inclinava ad avere
opinioni ammalianti»8. Cratino sosteneva che i pitagorici quando
incontravano un profano, per dare sfoggio della loro bravura, gli
confondevano la testa a suon di definizioni, antitesi e divagazioni9.
Per altri, Pitagora, come Orfeo in Tracia, riuniva in sé le professioni
di sacerdote, mago e sciamano, un demone capace di veri e propri
«incantamenti»10. Era un despota bizzoso e superstizioso che
sottoponeva i suoi allievi a regole di vita non sempre fondate sul
buon senso e, per Timeo di Taormina, era insolente, arrogante e
presuntuoso11. Eraclito scriveva che Pitagora fosse un «inventore di
raggiri» e con una cultura in bilico tra l’erudizione e la ciarlataneria,
tra la scienza e la magia12. E Aristofonte annotava che i pitagorici
fossero frugali perché non avevano il «becco di un quattrino» e si
dichiarava pronto a farsi impiccare dieci volte se, dinnanzi a un
succulento piatto di pesce o carne, un pitagorico non si fosse
mangiato anche le dita13!
I documenti di cui disponiamo non sono sufficienti a ricostruire
un’immagine autentica delle idee di Pitagora. La sua scuola era
fondata su vincoli di segretezza e il filosofo stesso non ha lasciato
alcun testo scritto, le regole della sua setta erano trasmesse
oralmente da maestro a discepolo e, chi avesse svelato i dogmi ai
non iniziati, veniva allontanato in maniera infamante. Apuleio
annotava che il primo insegnamento di Pitagora era tacere: alle
parole che i poeti definivano «alate» bisognava strappare le ali e
serrarle dentro la cerchia dei denti14! I discepoli, dopo la sua morte,
riportavano quanto aveva detto ma le loro testimonianze mostravano
contraddizioni tali che, non a caso, Aristotele iniziò ad appellarli
«cosiddetti pitagorici», sollevando forti dubbi che si limitassero a
trasmettere la dottrina del maestro. Giamblico racconta che
Ippodemonte di Argo, della cerchia degli acusmatici, sosteneva che
Pitagora avesse fornito l’interpretazione di tutti gli akousmata ma,
una volta tramandati da persone sempre più incolte, col passare del
tempo se n’era perduta la spiegazione razionale15. Le vite di
Pitagora, scritte molto tempo dopo la morte, appaiono come
fantasiose e grossolane narrazioni basate su frammenti e testi
anonimi, vere e proprie opere agiografiche in cui si rimarcano gli
aspetti «miracolosi» e «meravigliosi». Il maestro che vola da una
parte all’altra, trovandosi contemporaneamente in posti diversi, in
grado di guarire, prevedere il futuro e che vive in maniera ascetica e
rifugge dalle ricchezze, sembra più un santo cristiano che un filosofo
greco!
Le notizie degli storici sugli usi e i costumi delle popolazioni,
erano spesso false o inattendibili. Polibio criticava duramente Timeo
per avere prodotto le sue storie affidandosi unicamente a quanto era
stato scritto dai suoi predecessori e, come tanti altri, aveva scelto
questa via perché le informazioni desunte dai libri non comportavano
rischio e fatica, spese e sacrifici16. La scienza storica richiedeva un
attento studio delle fonti scritte, una conoscenza dei loro autori e
delle idee relative a determinati paesi17.
Gli storici dell’antichità riportavano quanto detto dai loro
predecessori anche quando le notizie erano inverosimili e, per
ricostruire le vicende umane, utilizzavano topoi, racconti non
collegati a un tempo e a un luogo18. «Si dice», «ho appreso», «si
narra», così scrivevano quando citavano fatti raccontati da altri, e, in
tal modo, ognuno poteva dire ciò che preferiva poiché non era
possibile stabilire la fonte. Pur mettendo a volte in rilievo i limiti dei
colleghi, gli storici riportavano le loro narrazioni senza badare
all’attendibilità dei documenti, lasciando ai lettori il compito di
discernere il vero dal falso. Gli autori finivano così per copiarsi a
vicenda, consegnando indigeste compilazioni di vecchie
fantasticherie e aggiungendone di nuove quando s’imbattevano in
qualche difficoltà19.
Le cronache degli storici erano impermeabili alla critica in quanto
attingevano a un fondo inesauribile di varianti alternative: la
veridicità dei fatti, stava nella loro modificabilità e nella possibilità
di raccontare nuove versioni. I racconti, non sottoposti ad alcuna
regola, erano contrassegnati da un’arbitrarietà tipica delle storie
leggendarie. Gli scrittori, probabilmente senza rendersene conto,
finivano per essere creatori di miti, inventavano vicende eccezionali
mettendole al servizio della storia, elaboravano racconti inverosimili
presentandoli come veri, attuavano in definitiva un processo di
storicizzazione degli eventi mitici.
Non sappiamo se gli storici credevano realmente a certe
narrazioni per noi ingenue, assurde e fantastiche. Veyne sostiene che,
guardando il mondo greco con i nostri criteri, non capiremo mai
perché furono incapaci di distaccarsi dalle loro menzogne20. Le
stesse divinità ricorrevano alla menzogna pur di raggiungere i loro
scopi: uomini e dei si riconoscevano nell’arte di dire il falso. Ulisse,
simbolo dell’astuzia greca, era lodato per la capacità di mentire:
raccontava spesso storie ingannevoli nelle quali riusciva a mescolare
abilmente il vero e il falso tanto da raggiungere il verosimile21. Gli
storici rispettavano le verità raccontate dagli altri perché come gli
altri volevano essere creduti sulla parola, erano consapevoli che i
lettori preferissero storie immaginarie a quelle vere e così, per
commuoverli, impressionarli e coinvolgerli, raccontavano fatti
inverosimili e fantastici. Diodoro Siculo affermava che una storia
doveva procurare una qualche utilità senza essere noiosa22. Per
catturare l’attenzione del pubblico erano inclini a un uso disinvolto
delle fonti e, per rendere meno tediosi e prevedibili i racconti,
mescolavano realtà e finzione. Tucidide ricordava ai lettori che la
maggior parte degli storici, per non affaticarsi nella ricerca della
verità, preferiva rivolgersi a versioni già pronte, senza tener conto
che i poeti, con i loro «abbellimenti», le avevano esagerate per
renderle più gradevoli all’ascolto23. Lo storico greco era
consapevole che l’assenza del favoloso rendeva le sue narrazioni
meno piacevoli, ma chi voleva la verità su ciò che era accaduto in
passato, avrebbe apprezzato il suo modo di raccontare. Le sue storie
erano scritte come un «possesso per sempre», piuttosto che come un
«pezzo per competizione da ascoltare sul momento»24.
Gli scrittori antichi, consapevoli dell’interesse diffuso per le
culture esotiche e stravaganti, avevano creato un genere letterario in
cui forte era l’attenzione verso etnografia, geografia e mitologia,
genere che si sviluppava accanto alla storiografia. Senza
preoccuparsi del controllo e del confronto delle fonti, proponevano
un corso della storia costituito da eventi memorabili e sensazionali.
Non eliminavano gli elementi mitici dagli eventi storici: i confini tra
narrazione storica e narrazione mitica erano labili, esisteva un
profondo legame tra storia e mito. Cicerone e altri eruditi
dell’antichità rimproveravano ad alcuni scrittori di avere narrato la
storia con la stessa fantasia con la quale si erano dedicati ai
componimenti poetici25.
Non possiamo escludere l’ipotesi che le narrazioni mitiche
fossero considerate dagli scrittori come verità storiche e che
valutassero come veri, fatti leggendari. Probabilmente alcuni storici
pensavano che mettere per iscritto una tradizione orale non
determinasse la creazione di un falso: per stabilire la verità era
necessario correggere racconti poco credibili. Le storie di Ateneo o
Eliano, ad esempio, erano chiaramente racconti ricchi di pathos per
tenere desta l’attenzione dei lettori. Nel riportare gli eventi
tendevano a ingigantire o mitizzare il passato, travestivano prodotti
della fantasia con i panni di un’opera storica, cambiavano fatti
inverosimili per farli apparire come veri. Diodoro Siculo lamentava
che gran parte delle storie prodotte in passato avesse una scarsa
utilità poiché gli autori avevano una visione limitata e perché, non
avendo documenti sufficienti per scriverle, «trapassarono il racconto
delle favole»26. Tucidide aggiungeva quanto fosse difficile credere a
tutte le narrazioni storiche e che fosse necessario analizzare bene le
fonti perché i testimoni spesso non restituivano la stessa versione
degli avvenimenti ma li raccontavano seguendo le proprie simpatie27.
Ecateo di Mileto, considerato il padre della storiografia greca,
affermava di riportare solo quei fatti che a lui sembravano veri
poiché i testi storici erano molteplici e ridicoli28. Arrivò a mettere in
discussione una serie di vicende mitiche del passato ma Erodoto
sosteneva che era un esaltato: a Tebe, ad esempio, rivendicò origini
divine, collegando la sua stirpe a un dio della «sedicesima
generazione»29.
Ogni autore aveva una soglia che delimitava il meraviglioso dal
normale. Alcuni, ad esempio, erano assertori dei fenomeni prodigiosi
e dell’influenza delle manifestazioni divine sulle vicende umane.
Erodoto non narra un passato leggendario e, a differenza d’Omero,
non fa intervenire un dio in ogni evento, ma è convinto che le
divinità, attraverso segni premonitori o per bocca d’oracoli, agissero
per avvertire un popolo quando stava per essere colpito da grandi
sventure30. A proposito dei vaticini, come quelli «chiari» fatti da
Bachide, affermava che nessuno poteva mettere in discussione i suoi
poteri e smentire la veridicità delle sue predizioni31.
Non conosciamo bene quale fu la funzione degli storici nel mondo
antico ma si può ipotizzare che il loro potenziale pubblico fosse più
vasto rispetto a quello di un retore. Lo storico diventava l’oratore
ideale per trasmettere insegnamenti paradigmatici e lo scopo delle
loro avvincenti narrazioni non era solo quello di stupire il pubblico
ma affermare la propria ideologia. I racconti epici e apologetici
degli storici avevano un uso politico: rivalutare o disprezzare una
parte del passato e proporre valori morali che contribuissero a
formare una nuova coscienza.
L’obiettivo degli storici era mostrare la verità e, a tale scopo,
l’efficacia rivelatrice dei racconti era più importante
dell’attendibilità dei documenti: per dare credibilità alle proprie
idee usavano in maniera disinvolta le fonti, i fatti erano modificati se
non addirittura inventati, il non vero era mescolato al vero
risultando, a volte, più credibile di quest’ultimo. I racconti
leggendari attraverso il loro fascino affermavano principi che
divulgati, pur se fondati su fonti false, diventavano plausibili. Il
tempo avrebbe dato autorità e attendibilità alle narrazioni. Anche se
inconsapevolmente, gli autori mettevano in atto un meccanismo
simile alla calunnia: calunniare, calunniare, calunniare, perché alla
fine qualcosa resti32.
Gli storici antichi non volevano raggirare i lettori ma affermare un
modello di ethos dominante, stabilire ciò che era giusto e ciò che non
lo era; non erano uomini al di fuori della società ma comunicavano
esigenze condizionate dal proprio ambiente. Esprimevano la
tradizione che avevano ereditato ed erano essi stessi prodotto della
storia, il loro lavoro era esistenziale oltre che conoscitivo:
comprendere il passato per mezzo del presente e il presente per
mezzo del passato; studiare gli avvenimenti passati per comprendere,
giustificare o condannare il presente. Dialogare col passato era
anche un mezzo per risolvere problemi attuali e dare forma al futuro.
Diodoro Siculo spiegava ai lettori che i compiti principali della
storia fossero: esaltare la patria, togliere le «seduzioni e tentazioni
de’ misfatti» e minacciare i cattivi di «infamia perpetua»33.
A volte, consapevole della poca attendibilità dei racconti, lo
storico precisava di riportare fatti appresi da altri senza sentirsi
obbligato a credervi, altre volte prendeva le distanze da chi lo aveva
preceduto e ne criticava aspramente il lavoro. Polibio, ad esempio,
accusava Timeo di essere fazioso: riportava cose false
deliberatamente e non per mancanza di conoscenza degli eventi34.
Egli rimproverava molti autori di aver scritto le storie unicamente
per ricercare la popolarità, proprio come quei ciarlatani che
vendevano farmaci e utilizzavano ogni occasione per ingraziarsi il
pubblico allo scopo di guadagnarsi da vivere35. Plutarco criticava
Ctesia per avere inserito nei libri un variopinto miscuglio di cose
non credibili che mortificavano il suo mestiere36. E Diodoro Siculo
rimproverava Erodoto perché nei racconti faceva prevalere gli
elementi inverosimili e sbalorditivi37.
Polibio affermava in maniera chiara che il mestiere dello storico
non si limitasse a riportare i fatti, ma anche a ricercare le ragioni per
le quali i fatti fossero accaduti. Parlando della storia degli Achei nel
Peloponneso, riguardo ad alcuni avvenimenti, scriveva che fosse
inopportuno parlare di “fortuna” e che sarebbe stato meglio
ricercarne le cause. Senza le cause, infatti, non accadeva nulla, né
ciò che sembrava avvenire secondo ragione, né ciò che sembrava
avvenire contro ragione38. La nuda esposizione degli avvenimenti
avvinceva ma non recava utilità, la storia era fruttuosa solo se si
individuavano le cause, anche se molti, poiché era faticoso e
difficile, preferivano «ammucchiare frasi nei libri»39. Per questo
motivo molti storici apparivano come certi conferenzieri i quali,
dispensatori di banalità, sostenevano che in tempo di guerra ciò che
al mattino sveglia gli uomini è il suono della tromba, mentre in tempo
di pace è il canto del gallo; la guerra è simile alla malattia, mentre la
pace è simile alla salute; in tempo di pace i vecchi vengono sepolti
dai giovani, mentre in tempo di guerra avviene il contrario; in guerra
non esiste sicurezza neanche nella propria casa, mentre in pace si
estende oltre ai confini40.
1. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 19, p. 215; VIII, 13, p. 211. Cfr.
Carmelo Fucarino, Pitagora e il vegetarianismo, Giannone, Palermo
1982.
2. Porfirio, op. cit., 39, p. 279; Giamblico, op. cit., XXIV, 108, pp.
179; 397-399.
3. Porfirio, op. cit., 7, p. 261.
4. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 20, p. 215.
5. Giamblico, op. cit., XXVIII, 147, p. 427; 150, p. 429. Cfr. Marcel
Detienne, Jean-Pierre Vernant, La cucina del sacrificio in terra
greca, Boringhieri, Torino 1982.
6. Aulo Gellio, Le notti Attiche, Unione Tipografico-Editrice
Torinese, Torino 1992, vol. I, p. 437.
7. Ibidem.
8. Diogene Laerzio, op. cit., 36, p. 225.
9. Ivi, 37, pp. 225-227.
10. Giamblico, op. cit., XXV, 114, p. 403. Cfr. Eric Robertson
Dodds, Parapsicologia nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1991.
11. Ateneo, op. cit., 163e, p. 13.
12. Maurizio Giangiulio (a cura di), op. cit., p. 3.
13. Cfr. Maria Timpanaro Cardini (a cura di), Pitagorici.
Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 379.
14. Apuleio, Florida, XV, Editrice Torinese, Torino 1984, XV, pp.
492-493.
15. Giamblico, op. cit., XVIII, 87, p. 383.
16. Polibio, Storie, XII, 26, 2-4, Rusconi, Milano 1987, p. 831.
17. Ivi, XII, 25, 1-5, p. 821.
18. Cfr. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 21-28.
19. Cfr. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, cit., pp.
131-144; Cfr. Id., Il barbaro buono e il falso beato. Sull’invenzione
della storia e della tradizione in una città di provincia, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2013; Id., L’invenzione del calabrese. Intellettuali
e falsa coscienza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.
20. Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, il Mulino,
Bologna 1984, p. 153.
21. Cfr. Marcel Detienne, Jean Pierre Vernant, Le astuzie
dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1999.
22. Biblioteca storica di Diodoro Siculo, I, Proemio, tip. Gio.
Battista Sonzogno, Milano 1820, p. 6.
23. Tucidide, Le storie, Unione Tipografica-Editrice Torinese,
Torino 1982, vol. I, pp. 121-123.
24. Ivi, I, 22, 4, pp. 123-125.
25. Marco Tullio Cicerone, Arringa in difesa di Lucio Flacco, 4, 9,
in Le Orazioni, Unione Tipografica-Editrice Torinese, Torino 1981,
p. 1039.
26. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, cit., p. 5.
27. Tucidide, op. cit., pp. 121-125.
28. Cfr. Carlo Del Grande, Hybris. Colpa e castigo nell’espressione
poetica e letteraria degli scrittori della Grecia Antica (da Omero a
Cleante), Ricciardi, Napoli 1947, p. 213; Giovanni Sole, Sibari.
Storia mitica e miti storici, cit., pp. 63-73.
29. Erodoto, Storie, II, 143, 1, Newton, Roma 1997, p. 153.
30. Ivi, VI, 27, 1, p. 332.
31. Ivi, VIII, 77, p. 464.
32. Ivi, VII, 10, 2, p. 330.
33. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, cit., pp. 2-3.
34. Polibio, op. cit., XII, 12 (7), 1-7, pp. 802-803.
35. Ivi, XII, 3-7, pp. 821-822.
36. Plutarco, La vita di Artaserse, I, 4, in Plutarco, Le vite di Arato e
di Artaserse, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1987, p. 119.
37. Diodoro Siculo, op. cit., X, 24, 1, p. 92.
38. Polibio, op. cit., II, 39, p. 505.
39. Ivi, XII, 25b, 1-2, p. 818.
40. Ivi, XII, 26, 1-8, p. 827.
Diogene e il polpo
Il successo di un alimento non è legato solo a motivazioni
simboliche o rituali ma anche al gusto, non solo alle strutture mentali
ma anche alla qualità delle singole derrate. Se alcuni cibi sono buoni
da pensare, dipende dal fatto che sono buoni da mangiare: il cibo
deve soddisfare lo stomaco prima che la mente1.
L’ostilità dei sacerdoti ebrei ed egiziani nei confronti dei polpi
probabilmente era dovuta al fatto che fossero difficili da cuocere,
non appetitosi e poco digeribili. Astenersi dalle loro carni era una
norma d’ordinaria prudenza, un consiglio per non andare incontro a
dei rischi. I pitagorici legavano il buono da mangiare non solo al
sapore ma anche alle proprietà degli alimenti per tenere in salute il
corpo e l’anima2. Giamblico sosteneva che fossero particolarmente
attenti alla dieta e che furono i primi a studiare con cura gli alimenti
e la loro preparazione3. Porfirio annotava che per Pitagora
esistevano due specie di piaceri: quello che compiaceva il ventre e i
sensi in modo stravagante e dispendioso, paragonabile al canto
omicida delle Sirene e quello che si provava per ciò che era nobile,
giusto e necessario, confrontabile all’armonia delle Muse4. Il vitto
dei pitagorici, per Laerzio, era soprattutto a base di vegetali perché
si potevano mangiare anche crudi e ripudiavano le «varie misture»
perché generavano insani moti nel corpo e nell’anima5. Giamblico
scriveva invece che Pitagora rifiutava quei cibi che producevano
disordine all’organismo ed esortava a evitare tutto ciò che era
d’ostacolo alla facoltà profetica e alla purezza dello spirito6.
Per essere buono da pensare un cibo deve anche essere buono da
mangiare ma lo stesso alimento può essere prelibato in un luogo e
ripugnante in un altro, può essere apprezzato in un’epoca e
disprezzato in un’altra. In un trattato sul vitto e sulle cene degli
antichi, Averani precisava che il modo in cui gli uomini gustavano i
sapori non erano gli stessi e che carestia e abbondanza, prezzo
eccessivo e vile, davano e toglievano il sapore alle vivande. La
stessa età influiva su ciò che era buono da mangiare: i cibi che
allettavano i giovani, ad esempio, non erano apprezzati dai grandi7.
Denys de Montfort, nel saggio sui cefalopodi, scriveva che i polpi
erano ricercati nei convivi degli antichi greci ma che nel corso del
tempo non furono più apprezzati e pochi fra i greci moderni se ne
cibavano. Lo studioso, inoltre, osservava che un cibo simbolo di
lusso e delizia per un popolo fosse considerato nauseabondo e
disprezzabile da un altro e che in uno stesso popolo la fortuna di un
cibo fosse destinata a mutare nel corso del tempo8.
Ai tempi della guerra di Troia si servivano canestri di pane e si
arrostivano allo spiedo succulenti pezzi di bue, pecora, capra o
maiale serviti dalle ancelle ai commensali. Ateneo scriveva che alla
mensa d’Agamennone, offerta ai capi militari, non fosse gradita la
varietà o la ricercatezza dei cibi e che Omero, nonostante la
pescosità del mare greco, non accennasse mai a pranzi di pesce9.
Menelao e i suoi uomini avevano mangiato pesce solo perché
costretti dalla fame e Anassila scriveva che servire pesce arrostito
fosse come trattare gli ospiti da malati e che sarebbe stato meglio
cuocere grugni e piedi d’animali10.
Il mangiatore di carne più noto della Magna Grecia era Milone,
figlio di Diotimo, vincitore di ben sei Olimpiadi11. Diodoro racconta
che in occasione della battaglia contro i Sibariti, si presentò sul
campo cinto dalle corone che aveva conquistato nei giochi e, vestito
con pelle di leone e armato di clava come Ercole, grazie alla sua
straordinaria forza fisica mise in fuga le schiere nemiche12. Pausania
sostiene che fosse in grado di tenere in mano una melagrana senza
farla danneggiare nonostante più persone tentassero di strappargliela
con la forza; reggendosi in piedi su un disco cosparso di grasso,
ridicolizzava chi cercava di buttarlo giù e riusciva a spezzare una
corda legata intorno alla fronte trattenendo il fiato e gonfiando le
vene13. Strabone scrive che a Crotone salvò i sodali della scuola
pitagorica riuniti in un tempio, sostenendone da solo il soffitto
prossimo al crollo14. Ateneo, citando Teodoro di Ierapoli, riferisce
che a tavola bevesse tre boccali di vino e mangiasse dieci chili di
carne e altrettanti di pane15. A Olimpia prese un toro di quattro anni,
lo caricò sulle spalle, lo portò per lo stadio, lo uccise con un pugno,
lo squartò e lo mangiò16. Filarco narra che Milone divorò un toro
stando seduto di fronte all’altare di Zeus e il poeta Dorieo aggiunge
che sollevò l’animale come se fosse un agnello17. Dorieo, infine,
afferma che stupore e prodigio più grandi ci furono quando dinnanzi
a un altare di Pisa, macellò e mangiò da solo un toro mai aggiogato
che aveva portato in processione18.
Il pesce non era un cibo adatto ai guerrieri e agli eroi, ma Ateneo
assicura che gli antichi greci, anche se pensavano che non dava
benefici, mangiassero molto pesce, compresi crostacei e molluschi19.
Timeo di Tauromenio riferisce che diversi filosofi, come lo stesso
Aristotele, prediligevano il consumo di pesce e che Aristippo,
discepolo di Socrate, fu rimproverato da Platone perché ne
comprava in abbondanza20. L’oratore Demostene rinfacciava a
Filocrate dissolutezza e ingordigia perché spendeva tutto il denaro
intascato con i suoi loschi affari in pesce e prostitute21. Diocle, era
talmente ghiotto di pesce che ne inghiotte uno così, caldo da
bruciargli seriamente la volta del palato e da giungere a vendere le
proprie terre per acquistarne in quantità22. Quando morì Carmo,
suonatore di aulo molto ingordo di pesce, Tecnone, decano degli
auleti, fece grigliare sulla sua tomba del pesce23. Aristodemo
racconta che il ghiottone Eufranore, appena seppe che un suo amico
era morto per aver divorato un trancio di pesce troppo caldo,
esclamò: «La morte è proprio una ladra sacrilega!»24. Demilo, gran
mangiatore, durante il banchetto di un nobile sputò su un piatto di
pesce pregiato per gustarlo da solo25. Antifane scriveva che Matone
avesse messo alle sue dipendenze tutti i pescatori della città per
paura di rimanere senza scorte, aveva messo alle sue dipendenze i
pescatori della città mentre Diogitone, nonostante fosse un
democratico, aveva convinto i pescatori a lavorare solo per lui per
avere sempre pesce fresco26.
Al tempo di Pericle, quando Atene giunse al massimo grado di
potenza, sulle tavole si vedevano pesci preparati in vari modi in
luogo dei grandi pezzi di carne27. Eliano racconta che a Rodi chi
mangiava pesce fosse considerato colto e raffinato ed era elogiato
dai concittadini, mentre chi propendeva per la carne era reputato
rozzo e ingordo28. Archestrato di Gela, secondo alcuni precursore di
Epicuro, annotava che nella mensa dei coloni greci i pesci fossero il
cibo più gradito: in alcune città, come Sibari e Siracusa, l’arte della
cucina era stimata al pari delle scienze e vi erano cuochi che
preparavano i pesci con grande maestria. In un trattato di
gastronomia dedicava molta attenzione ai pesci indicandone le
specie più rinomate, i luoghi di provenienza, le stagioni in cui si
pescavano e il modo di prepararli. Riguardo ai polpi scriveva che
ottimi erano quelli che si catturavano in Caria, Taso e Corcira e, se
erano di grandi dimensioni e con la carne dura, per esaltarne il
sapore era sufficiente bollirli e condirli con sale e olio29. Antenore
scriveva che nelle polis greche il lusso era stato introdotto anche nei
pranzi dove si servivano le vivande più costose e diversi oratori
erano costretti a condannare quegli apparecchiatori di tavole che
passavano la loro vita a ingrassare i ventri30.
I nobili chiamavano cuochi di professione per i loro convivi e
gareggiavano per fasto e magnificenza. Fra i patrizi greci che si
recarono a Sicione per partecipare alle gare di corsa e lotta, il nobile
Smindiride, secondo Eliano, arrivò al porto con una galea di
cinquanta remi e con un seguito di mille cuochi, mille uccellatori e
mille pescatori, superando, quindi, le magnificenze dello stesso re31.
Gli storici raccontano che i Sibariti amassero vivere nel lusso e
secondo Timeo, non era un caso che avessero rapporti soprattutto con
Etruschi e Ioni, popoli dediti a ogni tipo di piacere32. Erano amanti
del cibo e incredibilmente ingordi e Zenobio annota che si diceva
«mensa sibarita», quando si volevano indicare lusso smodato e
vivere voluttuoso33. Organizzavano frequenti banchetti e i cuochi che
meglio avevano apparecchiato le vivande erano premiati e i loro
nomi proclamati solennemente durante i sacrifici e le gare sportive34.
Ateneo ricorda che la legge sanciva la possibilità di sfruttare solo
dopo un anno le ricette dei cucinieri artefici di pietanze gustose e
raffinate35. I simposi dei Sibariti erano celebrati dovunque per la
rarità dei piatti e perché gli ospiti erano allietati da grandiosi
spettacoli, come le danze dei cavalli al suono degli auli36.
Gli Spartani si comportavano diversamente. Il cuoco Miteco,
stimato dai greci nell’arte della cucina quanto Fidia in quella della
scultura, recatosi a Sparta per mostrare le sue doti, fu invitato dal
magistrato a ripartire immediatamente dato che i Lacedemoni non
avevano bisogno di cibi delicati, sdegnavano i condimenti e si
giovavano di cibi semplici che li facevano crescere come leoni37.
Antenore scriveva che, a differenza degli altri Greci, desinavano
nelle case solo quando tornavano tardi dalla caccia o quando
dovevano fare sacrifici agli dei. Ogni giorno si recavano nelle
pubbliche mense, dette fiditie, dove il re, gli efori e i cittadini d’ogni
classe mangiavano attorno a tavole di quindici posti con rozze
panche di legno. Tutti portavano mensilmente farina, olio, vino,
formaggio e monete per comprare carne che i cuochi cocevano
lentamente in un brodo nero con l’aggiunta di sale e aceto. Fanore
riconosceva che quello era un modo meschino di desinare e tuttavia
tutti mangiavano con grande appetito, mentre Demonace precisava
che per i cittadini le migliori pietanze fossero la fratellanza e
l’allegria38. Col tempo la dieta alimentare cambiò anche a Sparta. Lo
storico Filarco racconta che a un certo punto i cittadini cominciarono
a non frequentare più le mense comuni perché troppo austere, e a
consumare i pasti nelle case, dove ostentavano coppe preziose e
pietanze preparate in mille modi. Areo e Acrotato cominciarono a
ispirarsi ai fasti della corte persiana, ma furono superati nel lusso da
alcuni nobili al punto che i loro convivi apparivano semplici e
frugali39. Teopompo scriveva che all’epoca di Filippo i nobili
imbandivano tavole sontuose, avevano a servizio rinomati cuochi,
occupavano un gran numero di servi e spendevano per pranzi e cene
più di quanto prima occorresse per feste e sacrifici40.
I Romani nei primi secoli mangiavano soprattutto carne, ma a un
certo punto divennero talmente ghiotti di pesce che, senza badare alle
spese, cominciarono a importarli da tutti i porti del Mediterraneo.
Plinio racconta che Asinio Celere, console del principato di
Caligola, sfidò gli «amatori di triglie» acquistandone una per
ottomila sesterzi41. Secondo Plutarco, erano considerati «golosi»
quei cittadini che andavano spesso in pescheria e così grande era la
loro passione per il pesce di aver preso il cognome di Murena o
Orata42. Licinio Murena costruì vivai per avere a disposizione ogni
specie di pesce e Lucullo fece tagliare una montagna nei pressi di
Napoli per aprire un canale che si congiungesse al mare. Gaio Irrio
aveva fatto costruire una peschiera per le cene trionfali di Cesare che
arrivava a contenere seimila murene e presso Bauli, nella parte verso
Baia, l’oratore Ortensio aveva una murena che amava a tal punto da
piangere quando morì43.
Nei secoli seguenti la presenza del pesce nelle mense
aristocratiche subì una forte riduzione a vantaggio della carne.
Platina agli inizi del Cinquecento notava che i pesci raramente
arrivassero sulle tavole dei ricchi poiché la loro «umida natura»
generava sangue flemmatico, mentre il baccalame danneggiava il
corpo per il sale eccessivo44. Gli studiosi scrivevano che gli animali
marini fossero poco salubri e nutrienti e, soprattutto alcune specie,
come quelli senza squame, rendessero denso il sangue, diminuissero
la traspirazione e provocassero malanni come elefantiasi, scorbuto,
lebbra e melanconia45. Diversi medici rilevavano che le famiglie dei
pescatori si ammalassero più facilmente di scorbuto e lebbra perché
mangiavano pesci e ne respiravano il fetore quando andavano in
putrefazione46. Alcuni storici sostenevano che gli ebrei erano stati
cacciati dall’Egitto perché diffondevano la lebbra e ciò aveva spinto
i rabbini ad aborrire alcuni pesci perché provocavano la malattia47.
In un trattato di polizia sanitaria si legge che la lebbra colpisse
soprattutto nei paesi marini: i Greci, cibandosi solo di pesci, ne
erano più contagiati dei Turchi che consumavano esclusivamente
carne48. In Italia la lebbra sembrava attecchire nei villaggi lungo la
costa; un’inchiesta dell’Ottocento sulla salute pubblica rilevava che
nelle famiglie dei pescatori siciliani, soprattutto quelle di Trapani, la
malattia fosse endemica49.
I medici spesso avanzavano teorie non suffragate da ricerche
attendibili. Il medico Biagi ricordava ai colleghi che la lebbra oltre a
diffondersi nelle zone lungo il mare, era presente anche in Valle
d’Aosta, nella contea di Nizza e in altre zone subalpine. Se nei
borghi di pescatori del Comacchio vi erano molti lebbrosi, in quelli
più insalubri e più poveri del litorale ferrarese, invece, la malattia
era sconosciuta50. In un saggio di tossicologia, De Philippis
sosteneva che alcune specie di pesci comuni, come le orate,
consumate in alcuni periodi dell’anno, fossero in grado di causare
gravi accidenti e in alcuni casi anche la morte51. Le orate, in realtà,
specie quelle che si nutrivano d’ostriche, erano state celebrate da
tutti per la leggerezza delle carni. Carletti scriveva che erano capaci
di somministrare molecole organiche atte a nutrire il corpo senza il
minimo «disordinamento»52. Lacépéde aggiungeva che i Romani le
tenevano in pregio più d’ogni altro pesce per la superiorità del gusto
e la salubrità delle carni e, come il nobile Sergio, soprannominato
«Orata», erano disposti ad acquistarle a prezzi esorbitanti. Le orate
avevano diverse qualità terapeutiche ed erano particolarmente
apprezzate per la loro virtù purgativa, perché guarivano dalle
indigestioni ed erano in grado di neutralizzare alcune sostanze
venefiche53.
Alcuni sanitari, citando antichi studiosi, sostenevano che il pesce
non era dannoso per la salute degli uomini. Aristotele, ad esempio,
aveva osservato che, a differenza degli altri animali, non fossero
affetti da pestilenza, non possedessero qualità malsane e non fossero
proclivi alla corruzione. Diodoro sosteneva che i pesci
abbreviassero i giorni dell’uomo, facendoli però passare esenti dalle
malattie54. Il medico Benzo, autore di un noto saggio su alimenti e
salute, pur non esaltando le qualità dei pesci, ammetteva che gli
abitanti del Nord Europa, nutrendosi essenzialmente delle loro carni,
fossero sani, forti, robusti e atti a ogni fatica55. Bloch osservava che i
popoli ittiofagi vivessero a lungo, perché la loro dieta non produceva
quelle gravi indigestioni che conducevano alla morte chi si nutriva di
animali terrestri56. In un trattato del Settecento su come prolungare la
vita, si legge che il pesce fosse più digeribile della carne e indicato
per chi avesse stomaci delicati: erano preferibili i pesci dalle carni
bianche e non viscosi perché, meno saporiti ma più assimilabili degli
altri57. Bianchi, medico primario di Rimini, nel rivolgersi ad alcuni
novelli pitagorici che sconsigliavano vivamente il consumo dei
pesci, scriveva che gli animali marini fossero saporiti e nutrienti e,
non a caso, il loro prezzo superava quello degli animali terrestri. Per
la «brevità» delle fibre i pesci si digerivano facilmente e le
popolazioni della costa, erano più sane e feconde di quelle
dell’entroterra58.
Secondo alcuni sanitari i pesci erano dannosi perché, a causa del
caldo e della lentezza del trasporto, arrivavano ai mercati già in uno
stato di putrefazione. Per proteggere la salute pubblica, gli
amministratori erano stati costretti a imporre che il pesce fosse
venduto il giorno stesso della cattura59. I pesci guasti provocavano
nausee, vomito, gastriti e febbri intermittenti e, sebbene fosse facile
riconoscerne la freschezza dall’occhio vivo, le branchie rosse, le
carni elastiche e le squame lucide, gli astuti commercianti sapevano
come ingannare i clienti poco accorti60. Sardelle, salacche e aringhe
salate o affumicate, conservate da un anno all’altro, diventavano
nauseabonde e presentavano vermi fra le branchie, mentre il pesce
arrostito e conservato in aceto, che confezionato in autunno si
vendeva contro legge anche in estate, era avariato e puzzolente61. Lo
stoccafisso e il baccalà erano immersi per alcuni giorni nell’acqua
per ammorbidirne le fibre ma alcuni avidi commercianti, per rendere
le carni più voluminose e bianche, li tenevano in una concia
composta di cenere e calce che produceva forti dolori al ventre62.
Verso la metà dell’Ottocento, lo studioso Valieri scriveva che per
ingordigia, economia, abitudine e «soverchio cattolicismo», i
napoletani erano ittiofagi tre giorni la settimana e, di solito,
mangiavano pesce marcio. Il pescato locale non era sufficiente a
soddisfare la domanda e quello trasportato dalla Sicilia, in genere
polpi, tonni, pesce spada, merluzzi, sgombri, lacerti, gronghi e
murene, per il caldo e la lunga traversata, arrivava sempre avariato,
provocando coliche, diarree, febbri e altre malattie63. Per trarre in
inganno anche i più esperti acquirenti, i pescivendoli tingevano le
branchie dei pesci e li avvolgevano con alghe fresche e odorose;
bettolieri, osti e cantinieri, per risparmiare, compravano pesce già
andato a male e lo «accomodavano» cocendolo nei sughi; i cucinieri
di strada acquistavano frattaglie di pesce deteriorato e coprivano il
puzzo friggendolo nella sugna o nell’olio rancido; i venditori di
baccalà e stoccafisso li facevano andare in putrefazione perché
diventavano più teneri e il loro fetore era così forte che in alcuni
quartieri bisognava tenere le finestre chiuse64.
I pesci salati, in genere, erano meno puzzolenti ma, tenuti in luoghi
umidi e sporchi, una volta dissalati, erano nocivi e mostravano la
loro «malignità» dopo uno o due giorni65. Già Eraclide di Taranto
avvisava che i pesci conservati sotto sale, contenenti un «principio
irritante», fossero particolarmente dannosi per lo stomaco e
sconsigliava di mangiarli66. Fortis lamentava che olandesi e
commercianti stranieri scaricassero a Venezia ogni tipo di
baccalame, un cibo maleodorante e insalubre che avvelenava le
povere mense dei contadini67. Per limitare i danni dei pesci freschi e
salati, richiamandosi ai principi della scuola salernitana, alcuni
medici raccomandavano di mangiarne in quantità limitate e sempre
cucinati: il crudo era veleno e il cotto medicina, il cotto sollevava il
corpo e il crudo aggravava lo stomaco68. Savonarola, medico
padovano, avvertiva inoltre che fosse preferibile mangiare il pesce
appena preparato e il miglior modo per cuocerlo era lessarlo con
sale e cinnamomo perché la maggior parte della sua «malizia»
rimaneva nell’acqua69. I medici raccomandavano di non darlo agli
infermi e, negli ospedali romani come quello del S. Spirito di Sassia,
durante il 1708 il pesce non appare mai nel vitto giornaliero dei
ricoverati e del personale sanitario, basato essenzialmente su pane,
pancotto, vino, uova, riso, farro, vermicelli, zucchero, farina e ogni
tanto carne di gallina, vitello o castrato70. Anche negli ospizi non si
dava mai pesce agli assistiti e solo in alcuni, come quello dei Poveri
mendicanti di Napoli che raccoglieva vecchi, storpi e gente colpita
da «maligna fortuna», il sabato si distribuiva un piatto di legumi con
tonnina, sarache, alici salate o baccalà71.
I pesci che arrivavano sulle tavole spesso erano avariati e
provocavano seri danni alla salute ma i sanitari erano del parere che
molti dei loro cattivi effetti dipendessero anche dalla profusione di
aromi e spezie con cui si cucinavano72. Ippoloco, descrivendo un
pranzo offerto alle nozze di Carano in Macedonia, narra che furono
servite pietanze d’ogni tipo, tra cui un grosso maiale arrosto disteso
su un vassoio d’argento con la pancia piena di cibi gustosi tra cui
tordi, matrici di scrofa, beccafichi, torli d’uova, pesci, ostriche e
pettini73. Corrado, diversi secoli dopo, consigliava di riempire le
spigole con un ragù d’animelle e rognone di bue, di cuocerle con
butirro, erbe e sugo di carne, servendole con «lolì» di vitello;
occorreva friggere le linguattole nello strutto e, dopo aver cavato la
spina, riempirle con salsa di carne e midollo di manzo, tuorli d’uova
ed erbe aromatiche. Dopo averle ingrassate con burro andavano
arrostite e coperte con salsa di butirro, sugo di limone, ragù di funghi
o tartufi e una salsa di gamberi e bottarga. L’ombrina poteva essere
preparata con un impasto di burro, uova, cedro candito, pistacchi,
erbette tritate, panna e pane bagnato nel latte74. Per fare un pasticcio
di pesce, Upezzinghi consigliava acciughe, tinche, reine, anguille,
erbette odorose, cipolle, mostacciolo in polvere, capperi, pioppini,
prugnoli, uva passa, scorza di cedro, limone, aceto, vino bianco e
aromi vari75.
Sulla bontà dei pesci i pareri erano discordi ma tutti gli scrittori
concordavano nel ritenere i polpi dannosi per la salute. Si
raccontava che Diogene di Sinope, detto il «cinico», mangiò un
polpo crudo e, rivolgendosi ai sacerdoti che lo guardavano,
coprendosi col mantello prima di morire, disse di essersi esposto a
quel rischio per causa loro: rischio pari a quello che Pelopida e
Aristogene affrontarono per liberare rispettivamente Tebe e Atene
dai tiranni76! Macone scriveva che il poeta Filosseno, ghiotto di
pesce oltre ogni misura, comprò a Siracusa un polpo di due cubiti, lo
cucinò e lo mangiò, evitandone la testa. Ebbe una grave indigestione
e il medico, vedendo che era ormai in fin di vita, gli consigliò di fare
testamento. Lui disse di aver stabilito da tempo a chi lasciare
l’eredità e, poiché Caronte lo invitava ad affrettarsi al traghetto,
chiese di poter mangiare gli avanzi del polpo77!
Non sappiamo se queste storie abbiano un fondamento. Alcuni
scrittori, ad esempio, sostengono che Diogene si uccise trattenendo il
respiro e, altri, che fosse stato sbranato da cani78. Sulla fine di
Filosseno di Citera ci sono versioni diverse. Durante una cena
Dionigi gli mostrò alcuni versi per averne l’approvazione e, quando
gli disse che erano pessimi, irritato lo fece rinchiudere nella terribile
«petriera». Invitato nuovamente dal tiranno ad ascoltare altre rime,
non migliori delle precedenti, Filosseno si alzò dalla tavola e chiese
di essere ricondotto in prigione. Dionigi si mise a ridere e lo pregò
di rimanere nella polis ma il poeta lasciò Siracusa per trasferirsi a
Taranto e poi a Efeso, dove morì all’età di sessant’anni79. Ateneo,
invece, racconta che Filosseno, amante del pesce e dei banchetti, si
ubriacava volentieri con Dionigi ma un giorno, sorpreso a insidiare
Galatea, favorita del tiranno, fu rinchiuso nelle «Lotomie», cave di
pietra di Siracusa adibite a bagno penale80.
Le narrazioni mitiche riferite ai polpi sono raccontate in modo
diverso e decifrarle, come sostiene Lévi-Strauss, è possibile solo
attraverso l’analisi delle innumerevoli varianti contenenti i modelli
fondamentali di natura logica ricorrenti81. Il mito, attingendo e
riadoperando materiali, utilizzando residui e frammenti d’eventi,
appare come una forma di «bricolage» intellettuale82. Alcuni racconti
leggendari, tuttavia, pur apparendo assurdi, erano riferiti alla realtà e
servivano a rivelare un inconscio sociale. Le storie inverosimili
raccontavano esperienze, trattavano aspetti dell’esistenza,
mostravano i conflitti tra forze umane e naturali, cercavano di
stabilire un equilibrio tra l’uomo e l’ambiente.
Le narrazioni drammatiche su Diogene e Filosseno, probabilmente
erano descrizioni deformate della storia, di avvenimenti realmente
accaduti. Alcuni cibi erano ritenuti pericolosi per la salute degli
uomini e il mito, suscitando meraviglia e timore li spingeva a esseri
cauti. I tabù segnalavano i rischi che si potevano incontrare
mangiando alcuni alimenti, tendevano a limitare o localizzare una
minaccia, definivano culturalmente cibi indigesti o velenosi. Il
divieto di mangiare polpi probabilmente non aveva ragioni
misteriose ma era una semplice raccomandazione: le loro carni
particolarmente indigeste non favorivano la sanità del corpo e
dell’anima. La fine di Diogene e Filosseno era un modo semplice per
avvisare che i polpi potessero essere dannosi per la salute e che
bisognasse usare una certa cautela nel cibarsene; i racconti mitici
segnalavano la pericolosità d’alcuni cibi e gli uomini, invece di
interrogarsi sulle ragioni del divieto, ne rimanevano colpiti e li
rispettavano83.
Nel corso dei secoli il polpo non è stato mai apprezzato nelle
mense perché le sue carni erano dure, tigliose e di non facile
digestione. Galeno scriveva che i pesci senza squame e dalla pelle
simile a quella umana, come seppie, calamari, totani e polpi, anche
se davano discreto nutrimento, erano difficili da assimilare84. I
medici della scuola salernitana, sostenevano che non bisognasse
mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, erano
resistenti alla digestione e avvelenavano il sangue85. Alcuni manuali
di cucina avvertivano che in generale i molluschi fossero tossici
quanto i funghi e particolarmente indigesti fossero i tentacoli e le
ventose dei polpi86. Palmieri ribadiva che bisognava evitare il
consumo di pesci senza squame come anguille, ostriche e polpi
perché particolarmente difficili da digerire per le carni tigliose87. In
un trattato in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i
polpi incitassero all’incontinenza, erano poco nutrienti e
particolarmente dannosi per lo stomaco88. Un’inchiesta dedicata
all’alimentazione del popolo minuto avvisava che sebbene i polpi
non fossero privi di sostanze nutritive, non bisognasse abusarne per
la presenza di parti «gelatinifere» che si assimilavano con
difficoltà89.
Indicati concordemente come dannosi per la salute, i polpi erano
tra i pesci meno apprezzati. Le ventose presenti sui tentacoli erano
sgradevoli e la carne talmente coriacea che bisognava trattarla prima
di essere cucinata. Ancora oggi lungo le coste del Mediterraneo è
possibile vedere i pescatori sbattere con forza i polpi sugli scogli
per farne intenerire le carni. In passato si stendevano sopra una
tavola e, con le mani bagnate nell’acqua fresca, si rimenavano come
per fare una «insaponata» fino a che i tentacoli, gonfiandosi,
diventavano più teneri e si assimilavano meglio90. Nei modi di dire,
spesso il polpo era usato come metafora per indicare una persona
dalla testa dura che occorreva percuotere per rabbonirla. Aristofane
racconta di un uomo poco raccomandabile che bisognava battere «a
mo’ di polpo ispessito», mentre Platone, annunciando una sonora
lezione a uno schiavo, scriveva che occorresse menarlo come si
faceva con i polpi91.
L’octopus aveva una natura maligna, si dilettava di cose amare e
per questo motivo non viveva nel mare di Negroponte dove, per i
molti fiumi che vi sfociavano, le acque erano più dolci92. Era
considerato un essere immondo e, non a caso, le escrescenze carnose
che si sviluppavano nel naso e in altre parti del corpo umano erano
chiamate «polipi». Quei bubboni maligni che provocavano tormenti,
se non erano tagliati alla radice ricrescevano come i tentacoli dei
polpi93. Partendo dal principio che il simile curava il simile, per
neutralizzare il «morbo del polpo» si consigliava anche l’«erba
polpo», una pianta irsuta, piena di bocche cavernose e con le braccia
come quelle del mollusco94.
I giudizi negativi nei confronti dei polpi non devono tuttavia
indurci a pensare che fossero disprezzati nelle mense dell’antichità.
Egemone nella Filinna racconta che un padrone ordinò a un servo di
andare subito al mercato e di comprargli un bel polpo da cuocere in
padella95. Anassandride nel Protesilao, descrivendo il simposio per
le nozze d’Ificrate con la figlia del re di Tracia, narra che a tavola
furono serviti pentole di miglio, dodici cubiti di lampascioni e una
gran quantità di polpi96. Antifane nell’Eutidico riferisce che in un
pranzo tra alcuni notabili della città, furono serviti gustosi pezzetti di
polpo lesso in preziosi piattini97. Epicarno nelle Sirene, scriveva che
di buon mattino, allo spuntar del sole, gli abitanti mettevano sulla
griglia alici tondeggianti, carne di maiale e grossi polpi,
annaffiandoli con del buon vino98. Il poeta comico Platone,
ricordando il Banchetto di Filosseno di Leucade, annotava che per
quanto i tentacoli di un polpo grande fossero particolarmente duri, se
battuti a puntino e bolliti divenivano squisiti99.
1. Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e
consuetudini alimentari, Einaudi, Torino 1992, p. 5.
2. Giamblico, op. cit., XXXI, 208, p. 469.
3. Ivi, XXIX, 163, p. 439.
4. Porfirio, op. cit., 39, p. 279.
5. Diogene Laerzio, op. cit., VIII, 13, p. 211.
6. Giamblico, op. cit., XXIV, 106, p. 397.
7. Giuseppe Averani, Del vitto e delle cene degli antichi, G. Daelli
e C. editori, Milano 1863, p. 27.
8. Pierre Denys de Montfort, op. cit., p. 434.
9. Ateneo, op. cit, I, 8e-9d, vol. I, pp. 28-32.
10. Ivi, I, 95a, 48, vol. I, p. 256. Cfr. Ernst Guhl, Wilhelm Koner, La
vita dei greci e dei romani ricavata dagli antichi monumenti,
Loescher, Roma-Torino-Firenze 1875, pp. 295-301.
11. Pausania, Viaggio in Grecia. Guida antiquaria e artistica,
Milano, Rizzoli, Milano 2001, VI, 5-9, p. 365.
12. Diodoro Siculo, op. cit., XII, 9, 5-6, p. 279.
13. Pausania, Guida della Grecia, Mondadori, Milano 1999, VI, 14,
5-8, pp. 89-91.
14. Strabone, Geografia d’Italia, cit., VI, 12, p. 239.
15. Ateneo, op. cit., X, 412e, vol. II, p. 1024.
16. Ivi, X, 412f, vol. II, p. 1024.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ivi, I, 13a, vol. I, p. 44.
20. Ivi, VIII, 342c-343e, vol. II, pp. 842-845.
21. Ivi, VIII, 343e, vol. II, p. 845.
22. Ivi, VIII, 344d, vol. II, p. 847.
23. Ibidem.
24. Ivi, VIII, 345a, vol. II, p. 850.
25. Ibidem.
26. Ivi, VIII, 343b, vol. II, p. 843.
27. Francesco Zanotto, op. cit., pp. 132-148.
28. Eliano, op. cit., p. 46.
29. I frammenti della gastronomia di Archestrato, Reale Stamperia,
Palermo 1823, pp. 35, 45.
30. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie
sopra l’Egitto, cit., p. 176.
31. Eliano, op. cit., p. 217. Cfr. Erodoto, Storie, Newton, Roma
1997, VI, 127, 1, p. 363.
32. Ateneo, op cit., XII, 519d, vol. III, p. 1291.
33. Zenobio, op. cit., p. 221.
34. Ateneo, op. cit., XII, 519d, pp. 1291-1292.
35. Ivi, XII, 521b, p. 1296.
36. Ivi, XII, 519d, p. 1291.
37. Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia, presso la Reale
Stamperia, Palermo 1827, t. XIX, a. V, luglio-agosto-settembre, pp.
210-215.
38. Viaggi d’Antenore nella Grecia e nell’Asia con alcune notizie
sopra l’Egitto, cit., pp. 13-18.
39. Ateneo, op. cit., IV, 141f, vol. I, p. 364.
40. Ivi, VI, 275b, vol. II, pp. 651-652.
41. Plinio, op. cit., vol. II, pp. 334-335.
42. Giuseppe Averani, op. cit., p. 28.
43. Plinio, op. cit., vol. II, p. 397; Giuseppe Averani, op. cit., pp. 2738.
44. Bartholomaeus Platina, De honesta voluptate & valetudine
vulgare, s.e., Venetia 1508, p. 84.
45. Cfr. Girolamo Pozzoli, op. cit., p. 649; Francesco Zanotto, op.
cit., pp. 801-802; Bloch Marc Elieser, Storia naturale de’ pesci, per
Batelli e Figli, Firenze 1834, pp. 202-204; Viaggi d’Antenore nella
Grecia e nell’Asia con alcune notizie sopra l’Egitto, cit., p. 87. Cfr.
Pierre Rayer, Trattato teorico pratico dei mali della pelle, coi tipi
di Paolo Andrea Molina, Milano 1830, pp. 643-649.
46. Cfr. James Lind, Trattato dello scorbuto, presso Niccolò
Pezzana, Venezia 1776; Jean Louis Alibert, Compendio teoricopratico sulle malattie della pelle, presso Guglielmo Piatti, Firenze
1820.
47. Benedetto Frizzi, Dissertazione sulla lebbra degli Ebrei, presso
Wage, Fleis e Comp., Trieste 1795, pp. 75-86. Cfr. Giovan Pietro
Frank, Del metodo di curare le malattie dell’uomo, Guglielmo
Piatti, Firenze 1830, pp. 175-178.
48. Johann Peter Frank, op. cit., p. 28; Dizionario d’ogni mitologia e
antichità, presso Barelli e Fanfani, Milano 1823, p. 649; Andrea
Verga, Sulla lebbra. Commentario, coi tipi di Luigi Di Giacomo
Pirola, Milano 1846, p. 32; Giuseppe G. De Cigalla, Dell’elefantiasi
o lebbra greca, presso la Società per la pubblicazione degli annali
universali delle scienze e dell’industria, Milano 1865, p. 89.
49. Giuseppe Gordini, Luigi Michelotti, Nuovo Mercurio delle
Scienze Mediche, al Gabinetto Scientifico - Letterario, Livorno
1829, t. I, pp. 169-170; Giacomo Adragna, Nuovi fatti e ragioni
comprovanti la non esistenza dell’elefantiaco contagio, Giornale di
Scienze Lettere e Arti per la Sicilia, t. XXXVIII, a. X, aprilemaggio-giugno, 1832, pp. 17-30.
50. Clodoveo Biagi, Risposta al quesito sulla lebbra che
presentemente si trova in Italia, in Bullettino delle scienze
mediche. Pubblicato per cura della Società Medico-Chirurgica di
Bologna, tip. alla Volpe, Bologna 1846, serie 3, vol. 10, p. 83. Cfr.
Francesco Molletta, Dissertazione epistolare intorno ad una
particolar malattia che credesi lebbra, nella Stamperia di Pompeo
Polloni e Figli, Pisa 1773; Benedetto Trompeo, Cenni sui lebbrosi
della contea di Nizza, estratto dal «Giornale delle Scienze
Mediche», ottobre 1843; Id., Cenno sulla lebbra, tip. Nistri, Pisa
1845, p. 4; Andrea Verga, Sulla lebbra. Commentario, coi tipi di
Luigi Di Giacomo Pirola, Milano 1846, pp. 128-129.
51. Pietro De Philippis, Tossicologia teorico-pratica ossia de’
veleni e de’ contravveleni, dalla tipografia di Agnello Nobile,
Napoli 1826, p. 101.
52. Niccolò Carletti, Storia della regione abbruciata in campagna
felice, nella Stamperia Reale Raimondiana, Napoli 1787, p. 360.
53. Conte di Lacépéde, Storia naturale dei quadrupedi ovipari dei
serpenti e de’ pesci, al Negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820,
vol. V, pp. 320-321.
54. François Della Motta Le Vayer, Scuola de’ prencipi e de’
cavalieri cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economia, la
politica, la logica e la fisica, per Giacomo Monti, Bologna 1677, p.
222.
55. Ugo Benzo, Regole della sanità et della natura de cibi, per gli
Heredi di Gio. Domenico Tarino, Torino 1620, p. 496.
56. Bloch Marc Elieser, op. cit., p. 204.
57. Metodo facile di prolungare la vita con piccola attenzione
intorno à nostri cibi e bevande, presso Bartolomeo Capitani,
Macerata 1794, pp. 202-203, 240; Fulvio Gherli, op. cit., pp. 184185.
58. Giovanni Bianchi, Se il vitto pittagorico di soli vegetabili sia
giovevole per conservare la sanità, e per la cura d’alcune malattie,
presso Giambattista Pasquali, Venezia 1752, p. 60. Cfr. Antonio
Pujati, Riflessioni sul vitto pitagorico, per Odoardo Foglietta, Feltre
1751; Angelo Zulatti, Lettera del dottore Angelo Zulatti di
Cefalonia scritta ad un medico anonimo suo amico sopra le
riflessioni sul vitto pitagorico di Giuseppe Antonio Puiati primo
medico di Feltre, nella Stamperia Imperiale, Firenze 1752.
59. Pietro Desiderio Pasolini, Gli statuti di Ravenna, tip.
Calasaziana, Firenze 1868, pp. 144-146.
60. Emilio Briccio, Nozioni generali di polizia veterinaria con
aggiunte le principali norme e disposizioni vigenti, tip. degli Eredi
Bizzoni, Pavia 1858, p. 134.
61. Ibidem.
62. Ivi, pp. 137-138.
63. Raffaele Valieri, Storia della Commissione igienica della
sezione Pendino del 39 giugno 1865 al 31 dicembre 1866, stab. tip.
di G. Nobile, Napoli 1867, p. 242.
64. Ivi, pp. 172; 218-225.
65. Pietro Andrea Matthiolo, Il sesto libro di Pedacio Dioscoride
Anazarbeo, in cui si tratta dei rimedi de i veleni mortiferi, tanto
preservativi, quanto curativi, alla Bottega d’Erasmo appresso
Vincenzo Valgrisi, Vinegia 1548, p. 81.
66. Ateneo, op. cit., III, 120f, vol. I, p. 315.
67. Alberto Fortis, Viaggio in Dalmazia, presso Alvise Milocco,
Venezia 1774, pp. 168-169.
68. Fulvio Gherli, op. cit., p. 342.
69. Michel Savonarola, Libro della natura et virtù delle cose che
nutriscono & delle cose non naturali, con alcune osservationi per
conservar la sanità, & alcuni quesiti bellissimi da notare, appresso
Domenico & Gio. Battista Guerra, Venezia 1575, p. 154.
70. Diario distinto di tutto quello, che si è somministrato giorno
per giorno dalla dispensa del sacro ed apostolico archiospedale Di
S. Spirito in Sassia di Roma per servizio degl’infermi nell’anno
1708. Aggiuntovi un ristretto del consumo fatto per il vitto di 110
uomini di famiglia che continuamente stanno al servizio di detti
infermi, per Francesco Gonzaga, Roma 1709. Cfr. La cucina degli
stomachi deboli, ossia pochi piatti non comuni, semplici,
economici e di facile digestione con alcune norme relative al buon
governo delle vie digerenti, coi tipi di Giuseppe Bernardoni di Gio.,
Milano 1858.
71. Gioseppe Pandolfi, La povertà arricchita, o vero l’Hospitio de
poveri mendicanti, per Egidio Longo Stampatore della Regia Corte,
Napoli 1671, pp. 243-244.
72. Giangiorgio Zimmermann, Della esperienza nella medicina,
presso gli Editori Schiepatti, Truffi e Fusi, Milano 1830, p. 363. Cfr.
Antonio Maria Della Porta, Dei danni del vitto moderno e del modo
di usarne utilmente, per Giuseppe Bolzani, Pavia 1772.
73. Ateneo, op. cit., IV, 128d, vol. I, p. 332.
74. Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, nella Stamperia
Raimondiana, Napoli 1773, pp. 76-77.
75. Francesco Upezzinghi, Il cuoco in villa, ovvero modo facile, e
frugale di cucinare alcune vivande usuali in versi sciolti, nella
Stamperia Centrale, Urbino 1719, pp. 31-33.
76. Opuscoli di Plutarco, cit., p. 510.
77. Ateneo, op. cit., VIII, 341e, vol. II, p. 839. Cfr. Alfio Francesco
Ferrara, Storia generale della Sicilia, presso Lorenzo Dato, Palermo
1833, t. VI, p. 84; Giuseppe Alessi, Memoria da servire di
introduzione alla zoologia del triplice mare che cinge Sicilia, in
Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze naturali di Catania, tip.
all’Insegna dell’Etna, Catania 1836, t. XI, p. 103; Tommaso Garzoni,
La piazza universale di tutte le professioni del mondo, e nobili et
ignobili, appresso Gio Battista Somascho, Venetia 1586, pp. 779780.
78. Antonio Foresti, Mappamondo istorico, cioè ordinata
narrazione dei quattro sommi imperj del mondo, per Girolamo
Albrizzi, Venezia 1695, pp. 302-303; Giuseppe Carletti L’incendio
di Tordinona poema eroicomico con alcune annotazioni, s.e.,
Venezia 1781, p. 309.
79. Biografia universale antica e moderna ossia storia per alfabeto
della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero
per opere, azioni, talenti, virtù e delitti, presso Gio. Battista
Missiaglia, Venezia 1825, vol. XXI, pp. 57-59; Gli elementi della
storia, ovvero ciò che bisogna sapere della cronologia, della
geografia, della storia universale, della chiesa del Vecchio
Testamento, delle monarchie antiche, della chiesa del Nuovo
Testamento, delle monarchie novelle e del blasone, avanti di
leggere la storia particolare, con una serie di medaglie imperiali,
da Giulio Cesare sino ad Eraclito, presso Giambattista Albrizi,
Venezia 1738, t. III, p. 77.
80. Ateneo, op. cit., I, 11d, vol. I, p. 22.
81. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 243.
82. Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano
1964, pp. 31-35. Cfr. Kurt Hubner, La verità del mito, Feltrinelli,
Milano 1990.
83. Cit. da Franz Baermann Steiner, Tabù, Boringhieri, Torino 1980,
p. 157.
84. Galeno, Della natura et vertù di cibi, per Giovanni Bariletto,
Venetia 1562, pp. 92-93.
85. Fulvio Gherli, op. cit., pp. 304-305.
86. Cfr. Amedeo Pettini, Manuale di cucina e pasticceria, Fratelli
Marescalchi, Casale Monferrato 1914.
87. Adone Palmieri, Piccolo manuale di medicina popolare per
tenere lungi le più comuni malattie ed il colera morbus e per
guarirle con semplici mezzi, tip. Forense, Roma 1855, p. 16.
88. Michelangelo Prunetti, Metodo preservativo per vivere
dovunque e specialmente in Roma nel più perfetto stato di sanità
sia pur chiunque di qualsivoglia sesso e condizione, giovane o
vecchio ec. senza il soccorso di medicamenti, presso Francesco
Bourliè, Roma 1825, p. 119.
89. Achille Spatuzzi, Luigi Somma, Sull’alimentazione del popolo
minuto in Napoli, stamperia della Reale Università, Napoli 1863, p.
45.
90. Paulo Zacchia, Il vitto quaresimale, per Pietro Antonio Facciotti,
Roma 1636, pp. 154-155. Cfr. Dizionario delle scienze naturali nel
quale si tratta metodicamente dei differenti esseri della natura,
cit., p. 205.
91. Ateneo, op. cit., VII, 316b, vol. II, p. 766.
92. Giovanni Pierio Valeriano, op. cit., p. 352. Cfr. Ulyssis
Aldrovandi, op. cit., p. 17.
93. Melli Sebastiano, Pratica chirurgica nella cura di tutte le
ferite, tumori, ulcere, escrescenze ed ogni altro malore, appresso
Antonio Bortoli, Venezia 1724, p. 460; Giuseppe Nessi, Instituzioni
di chirurgia, presso Francesco di Niccolò Mezzana, Venezia 1788,
pp. 200-265; August Gottlieb Richter, Elementi di chirurgia, tip.
Nistri e C., Pisa 1831, pp. 1-48.
94. Gio. Battista Della Porta, Della magia naturale, appresso
Antonio Bulifon, Napoli 1677, p. 22.
95. Ateneo, op. cit., III, 108d, vol. I, p. 284.
96. Ivi, I, 131d, vol. IV, p. 337.
97. Ivi, IV, 169d, vol. I, p. 421.
98. Ivi, VII, 277e, vol. II, p. 660.
99. Ivi, I, 17-19c, vol. I, p.18.
Polpo in cucina
Gli scalchi, al servizio di nobili e alti prelati, nei banchetti
sontuosi organizzati in occasione di feste, nozze e cerimonie, per i
piatti a base di pesce utilizzavano soprattutto lamprede, dentici,
triglie, ombrine, spigole, linguattole, storioni, trote, ostriche, gamberi
e granchi. I cuochi non amavano i cefalopodi e prendevano in
considerazione solo i calamari perché le loro carni erano meno
coriacee, più gustose e versatili1. Il maestro Martino nel XV secolo
consigliava di cucinare i calamari piccoli come si faceva con le
tinche «rovesciate». Occorreva amalgamare parti del mollusco con
rosso d’uovo, prugne damascane, ciliegie, uva passa, pinoli, olio,
aglio, pepe, safrano, prezzemolo ed erbe odorifere. Una volta
riempito con l’impasto, si legava il calamaro con un filo così da
ritenere il ripieno e poi metterlo a rosolare lentamente sulla
graticola, oppure si friggeva nell’olio e si cospargeva con succo
d’arancia e spezie. Il calamaro grosso andava invece tagliato a pezzi,
lessato e, una volta ben cotto, ricoperto con prezzemolo e aromi
oppure era riempito con mandorle tostate, bollito con vino bianco e,
una volta stemperato, fritto nell’olio con l’aggiunta di cannella,
zenzero e chiodi di garofano2. Il cuoco bolognese Pisanelli nel XVI
secolo scriveva che i calamari erano molto apprezzati per il loro
gusto delicato e consigliava di infarinarli, friggerli e coprirli con
succo d’arancia, oppure cuocerli con olio, vino, pepe ed erbe
odorifere. Per mangiare i calamari grandi, come per i polpi, ci
volevano tuttavia stomaci gagliardi, perché difficili da assimilare3.
Latini nel XVII secolo annotava che i calamari, sebbene di difficile
digestione, fossero utili allo stomaco e di gran nutrimento. Quelli
piccoli, più teneri e gustosi, si potevano preparare in diversi modi
anche se, per esaltare le loro qualità, bisognava friggerli nell’olio4.
Corrado nel XVIII secolo suggeriva di cuocere i calamaretti con
sale, pepe e sugo di limone mentre quelli grandi lessarli con olio,
limone e prezzemolo per servirli poi con salsa d’aragosta. Si
potevano anche preparare in un brodo di cappone con pezzi
d’anguilla, capperi, acciughe, tartufo e prezzemolo, oppure con carne
tritata, midollo di manzo, erbette e spezie varie. Particolarmente
gustosi se dorati in uova sbattute, impanati con pane e parmigiano e,
una volta fritti, coperti con abbondante prezzemolo5. Vialardi, capo
cuoco e pasticcere alla corte sabauda nel XIX secolo, consigliava di
nettare e tagliare i calamari a nastrini, marinarli per due ore con sale,
prezzemolo, pepe e sugo di limone, infarinarli e friggerli in
abbondante olio. Squisiti erano quelli farciti con carne di luccio,
butirro, pane cotto, rossi d’uovo, sale, aglio, noce moscata,
besciamella, tartufi, funghi e poi fritti nel butirro con vino bianco6.
Nebbia, invece, suggeriva di riempire i calamari con un impasto di
sardelle, capperi, pane, pinoli tostati e rosso d’uova, metterli a
cuocere in una casseruola e servirli con una salsa di carote. Erano
gustosi anche soffritti con sale, spezie, cipolla, maiorana, spinaci e
coperti con senape in aceto o cotti in abbondante olio e serviti con
salsa verde e abbondante salvia7.
Sempre tesi a sperimentare nuove ricette per avere riconoscimenti
dai loro signori, i grandi cucinieri non amavano preparare i polpi
poiché li consideravano una pietanza di scarso valore e
mortificavano la loro creatività. Nel trattato di cucina Apicio non
riservava molta attenzione al polpo limitandosi a suggerire di
lessarlo e servirlo con pepe, savóre e radice di laser8. Nel Liber de
coquina, uno dei ricettari più antichi della cucina medievale, si
consigliava di tagliare il polpo, soffriggerlo con olio e cipolle e,
quando era quasi cotto, aggiungere maggiorana, prezzemolo e altre
spezie. Si aggiungeva poi pane arrostito, zafferano, noci avellane,
mandorle peste e, se lo si desiderava dolce, sugo di cetrangolo con
zucchero9. In un libro di gastronomia del Quattrocento si
proponevano varie ricette per seppie e calamari, mentre per polpi e
moscatelli si legge fossero buoni solo da lessare e condire con sale e
comino10. Maestro Martino scriveva che il polpo fosse un pesce vile
e «da non farne stima» e quindi ognuno poteva prepararlo come
meglio voleva11. Platina nel Cinquecento annotava che il polpo, così
chiamato per la moltitudine dei piedi, in cucina fosse il peggiore tra i
pesci perché, in qualsiasi modo si coceva, non era mai buono12.
Rossetti suggeriva vari modi per preparare seppie e calamari ma
riguardo al polpo affermava che valeva poco e consigliava di
prepararlo bollito o fritto13. Cervio, in un poderoso saggio su come
trinciare gli alimenti, prendeva in esame diversi pesci ma non faceva
alcun cenno al polpo14. De Rosselli, cuoco del papa, agli inizi del
Seicento scriveva che il polpo fosse un pesce di poco pregio, non era
da farne stima e bisognava «conciarlo» come piaceva «per le
magnanime putane e per il lamento de la mortem ohime»15.
Evitascandalo precisava che il polpo, essendo «caldo e umido in
primo grado», fosse di dura digestione, generava sangue grosso,
provocava malinconia e ci voleva uno stomaco forte per digerirlo.
Ben battuto con un legno andava stufato con olio e lasciato cuocere
con agresto, erbette, zafferano e altre spezie nell’acqua che generava
lui stesso. Una volta lessato, bisognava tagliarlo a pezzi e servirlo
dopo averlo cosparso con un «sapore» di aceto, aglio e
prezzemolo16. Scappi sosteneva che il polpo non fosse bello da
vedere per il corpo «lubricoso», né buono da mangiare perché aveva
bisogno di una «gran cocitura». Dopo aver tolto le interiora era
necessario percuoterlo con una bacchetta, porlo in un vaso di
terracotta con cipolle e olio e «turarlo» con un coperchio «perché
faceva acqua da sé». Giunto a cottura aggiungere agresto, zafferano e
altre spezie e, una volta raffreddato e tagliato a pezzi, infarinarlo,
friggerlo nell’olio e servirlo con sale, pepe e sugo di melangolo17.
Frugoli annotava che se i calamari erano saporiti ma duri da
assimilare, i polpi erano meno buoni e ancora più difficili da
digerire, senza contare che essendo senza pinne e scaglie, erano
«contrari» a flemmatici e malinconici. Particolarmente coriacei e
bisognosi di una gran cottura, potevano essere solo lessati, fritti e
serviti con prugne e visciole secche18. Bartolomeo Stefani, cuoco
alla corte del duca di Mantova, in un trattato sull’arte di cucinare del
Settecento, prendeva in considerazione diversi tipi di pesce ma non
dava alcuna ricetta sul polpo19. Latini scriveva che essendo il polpo
di qualità «calda e umida» si potesse apparecchiare come i calamari
ma aveva bisogno di maggiore cottura perché la sua carne era più
dura e consigliava di friggerlo nell’olio o utilizzarlo per preparare
alcuni «pottagi»20. Agnoletti nel suo dizionario dell’Ottocento sulla
cucina economica, scriveva che il polpo fosse un pesce di pessimo
nutrimento e molto difficile da digerire e, se qualcuno voleva
mangiarlo, poteva cucinarlo come le seppie21. Artusi nel suo noto
manuale pratico sull’arte di mangiare bene per le famiglie ignorava il
polpo22.
Oggi, al contrario, i polpi veraci sono considerati una vera
prelibatezza e in Italia arrivano nei mercati, freschi o congelati, da
ogni parte. Pesce gustoso e nutriente, soprattutto durante la stagione
estiva, una volta lessato è servito freddo con sale, olive, capperi,
olio, limone e prezzemolo. Esperti cuochi celebrano ricette come il
polpo alla Luciana o alla Catalana e i libri di cucina indicano decine
di modi per prepararlo23. Il polpo ha oramai perso quella
connotazione simbolica che lo rendeva raffigurazione dei vizi e dei
mali degli uomini. Medici e dietologi ne celebrano le qualità
organolettiche e lo consigliano a tavola perché povero di carboidrati
e grassi, ricco di proteine e sali minerali come ferro, calcio, fosforo
e potassio. Grazie alla sua composizione nutrizionale è consigliato
nelle diete dimagranti perché dotato di un buon apporto proteico, un
alto potere saziante e un basso contenuto calorico: è sconsigliato
solo a bambini e puerpere perché può provocare allergie e
intossicazioni. Per intenerire le sue carni non è necessario batterlo
ripetutamente come in passato, poiché basta congelarlo e lessarlo
nelle pentole a pressione, per ridurne i tempi di cottura.
Il gusto verso i pesci è cambiato nel corso dei secoli. Il medico
Petronio, in un documentato saggio del 1592 sull’alimentazione dei
romani, scriveva che alcune specie come la murena, celebrate nei
banchetti dell’aristocrazia repubblicana e imperiale, erano ormai
considerate «vili» e bandite nella dieta dei ricchi cittadini. Il pesce
spada, ritenuto in passato prezioso e squisito, era disprezzato perché
le sue carni puzzavano come la volpe e, la stessa plebe, lo
acquistava nei mercati solo quando c’era penuria di pesce. Diverse
specie definite «sassatili» come merli, tordi, scari, donzelle e
menchia di Re, un tempo venduti a «grandissimo prezzo» e celebrati
da Galeno «sanissimi» per sapore e leggerezza delle carni, erano
ormai ritenuti buoni solo per l’alimentazione del popolino. I nobili
romani mangiavano storione, ombrina, tonno, branzino, spigola,
orata, sogliola, pescatrice, dentale, fragolino e triglia mentre i poveri
acciuga, sarda, sgombro, cicirello, agone, sugherello, aguglia,
alaccia, sciabola, capone, rondine, forca, cefalo, leccia, sauro,
tarantola, sgombro, grongo e merluzzo. Alcuni pesci erano
considerati dai signori particolarmente spregevoli non solo per le
qualità organolettiche e per il sapore delle carni ma anche per le loro
abitudini e caratteristiche. La salpa, ad esempio, nonostante fosse
bella da vedere per le strisce dorate e rosse ai fianchi, era
considerata dai patrizi un ignobile pesce plebeo poiché si nutriva di
alghe e da alcuni era chiamato «sporca» e «bugiarda». I ricchi
mangiavano pesci diversi dai poveri. La scorpena o scorfanello
nero e lo scorpio o scorfano rosso appartenevano alla stessa
famiglia e avevano ghiandole velenifere ma il primo costava poco ed
era nelle mense dei poveri, il secondo costava molto ed era nelle
mense dei ricchi24.
La tesi di chi sostiene che nel mondo antico il polpo non fosse
apprezzato perché le sue carni non erano buone da mangiare è
discutibile e, del resto, sulle tavole dei greci e dei romani si
servivano piatti a base di pesce a dir poco nauseabondi.
Particolarmente gradito, ad esempio, era il gáron, liquido dal sapore
particolarmente aspro, utilizzato come condimento in diverse
pietanze25. Plinio scrive che nell’antica Roma il garum si otteneva
facendo macerare nel sale intestino e scarti d’alcuni pesci e i greci
iniziarono a produrlo dopo aver notato che le fumigazioni con la testa
bruciata del pesce garos favorivano la fuoriuscita della placenta26.
Marziale sostiene che per preparare il garum bisognasse usare pesci
grassi come salmoni, anguille, cheppie, sardine o aringhe e
immischiarle con sale ed erbe aromatiche. Si preparava un vaso ben
solido e impeciato della capienza di tre o quattro moggi e vi si
stendeva uno strato d’aneto, coriandro, finocchio, sclarea, appio,
santoreggia, ruta, menta, levistico, puleggio, serpillo, origano,
betonica e argemonia. Si disponeva un secondo strato di pesci interi
(se grandi tagliati a pezzetti) e sopra si poneva un terzo strato di sale
alto due dita. Con questi piani d’erbe, pesci e sale, si riempiva il
vaso fino alla sommità e si chiudeva con un coperchio. Per venti
giorni di seguito, l’impasto era smosso fino al fondo con un palo a
forma di remo e con il liquido che ne fuoriusciva si preparava
l’oenogarum. A ogni due sestari di liquido, si aggiungeva mezzo
sestario di vino buono, quattro manciate d’erbe secche (aneto,
coriandro, santoreggia e sclarea) e una di semi di fieno greco, grani
di pepe, cinnamomo e garofano finemente tritati. Il composto era
quindi cucinato in un tegame di ferro o bronzo fino a quando non si
riduceva alla misura di un sestario. Prima che fosse cotto del tutto
bisognava aggiungervi una mezza libbra di miele schiumato e, ancora
bollente, doveva essere colato con un filtro fino alla limpidezza. Una
volta raffreddato si conservava in un vaso ben impeciato pronto per
condire le pietanze27.
Diversi scrittori romani, tra cui Plinio, Varrone, Orazio, Apicio,
Seneca, Marziale, Columella e Petronio, sostenevano che il garum
fosse utilizzato abbondantemente in cucina e considerato una
raffinatezza da cuochi e commensali. Per Plinio, invece, era
pestilenziale, dato che era il prodotto di materie in
decomposizione28. Seneca ne condannava l’uso, definendolo una
preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i
ventricoli e rovinava la salute29. Marziale affermava che aroma e
sapore fossero nauseabondi e, per diffamare un certo Papilo,
raccontava che se questi avesse annusato un unguento profumato, lo
avrebbe reso puzzolente come il garum30. Lo stesso Apicio,
inventore di piatti stravaganti, annotava che la salsa di pesce
emanava un «cattivo odore» e indicava una serie d’accorgimenti per
«correggerla» come aggiungere miele e gambi di lavanda31.
Non siamo in grado di affermare se il garum fosse un intingolo
squisito o schifoso, né di stabilire se fosse un alimento nutriente o
dannoso. Il gusto di un cibo è anche specchio della mentalità di una
classe e il garum sulla tavola dei nobili era simbolo di potenza e
ricchezza, attestava il loro primato culturale e politico nella società.
Gelosi dei privilegi e per rendere manifesta la loro supremazia, da
sempre gli aristocratici hanno sentito il bisogno di distinguersi e
rinnovarsi e lo hanno fatto anche attraverso mode estrose in campo
alimentare32. La salsa di pesce rara e costosa sulle tavole dei ricchi
si contrapponeva alle salse usate nella cucina dei poveri33. I
popolani non potevano permettersi quel prezioso intingolo e Isidoro
ci informa che usavano il liquamen prodotto da piccoli pesci messi
sotto sale, dal gusto insignificante, simile a quello dell’acqua
marina34. Il vero garum, quello che richiedeva una complessa
lavorazione e preparato con pesci pregiati, era accessibile solo ai
nobili e Plinio, non a caso, scriveva che, a parte i profumi, fosse il
liquido più prezioso esistente al mondo35.
Re, tiranni e aristocratici per riaffermare il loro potere stabilivano
quali cibi i loro sudditi non potessero mangiare. Il filosofo Antipatro
di Tarso, racconta che Atargati, crudele ed egoista regina della Siria,
fosse così ghiotta di pesce che promulgò un editto in base al quale
solo lei e i suoi sacerdoti potessero cibarsene36. Mnasea aggiunge
che quando i Siriani pregavano la dea, le offrivano in voto pesci
d’oro e d’argento mentre i sacerdoti bollivano o arrostivano pesci in
suo onore. Atargati, secondo quanto narra Xanto di Lidia, fu rapita da
Mopso e, a causa della sua insolenza, gettata insieme con il figlio Itti
nel lago d’Ascalona, dove fu divorata dai pesci37.
Gli animali selvatici nel Medioevo erano riservati ai signori ed
era rigorosamente vietato ai contadini di ucciderli anche se
devastavano i loro campi. I nobili gareggiavano a chi prendesse più
prede e amavano ostentarle sui carri quando tornavano in città38. La
caccia col falco era un elemento di distinzione: i baroni amavano
farsi rappresentare col rapace sul pugno guantato e, l’imperatore
Federico II, scrisse addirittura un trattato sulla falconeria39. Sulle
loro tavole non mancava ogni tipo di cacciagione e a nulla servivano
gli avvertimenti dei medici relativi alle malattie, quali la gotta, che il
consumo eccessivo poteva provocare40.
Agli inizi dell’Ottocento, lo storico Meiners osservava che i
ricchi romani spendevano cifre immense per i loro simposi. Le pareti
delle sale dove pranzavano erano decorate con pitture, le tavole
imbandite con piatti e bottiglie di gran pregio, ornate con fiori e
pietre preziose. Alcuni patrizi avevano fatto costruire soffitti
amovibili che cambiavano aspetto ogni volta che si portava una
pietanza, tubi che spargevano sostanze odorose e grandi acquari dove
sceglievano i pesci da cucinare. Ricercavano i cibi più rari e
costosi, mangiavano le parti più squisite di pesci o volatili e i
maestri dell’arte culinaria preparavano piatti così complicati da
realizzare in cucina ciò che sarebbe dovuto accadere nel ventre.
Comodo faceva spesso mescolare alimenti squisiti alle più
«stomachevoli sudicerie» ed Eliogabalo, non volendo offrire ai suoi
commensali le leccornie dei suoi predecessori, offriva piatti a base
di piedi di cammelli, creste di polli, cervella di fenicotteri, pavoni e
fagiani e fegato dei pesci più pregiati41.
Meiners precisava che per i Romani il pregio di un pesce fosse
legato alla rarità e al prezzo e la sua fortuna era soggetta a continui
cambiamenti: quella che era considerata una vera e propria leccornia
perdeva tutto il valore appena cominciava a diventare comune e a
buon costo. Macrobio si meravigliava delle cospicue somme di
denaro che già nell’ultimo secolo della Repubblica si spendevano
per pesci, che ai suoi tempi si potevano acquistare a poco prezzo e
che molte prelibatezze citate nella legge suntuaria di Silla non erano
conosciute. La golosità dei romani negli ultimi tempi della
Repubblica non era paragonabile a quella dei famosi crapuloni che
fiorirono sotto l’impero d’Augusto. Apicio, per soddisfare la loro
golosità, trasformò l’arte culinaria in una vera e propria scienza e si
diceva che avesse più allievi di tutte le scuole dei filosofi messe
insieme. Stabilì le regole per servire a tavola, per decorare le stanze
da pranzo e quali i divertimenti più appropriati. Abituato a vivere
nella lussuria, dopo aver dissipato un capitale di tre milioni e mezzo
di talleri, quando si rese conto che per pagare i creditori non gli
rimanevano che 250.000 risdalleri, si avvelenò.
Meiners annotava che i nobili romani usassero il cibo anche per
distinguersi tra loro. Caligola, servendosi dei migliori cuochi
dell’impero, fece allestire un banchetto che costò tre botti e mezzo
d’oro; Nerone, in uno dei suoi simposi fece aspergere balsami di
rose che costavano una botte d’oro poiché, essendo inverno,
dovettero essere importate dall’Egitto; Vitellio, superando i
predecessori, in pochi mesi dissipò per i suoi conviti 22 milioni di
talleri e suo fratello fece servire in una cena duemila pesci e
settemila volatili; Vero, per eguagliare Caligola, Nerone e Vitellio,
preparò un simposio chiamato «degli dei», con piatti raffinatissimi
donando agli undici ospiti coppe d’oro e d’argento e altre cose di
gran valore. Eliogabalo superò tutti nell’arte di dissipare e, non
contento di porgere ai suoi commensali le più squisite leccornie, le
faceva servire con pietre preziose da avvenenti schiavi e odalische;
per mezzo di macchine poste in alto sul soffitto cospargeva le tavole
con petali di fiori, stabilì ricchi premi per chi inventava nuove ricette
e si rallegrava che alcune vivande arrivassero a cifre esorbitanti,
perché più alto era il loro costo, più rendevano onore a chi le
comprava42.
Non sappiamo se le descrizioni di certi convivi degli storici
antichi fossero esagerazioni, ma Seneca conferma che il palato dei
romani si svegliasse solo davanti a cibi costosi e che il prezzo non
dipendesse dalla loro bontà ma dalla rarità e dalla difficoltà di
procurarli43. Seppie, totani, calamari e polpi non hanno mai avuto
gran considerazione nelle mense degli aristocratici perché erano
pesci comuni e alla portata di tutti. Nel 1776 Carletti scriveva che
passeggiando lungo le rive del golfo di Napoli fosse possibile
vedere numerosi polpi addossati agli orridi scogli44. Si pescavano
polpi in gran quantità in Sicilia, Liguria, Sardegna e Puglia e, in
alcuni centri come Molfetta, erano seccati al sole e venduti nei porti
dell’Adriatico45. Di polpi ce n’erano in abbondanza, anche se le
autorità napoletane il 7 agosto 1847 furono costrette a proibirne la
cattura, con le cosiddette lancelle, dal primo di marzo fino alla fine
d’agosto perché era dannosa per la specie46.
In un saggio del 1592 sulla salute, il medico Petronio scriveva che
i polpi avessero la carne dura e, in qualunque modo fossero cotti,
gravassero sempre lo stomaco provocando serie indigestioni. Lo
stesso Galeno aveva osservato che, essendo coriacei, fossero
difficili da cuocere, avessero un succo salato e non dessero alcun
nutrimento. Quelli di grosse dimensioni dovevano essere bolliti e
tagliati con una canna perché il ferro «infettava» le carni e, tuttavia,
in qualunque modo fossero preparati, a causa della loro insipidezza
erano un alimento buono per la «vil plebe»47. In un trattato per vivere
bene si legge che i molluschi non fossero consigliabili da mangiare e
solo i calamari piccoli erano digeribili e buoni per ogni età. Le
seppie erano insapore e difficili da cuocere, mentre il polpo, che si
credeva incitasse all’incontinenza, essendo indigesto e poco
nutritivo, era lasciato ai poveri48. In un altro saggio si legge che la
pesca di calamari, seppie e polpi fosse da incoraggiare perché le
loro carni, anche se poco pregiate e difficili da assimilare, potevano
fornire un abbondante alimento per il popolino49.
Il polpo era considerato un pesce scadente e, soprattutto quello
grande, era venduto a prezzi «vili». Nelle tariffe dei mercati di
Venezia del 1799 i folpi risultavano tra i pesci meno costosi, la metà
rispetto a quelli «poveri» come caramali, sepoline, scombri,
sardelle e sardelline50. Nella tariffa dei prezzi del mercato ittico di
Trieste del 1806, i folpi, soprattutto quelli grandi, insieme alle
sardelle, erano tra i pesci meno pregiati51. Alessandro Ninni, in un
saggio del 1870 sulla fauna marina delle lagune e del golfo di
Venezia, scriveva sulle 258 specie di pesce censite: 21 non si
mangiano, 10 poco stimate, 4 buone, 25 cibo popolare, 19 non
ricercate, 76 poco ricercate, 4 abbastanza ricercate, 33 ricercate e 18
ricercatissime. Pesci poco stimati: ciepa, grongo, morena, galiotto,
sorze, suro; buono: barbastrilo, san Piero, pesce spada, marsion;
cibo popolare: soetta, lovo, molo, molo da parangal, pataraccia,
sfogieto peloso, garizzo menola, arboro, sperga o donzela,
musoduro, anguela, anguela agonada, anzoleto, sacchetto, tenca de
mar, ragno o varagno, varagnola, bocca in cao; poco ricercati:
favareto, bavoso, sfogio turco, baracolèta, quattrocchi, tremolo,
tremolo occià, squalena, sagrin, cagnia o can, bandiera, martello,
cagnia o can da denti, can turchin, cagneto, gatta, arzentin,
rombetto de grotta, fanfano, donzella o papagà, pesce spuzza,
lampreda, sfogio turco, garizzo, menola, menola schiava, ociada,
boba, sargo d’Istria, sparo, lucerna, turchello insaguinà, anzoleto,
scarpena, scarpena rossa, gattarosola dall’occial, gattarosola
colla cresta, lodra e lodrin; non ricercati: ranin, mattana, raza
spinosa, raseta, baracola, manin, spinarelo, pesce figa, fanfano,
lampredon, lampreda, gattarozola, pesce cordèla; abbastanza
ricercati: colombo, vescovo e mattana; ricercati: asià, sturion,
còpese, ladano, passera, sfogio dal pelo, sfogio dal poro, corbo,
corbeto, baicolo, ombrela, branzin, baicolo, volpina, caustelo,
dotregàn, verzelata, bosega, barbon, paganello de mar, rospo,
angusigola, papalina, passarin-passara, marsion, paganello,
paganello de porto, paganello insanguinà, gò de mar, tambarello,
barbastrilo; ricercatissimi: sardella, sardon, bisatto, rombo,
sgombro ganzarioi, lanzardo, soazo, sfogio, dental, tria, lizza, lizza
bastarda, ton, carcàna, tonina de Dalmazia, palamida52.
Dorotea nel 1863 scriveva che tra i cefalopodi fosse ricercata la
seppia e ancora di più i piccoli calamari, ma costavano molto e, solo
nobili e galantuomini potevano acquistarli. Il purpo di scoglio era
apprezzato, il muscardino meno stimato perché emanava un odore di
muschio e l’asinino non gradito perché particolarmente coriaceo e di
poco sapore53. Il polpo era presente soprattutto sulle tavole della
povera gente e, secondo Picinelli, richiesto perché saziava e
manteneva un buon odore anche molto tempo dopo la cattura54. A
Napoli, annotava Dumas, che ne descriveva la pesca con le
palingolle, il polpo verace era particolarmente ricercato e cucinato
alla «Luciana», dal nome di Santa Lucia, borgo dove le donne
vendevano il brodo di purpetielle55. Si metteva il cefalopode intero
in una casseruola di coccio insieme a sale, olio, pomodoro,
peperoncino, prezzemolo, aglio e si lasciava cuocere a fuoco lento
per poi servirlo accompagnato con pane abbrustolito56. Sino a
qualche tempo fa, soprattutto nei mesi invernali, era possibile vedere
chioschi dove i purpaiuoli vendevano il brodo di polpo verace
molto richiesto perché riscaldava, calmava la tosse e leniva il
catarro. «Magnateve ’a capa d’o purpe verace e verite ca’ ve passa
ogne malanno», gridavano le venditrici dietro i banchetti fumanti57! Il
polpo era un animale amato dai napoletani e, se lo vedevano in
sogno, andavano subito a giocare i suoi numeri al lotto: 30 per il
polpo, 37 per i polpi e 58 per i polpi cotti58!. Un’altra smorfia
consigliava di giocare 64 per i polpi, 25 per i polpi lessi, 53 per i
polpi fritti, 7 per i polpi in umido e 13 per i polpi puzzolenti59.
1. Vittorio Lancellotti, Lo scalco prattico, appresso Francesco
Corbelletti, Roma 1627. Cfr. Mattia Gieger Bavaro di Mosburc, Il
trinciante, Martini Stampator Camerale, Padova 1621; Ottaviano
Rabasco, Il convito overo discorsi di quelle materie che al convito
s’appartengono, per Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni,
Fiorenza 1615, p. 166.
2. Luigi Ballerino, Jeremy Parzen (a cura di), Maestro Martino.
Libro de arte coquinaria, Guido Tommasi Editore, Milano 2003, pp.
87; 94-95.
3. Baldassarre Pisanelli, Trattato della natura de’ cibi et del bere,
appresso Gio. Alberti, Venetia 1586, p. 100. Cfr. Cesare
Evitascandalo, Libro dello scalco, appresso Carlo Vullietti, Roma
1609, pp. 58-59.
4. Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben
disporre i conviti, delli socii Parrino e Mutii, Napoli 1694, pp. 2122.
5. Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, cit., p. 85.
6. Giovanni Vialardi, Trattato di cucina pasticceria moderna
credenza e relativa confetteria, G. Favale e C., Torino 1854, pp. 75;
285-286.
7. Antonio Nebbia, Il cuoco maceratese, Remondini tipografo ed
editore, Bassano 1820, pp. 250-252. Cfr. Ippolito Cavalcante, La
cucina teorico-pratica ovvero il pranzo periodico di otto piatti al
giorno, stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1844, pp. 206-219;
346-368.
8. Celio Apicio, Delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della
cucina, stab. nazionale di Antonelli, Venezia 1852, p. 206.
9. Anna Martellotti, I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al
“Liber de coquina”, Olschki, Firenze 2005, pp. 265-266.
10. Il libro della cucina del sec. XIV. Testo di lingua non mai fin qui
stampato, presso Gaetano Romagnoli, Bologna 1863, pp. 66-68.
11. Luigi Ballerino, Jeremy Parzen (a cura di), op. cit., p. 93.
12. Bartholomaeus Platina, op. cit., p. 84. Cfr. Christoforo di
Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande, et apparecchio
generale, per Giovanni De Buglhat et Antonio Hucher Compagni,
Ferrara 1549.
13. Giambattista Rossetti, Dello scalco, appresso Domenico
Mammarello, Ferrara 1584, p. 496.
14. Vincenzo Cervio, Il trinciante, nella Stampa del Gabbia, Roma
1593.
15. Giovanni De Rosselli, Epulario il quale tratta del modo del
cucinare ogni carne, uccelli & pesci d’ogni sorte. Et di più insegna
far sapori, torte, pastelli, al modo di tutte le provincie del mondo,
per Lorenzo Valla, Messina 1606, p. 29.
16. Cesare Evitascandalo, op., cit., p. 69.
17. Bartolomeo Scappi, Opera dell’arte del cucinare, con la quale
si può ammaestrare qual si voglia cuoco, scalco, trinciante, mastro
di casa, presso Alessandro Vecchi, Venetia 1610, p. 92.
18. D’Antonio Frugoli, Pratica e scalcaria intitolata pianta di
delicati frutti da servirsi a qualsivoglia mensa di prencipi e gran
signori, & à persone ordinarie ancora con molti avvertimenti circa
all’honorato officio di scalco, appresso Francesco Cavalli, Roma
1631, pp. 155-156.
19. Bartolomeo Stefani, L’arte di ben cucinare, et istruire i men
periti in questa lodevole professione. Dove anco s’insegna à far
pasticci, sapori, salse, gelatine, torte e altro, per Steffano Curti,
Venetia 1685. Cfr. Francesco Leonardi, L’Apicio moderno ossia
l’arte di apprestare ogni sorta di vivande, s.e., s.l., 1790.
20. Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben
disporre i conviti, delli socii Parrino e Mutii, Napoli 1694, p. 28.
21. Vincenzo Agnoletti, La nuova cucina economica in cui
s’insegna la più facile e precisa maniera di imbandire con
raffinato gusto ed economia qualunque delicata mensa di ogni
sorta di vivande, sì di grasso, che di magro, nella stamperia di
Pietro Agnelli, Milano 1819, p. 14.
22. Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
Manuale pratico per le famiglie, Giunti Marzocco, Firenze 1960,
pp. 319-320.
23. Cfr. Romano Bavastro, Cento volte polpo. Ricette da tutto il
mondo sul misconosciuto ma squisito abitatore dei nostri mari,
Pacini Fazzi, Lucca 2007.
24. Alessandro Petronio, Del viver delli Romani et di conservar la
sanità, appresso Domenico Basa, Roma 1592, pp. 147-159.
25. Giovanni Sole, Sibari. Storia mitica e miti storici, cit., pp. 131144.
26. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 93, p. 521. Cfr. Rudy Ciuffardi, Vissi
d’amore e di polpo. 135 modi per cucinare il polpo, De Ferrari,
Genova 2009.
27. Gargilii Martialis, Medicina, LXII, in Plinii Secundi quae fertur
una cum Gargilii Martialis Medicina nunc primum edita a
Valentino Rose, in Aedibus B.G. Teubneri, Lipsia 1875, pp. 209211.
28. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 96, p. 521.
29. Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Zanichelli, Bologna
1974, p. 59.
30. Marco Valerio Marziale, Epigrammi, Unione TipograficoEditrice Torinese, Torino 1980, p. 489.
31. Apicio, L’arte della cucina. Manuale dell’esperto cuoco della
Roma Imperiale, Scipione, Roma 1990, I, VI, p. 17.
32. Cfr. Giovanni Sole, Cicisbei e cavalier serventi. Aristocrazia e
moda nel Settecento italiano, in «Voci», a. II, n. 2, luglio-dicembre
2005, Pellegrini, Cosenza 2006, pp. 86-110; Id., Castrati e cicisbei.
Ideologia e moda nel Settecento italiano, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2008.
33. Plinio, op. cit., IV, XXXI, 95, p. 523.
34. Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, XX, III, 19-20, Utet,
Torino 2004, p. 645.
35. Ivi, IV, XXXI, 94, p. 523.
36. Ateneo, op. cit., VIII, 346c, vol. II, p. 854.
37. Ivi, VIII, 346f, vol. II, pp. 854-855.
38. Cesare Cantù Storia degli italiani, t. IV, L’Unione Tipografica
Editrice, Torino 1855, t. IV, p. 88.
39. G.B.L.G. Seroux D’Agincourt, Storia dell’arte, per Giachetti,
Prato 1828, pp. 242-253. Cfr. Federico II di Svevia, De arte venandi
cum avibus, Laterza, Bari-Roma 2011.
40. Luigi Lobera de Avila, Libro delle quatro infermità cortigiane,
che sono catarro, gotta, artetica, sciatica, mal di pietre, & di reni,
dolore di fianchi et mal francese, & d’altre cose utilissime,
appresso Gio Battista & Marchio Sessa, Venezia 1558, p. 178.
41. Cristoforo Meiners, Storia della decadenza dei costumi, delle
scienze e della lingua dei Romani nei primi secoli dopo la nascita
di G. C., s.e., Firenze 1817, t. I, pp. 175-177. Cfr. Elio Lampridio,
Vita di Antonino Eliogabalo, Antonelli, Venezia 1852.
42. Cristoforo Meiners, op. cit., pp. 175-177. Cfr. Giuseppe Averani,
op. cit., pp. 1-26.
43. Lucio Anneo Seneca, Consolazione alla madre Elvia, Unione
Tipografica-Editrice Torinese, Torino 1969, 10, 5, p. 855.
44. Niccolò Carletti, Topografia universale della città di Napoli,
nella stamperia Raimondiana, Napoli 1776, p. 127.
45. Vincenzo Corrado, Notiziario delle particolari produzioni delle
provincie del Regno di Napoli, nella Stamperia del Giornale delle
Due Sicilie, Napoli 1816, p. 112; Bollettino consolare. Pubblicato
per cura del Ministero per gli affari esteri, di S.M. il Re d’Italia,
Torino, dalla tip. di G.B. Paravia e Comp., Torino 1863, vol. II., p.
45.
46. Leonardo Dorotea, Sommario storico dell’alieutica che si
esercita nelle provincie meridionali e della legislazione correlativa
alla stessa, stab. tip. di F. Vitale, Napoli 1863, p. XXXII.
47. Alessandro Petronio, Del viver delli Romani et di conservar la
sanità, appresso Domenico Basa, Roma 1592, p. 164.
48. Michelangelo Prunetti, op. cit., pp. 114-122.
49. La pesca in Italia. Documenti, Annali del Ministero di
Agricoltura, Industria e Commercio, tip. del R. Istituto Sordo-Muti,
Genova 1871, vol. I, p. 408.
50. Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, legislazioni ec. ec. ec.
del nuovo Veneto Governo Democratico, dalle stampe del cittadino
Gatti, Venezia 1797, vol. X, pp. 155-159.
51. Raccolta delle leggi ordinanze e regolamenti speciali per
Trieste pubblicata per ordine della presidenza del Consiglio dal
Procuratore Civico. Esce in puntate secondo argomenti, a spese del
comune fuori di commercio, tipografia del Lloyd Austriaco, Trieste
1861, p. 16.
52. Alessandro Ninni, Enumerazione dei pesci delle lagune e golfo
di Venezia, estratto dall’Annuario della Società dei Naturalisti, a. V,
Soliani, Modena 1870.
53. Leonardo Dorotea, op. cit., p. 70.
54. Filippo Picinelli, Mondo simbolico, nella stampa di Francesco
Vigone, Milano 1653, p. 330.
55. Alexandre Dumas, op. cit., p. 393; Annali civili del Regno delle
due Sicilie, dalla tip. del Real Ministero degli Affari Interni, Napoli
1842, vol. XXVIII, gennaio-febbraio-marzo-aprile, p. 11. Cfr.
Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti
e dipinti, stab. tip. di G. Nobile, Napoli 1858, p. 26.
56. Cfr. Giuseppe Sangiorgi Cellini, Annamaria Toti, La dieta
Mediterranea. Dalle antiche tradizioni, salute e buona cucina,
Giunti, Firenze 2010.
57. Isa Rampone Chinni, Tina Palombo De Gregoria, La farmacia di
Dio. Int’a spezierie ‘e Dio ‘nce stanno ‘e medicine pe’ ogne
malattia. Proverbi, modi di dire, voci, poesia, curiosità su alcuni
antichi rimedi dei napoletani, Rogiosi, Napoli 2011, pp. 19-20;
Antonella Cilento, Bestiario napoletano, Laterza, Roma-Bari 2015.
58. Giustino Rumeo, Nuova smorfia del giuoco del lotto, presso
Luigi Chiuazzi librajo-editore, Napoli 1867, p. 166.
59. Il rinomato novissimo metodo per vincere al lotto, tipografia di
G. Gentili, Roma 1862, p. 133.
Polpo e mercato
Il Mediterraneo, troppo profondo vicino alla riva, scarso di
secche indispensabili al riprodursi della fauna sottomarina e poco
ricco di plancton, secondo Braudel era povero di pesce. Gli abitanti
limitavano la pesca alle immediate vicinanze della costa e i
pescatori erano anche pastori, artigiani e contadini1. Nel 1788 il
marchese Palmieri precisava che il Regno di Napoli fosse circondato
dal mare ma non fornisse alcuna specie di pesce in abbondanza tale
da dar vita a un grosso ramo d’industria come quello di aringhe e
baccalà. La pesca non era oggetto di commercio ma «di
sostentamento, di comodo o di piacere»; i pescatori erano pochi
perché la loro arte richiedeva notevoli capitali per acquistare barche
e reti e solo alcuni, come i baresi che scorrevano nell’Adriatico e i
gaetani nel Tirreno, vivevano di pesca per tutto l’anno, «ma non si
sapeva se chiamarli pescatori o devastatori»2.
In una regione come la Calabria, circondata da oltre ottocento
chilometri di costa, le attività di pesca più fruttuose erano quelle del
tonno e del pesce spada, praticate, però, solo per alcuni giorni
dell’anno. La caccia allo xiphias gladius era millenaria e ricordava
la lotta primordiale dell’uomo con gli animali. Una vedetta, sistemata
sulle colline a strapiombo sul mare, scrutava l’ampia distesa delle
acque pronta a segnalare la comparsa del pesce ai marinai sulle agili
e veloci banche chiamate lontri. Avvistato il pesce spada agitava
bandierine, a squarciagola dava ordini in greco ai compagni; questi
si lanciavano all’inseguimento remando con tutta la forza possibile e
un esperto lanciatore, appostato sulla poppa, fiocinava il pesce
spada quando era a tiro. Al pesce arpionato si lasciava la corda fino
a quando, dissanguato ed esausto, era tirato sulla barca3. Altrettanto
antica era la pesca del thunnus con le «reti fisse». Questo tipo di
cattura consisteva nello sbarramento del passaggio dei tonni lungo la
loro rotta tramite il pedale, una lunga rete di corda che partiva dalla
riva, ancorata al fondo da blocchi di pietra e tenuta tesa con grandi
galleggianti di sughero. Incontrando il pedale, i tonni deviavano
verso il largo in cerca di un varco e lo trovavano nel foratico,
entravano nella camera grande e proseguivano per le camere
piccole sino a giungere nella parte terminale della rete detta camera
della morte. A questo punto i pescatori, sollevando la pesante rete,
portavano i pesci in superficie e, cantando un’antica canzone in cui
chiedevano pietà ai tonni, davano inizio alla mattanza4.
Lungo le coste del Mediterraneo erano poche le persone che
vivevano di pesca, il mestiere era tenuto in scarsa considerazione
perché pericoloso, faticoso e poco rimunerativo. I pescatori
rischiavano la vita, riposavano poco, mangiavano male, vestivano
abiti logori, non riuscivano a mettere niente da parte e i loro profitti
erano sempre a rischio5. Già nell’antica Grecia alcuni scrittori
ponevano l’attenzione sulla durezza della loro esistenza. Si narrava
che lo stesso Omero, andando per sollazzo lungo la spiaggia,
incontrò alcuni pescatori che gli resero una testimonianza toccante
sulla propria difficile condizione: gli dissero che «ciò che avevano
preso non l’avevano e ciò che non avevano lo avevano preso»,
riferendosi ai pidocchi. Quelli che erano riusciti a catturare li
avevano uccisi, quelli che non erano riusciti a prendere li avevano
addosso. Il divino cantore, fu così colpito da tanta sofferenza da non
reggerne il peso. Colto da un malore, morì improvvisamente6.
Alcifrone racconta lo scoraggiamento e le preoccupazioni dei
pescatori. Glauco scriveva alla moglie Galatea che uno di quegli
uomini scalzi che recitavano versi al mercato avesse parlato di un
legno sottile che separava i marinai dalla morte e di quanto fosse più
prudente avviare i figli all’agricoltura per consentire loro di
abbracciare una vita tranquilla e scevra da paure. Limenarco riferiva
che la propria ciurma, appresa la notizia di un passaggio di tonni e
palamiti, avesse circondato il golfo con una lunga rete. Giunto il
momento di ritirarla, era tanto pesante da spingerli a richiedere
l’aiuto di alcuni uomini per sollevarla, promettendogli in cambio una
parte del pescato. Dopo un terribile sforzo, si resero conto di aver
preso un gran «camelo» fradicio e pieno di vermi. Cimoto confidava
alla sposa Tritonide che fosse ben diversa l’esistenza tra di chi
viveva sul mare e chi sulla terra: i pescatori, al contrario di coloro
che si dilettavano a coltivare i campi aspettando i frutti, passavano le
giornate sull’acqua come quei pesci che tratti all’aere non possono
più respirare. Eucolimpo confessava a Glauca che alcuni corsari lo
volevano come compagno nelle loro scorrerie e che egli aveva
sentito «l’acquolina in bocca» per l’oro e le vesti che promettevano,
ma aveva sempre conservato le mani nette e non gli andava di
diventare un assassino. Tuttavia, il peso della miseria era così
insopportabile che chiese alla compagna di decidere cosa sarebbe
stato opportuno fare7.
Padula verso la metà dell’Ottocento, annotava che nella Calabria
citeriore non ci fossero porti, il «barchereccio» era una miseria e le
pescate scarse, di solito «pesciume minuto e frattaglie». A causa
degli iniqui contratti che imponevano i proprietari delle barche, i
pescatori vivevano tra i debiti e morivano senza averli pagati8.
Quelli lungo i villaggi del Tirreno dicevano «marine di ponente, pane
niente» e nei sogni il mare equivaleva a «pianto di dolore» o «si
doveva lottare con miserie e malattie»9. A causa della vita dura e
incerta i pescatori erano sempre particolarmente tesi e, quando si
adiravano, «gettavano» nel berretto di lana i nomi di tutti i santi, lo
mettevano sotto i piedi e lo pestavano credendo di rompere il naso a
san Pietro, un occhio a sant’Antonio, un braccio a san Bartolomeo e,
quando avevano finito, gridavano «santo Diavolo!»10. In una loro
canzone si diceva che calavano le reti, le tiravano e non prendevano
niente, quindi disarmavano le barche e si pulivano i denti. Il
marinaio lasciava una cinquina alla moglie per comprare il pane
«fino a che andava e tornava da Messina» ma la donna pregava san
Nicola di farlo annegare; non le importava se fosse rimasta vedova,
perché quanto valeva la scianca di un massaro, non valeva una barca
di trecento remi11!
Una buona pesca non dipendeva solo dall’abilità dei pescatori,
dalle barche, dalle reti e dalle acque ricche di pesci ma anche dalla
clemenza del tempo12. I pescatori facevano la fame e, quanto più i
luoghi della pesca erano distanti, tanto maggiore era la spesa, poiché
si richiedevano navigli grandi e ciurme numerose. La necessità di
prendere pesce più grosso e pregiato spingeva le paranze a cercare
battute fortunate in acque lontane, il che comportava un aumento dei
rischi e l’impiego di più giorni per ritornare, con la conseguenza che
il pesce, nel frattempo, andava in putrefazione13. La maggior parte
dei pescatori del Mediterraneo viveva di piccola pesca che si
esercitava in genere vicino alle coste. Alcuni siciliani proprietari di
barche, in una petizione del 1869, scrivevano che dalle spiagge liguri
sino alle lagune venete, pochissimi erano i pescatori che con reti
sdrucite e, con poca perizia del mestiere, si dedicavano soprattutto
alla cattura di acciughe e sardelle14.
Quando il tempo era buono, i marinai uscivano dai porticcioli con
le paranzelle e pescavano in zone dai fondali arenosi e fangosi per
non danneggiare o perdere le reti15. Le reti a strascico distruggevano
o turbavano la riproduzione dei pesci e i pescatori erano paragonati
a quei selvaggi che per prendere frutti volevano abbattere l’albero.
La fauna marina diminuiva e, per proteggerla, i governi cercavano di
regolare la pesca varando provvedimenti restrittivi. Il 27 giugno
1627 gli eletti della città di Napoli vietarono la pesca con i tartaroni
e gli sciabichielli, stabilendo che le maglie della rete cosiddetta
manica, dovessero essere come quelle di una corona16. La pesca con
le tartane francesi, introdotta nel 1643 dai marinai di Procida e
Gaeta, dovette essere sospesa perché le reti ammaccavano le uova,
uccidevano i pesciolini e danneggiavano i pascoli17. Un bando del 4
ottobre 1784, proibiva la pesca con le paranzelle, perché le reti,
appesantite dalle mazzere per consentirgli di toccare il fondo del
mare, distruggevano i pesciatelli. Si stabilì che le reti dovessero
essere prive di pesi e avere maglie così dette chiare, della
circonferenza di un tarì. Per consentire ai pesci di acquistare corpo e
consistenza e non comprometterne la riproduzione, la pesca doveva
iniziare il 4 novembre e terminare il «sabato santo» dell’anno
seguente. I contravventori erano puniti con pene di sei mesi di
carcere e la requisizione di reti e barche18.
In Italia la maggior parte degli abitanti viveva nelle zone interne e
molti non vedevano mai il mare. Il naturalista Genè di Tubino, in un
saggio sui pregiudizi popolari legati agli animali, tra le specie
marine citava solo sirene, delfini e balene, esseri che la gente di
campagna conosceva attraverso fiabe e leggende19. I contadini
mangiavano pesci d’acqua dolce che catturavano costruendo chiuse
di ciottoli e fango per deviare il corso dei fiumi ma più
frequentemente avvelenandoli usando calce viva, malli di noce,
tasso, finocchi d’acqua e altre piante velenose20. I medici
sconsigliavano i pesci presi con l’uso di sostanze tossiche e il
consumo di alcune specie che vivevano nelle paludi e negli stagni
perché avevano carni grasse, difficili da digerirsi e pericolose per le
viscere21. I trattati d’igiene sostenevano che i pesci fossero poco
nutrienti e quindi non adatti per chi si sottoponeva a dure fatiche
come la gente di campagna22. I contadini, occupati nei duri lavori
campestri, preferivano la carne degli animali terrestri, che meglio
soddisfaceva il loro bisogno di proteine e, non a caso, dicevano
«carne fa carne» e «chi mangia cacio e pesce la vita gli rincresce»23.
Persino in ambienti religiosi c’era chi si schierava a favore della
carne. Il beato Giordano da Rivalto, ad esempio, sosteneva che gli
animali terrestri dessero «nutricamento» più d’ogni altro cibo
perché, più simili al corpo umano e quindi più facilmente
convertibili in carne24.
Il pesce, comunque, cominciò a essere presente anche sulle tavole
dei contadini e a contribuire alla sua diffusione fu la proibizione
della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno che
oltrepassavano un terzo e, tra i chierici, anche la metà dell’anno25.
San Martino sosteneva che si potesse consumare pesce anche durante
la Pasqua e san Girolamo autorizzava i suoi monaci di mangiarne di
tanto in tanto, purché preparato in maniera semplice26. Nessuno
sapeva spiegare le ragioni del perché la carne fosse proibita e il
pesce consentito. Rivolgendosi agli ebrei che distinguevano gli
animali puri da quelli impuri, Gesù aveva ammonito che non fosse
ciò che entrava ma ciò che usciva dalla bocca a rendere l’uomo
impuro27. E Paolo nella prima lettera ai Corinzi, avvertiva che non
potesse essere un alimento ad avvicinare i fedeli a Dio: se non ne
mangiavano non avrebbero perso nulla, se ne mangiavano non
avrebbero avuto niente di più28. Alcuni teologi ricordavano che i
discepoli, prima di «pescare» anime, pescassero pesci, tanto che lo
stesso Gesù era raffigurato dai suoi fedeli come un pesce29. Il
monaco camaldolese Costadoni, analizzando i simboli del pesce in
lapidi sepolcrali, bassorilievi, cimiteri, basiliche e cammei,
spiegava che gli antichi cristiani, impossibilitati dal professare
liberamente la propria fede, disegnassero un pesce a rappresentare il
Cristo e che lo stesso simbolo fosse utilizzato come segno di
riconoscimento30.
I predicatori cristiani, ciò nonostante, incontravano non poche
difficoltà nel convincere i fedeli a mangiare pesce nei giorni di
penitenza. Maria De’ Nobili, verso la fine del Settecento notava
nella popolazione una diffusa ostilità nei confronti dei pesci e
qualcuno, addirittura, considerava le loro carni al pari di quelle di
una vipera velenosa. In realtà i pesci tenevano lontani i demoni,
reprimevano i moti della concupiscenza e davano luce al corpo e
all’anima. L’importante era non abusarne e prepararli in modo
semplice mentre, su alcune tavole, anche durante la Quaresima si
«digiunava» con pranzi di pesci rari e costosi accompagnati da vini
generosi31. La Chiesa era costretta a denunciare lo scandaloso vizio
d’imbandire mense luculliane a base di pesce nei giorni di magro e
ricordare ai fedeli che i sacri digiuni servivano per mortificare
gusto, palato e sensi; il pesce doveva essere cibo di continenza e non
di delizia, mangiandolo con godimento si peccava come se si
mangiasse carne32! Ai fedeli era consentito mangiare pesce durante la
Quaresima, purché si astenessero dagli squisiti e delicati «guazzetti»
ed evitassero quelli pregiati e costosi che soddisfacevano la gola33.
Non sappiamo se i poveri non consumassero pesce perché lo
ritenessero poco nutriente e salubre, ma è probabile che non lo
acquistassero perché troppo caro. Linceo di Samo, in un trattato
sull’arte di comprare pesce dedicato a un amico poco abile nel fare
la spesa, dava una serie di consigli su come disprezzare la merce dei
pescaioli per comprarla a buon mercato34. Plinio scriveva che il
pesce fosse il cibo più costoso per il ventre e valore e sapore
dipendevano dai pericoli corsi da chi lo pescava35. Giovio annotava
che i ricchi romani, amavano mangiare pesce e lo importavano con le
loro veloci navi dai porti più lontani e consideravano più saporiti
quelli con quanta più fatica i pescatori impiegavano per prenderli o a
maggiore prezzo si compravano36. Nelle regole che dovevano
osservare i fratelli della «famosissima compagnia della Lesina»,
diretta dai più illustri spilorci del paese, si legge che il pesce era
«mal cibo» non solo perché era nocivo allo stomaco ma perché
svuotava le borse dei poveri cittadini. Non bisognava comprare
quello fresco perché era caro e come «supplemento» accontentarsi di
un’alice o un’aringa e, nel caso si trovava a buon prezzo, mai
friggerlo perché l’olio costava molto37!
Il pesce fresco è stato sempre un cibo particolarmente caro e gli
scrittori greci descrivevano i pescivendoli come insopportabili. Per
Anfide era mille volte più facile parlare con gli strateghi che con
loro: se un cliente chiedeva il prezzo di un pesce, come se nulla
avessero udito, continuavano a sbattere i polpi sul bancone38. Difilo
credeva fossero malvagi e disonesti nella sola Atene, ma si
ricredette quando si rese conto che questa «razza», simile a belve
affamate, fosse rozza, perfida e imbrogliona ovunque39. Senarco
affermava che non esistesse specie umana più saccente, maligna e
truffaldina dei pescaioli. Raccontava che uno di loro, uomo davvero
inviso agli dei, dato che una legge vietava di bagnare i pesci al
mercato, provocò una rissa fingendo di stramazzare morto sul
bancone mentre un complice, con la scusa di farlo rinvenire, gettava
acqua sui pesci rinsecchiti per farli sembrare freschi40. Alessi lodava
il legislatore Aristonico che aveva stabilito la galera ai pescivendoli
disonesti e, per far sì che vendessero velocemente la merce, dispose
che dovessero stare in piedi, minacciandoli, in caso contrario, di
farli lavorare «appesi ad una macchina come le divinità»41.
I pescivendoli erano invisi perché vendevano la loro merce a
prezzi esorbitanti. Antifane pensava che le Gorgoni fossero
un’invenzione, ma andando al mercato, a guardare l’aspetto dei
pescaioli e i costi dei pesci, diceva che era meglio volgere lo
sguardo altrove perché, altrimenti, si poteva restare impietriti42.
Difilo sosteneva che a Corinto, quando uno acquistava abitualmente
pesce, si avviava un’indagine per sapere cosa facesse e quanto
guadagnasse: se spendeva oltre quello che possedeva lo multavano e,
se non aveva nulla e viveva sfarzosamente, lo consegnavano al
boia43. Raccontava inoltre che in città il pesce raggiunse prezzi così
esagerati da arrivare a pagare un grongo a peso d’oro, come fece
Priamo per Ettore: se il gran dio Poseidone avesse ricevuto ogni
giorno la decima parte delle vendite nel mercato ittico sarebbe
diventato il più ricco degli dei44! Alessi annotava che i pesci, vivi o
morti, erano sempre nemici dell’uomo: quando una nave affondava
divoravano l’equipaggio, quando erano loro a essere catturati
mandavano in rovina chi li comprava45!
I pescivendoli erano accusati di fare affari d’oro alle spalle dei
poveri cittadini ma Alessi, invocando l’aiuto di Atena, chiedeva
come mai, pur ricevendo «tributi da re», erano tutt’altro che ricchi46.
Essi vendevano caro perché le risorse impiegate per procurare i
pesci erano superiori a quelle di qualsiasi altro alimento e perché,
facilmente deperibili, appena catturati dovevano essere mangiati47.
Antifane osservava che al mondo non ci fosse animale più sfortunato
dei pesci: una volta catturati, erano sepolti nella pancia di chi li
mangiava o, se consegnati agli sciagurati pescivendoli, dopo due o
tre giorni imputridivano48. Nell’antica Roma il costo del pesce
superava notevolmente quello degli altri cibi e Catone, biasimando
gli eccessi alimentari dei patrizi, annotava che difficilmente una città
in cui un pesce fosse più caro di un bue potesse sopravvivere49.
Andava urlando in città per denunciare quelle persone che avevano
introdotto il lusso dei paesi stranieri, arrivando a spendere 300
dracme per un vaso di pesce salato del Ponto50.
Nei secoli seguenti i deputati di alcune città italiane furono
costretti a prendere severi provvedimenti per regolare la vendita del
pesce, pur non essendo facile garantire la sussistenza ai pescatori,
assicurare il lecito guadagno ai rivenditori e tutelare le tasche degli
acquirenti51. Il 25 gennaio 1509, per arginare le speculazioni, le
autorità napoletane obbligarono pescatori e pescivendoli a vendere
la merce negli appositi mercati52. Con una serie di leggi in seguito
stabilirono che nessun sciabacaro, accattatore o ricattiere potesse
smerciare pesce al minuto o all’ingrosso e che dovesse essere
portato alla «pietra del pesce» per essere «ingabellato». Ricattieri e
pescivendoli, a loro volta, non potevano comprare pesce fresco dagli
sciabeccaj e rivenderlo liberamente a cittadini e tavernari. Il pesce,
infine, non doveva essere venduto «a occhio», ma determinandone le
quantità con le bilance; per i pescajoli che li lavavano o ne tingevano
le branchie per farli apparire più freschi, si prevedeva la
requisizione della merce, il ritiro della licenza, la somministrazione
di pene pecuniarie, frustate e carcere53.
Nel Settecento si aprì un’accesa discussione sulla vendita del
pesce e sull’opportunità di sottoporlo all’assisa. L’abate Scucrulla,
polemizzando con un collega, scriveva che per quanto i pescivendoli
usassero diverse astuzie per mantenere fresco il pesce, come quella
di tenerlo nelle grotte, esso non si poteva conservare a guisa delle
carrube o delle castagne e che bisognasse lasciare al popolo la
capacità di distinguere quello fresco da quello marcio. A chi
lamentava che i pescivendoli vendessero più caro il pesce che con
l’assisa, egli replicava che con il tempo loro stessi avrebbero
abbassato i prezzi perché la loro ingordigia avrebbe fatto scemare il
numero dei compratori e avrebbero rischiato di non vendere la
merce54. Pietro Zorzi scriveva che i governatori di Venezia, tramite la
cosiddetta «Arte dei Compravendi», avevano esercitato un tirannico
diritto sugli infelici pescatori pagando il loro pesce a «vilissimo
prezzo». Nel 1797 i lavoratori del mare gemevano nella miseria
poiché, nonostante rischiavano ogni giorno la vita nel mare in
burrasca, pagavano un dazio del 26 per cento su tutta la merce. I
Compravendi, padroni del pesce all’ingrosso, acquistavano i tonni
dei pescatori a 24 soldi la libbra e, sotto i loro occhi, lo vendevano a
50 soldi55!
Verso la fine del Settecento a Napoli il pesce era venduto dai
piscaturi, parsonali, rigattieri e bazzarioti. I piscaturi lo
vendevano ai parsonali, con cui stabilivano contratti annuali, i
rigattieri acquistavano i pesci di nascosto e i bazzarioti lo
prendevano da parsonali e rigattieri per venderlo al minuto. I
parsonali, quando c’era molto pesce impossibile da vendere, per
rallentarne l’imputridimento lo conservavano nelle grotte e lo
smerciavano in piccole quantità, così da mantenere il prezzo; i
rigattieri, comprando dai pescatori il pesce a un costo maggiore dei
parsonali, erano costretti a venderlo più caro. La vendita del pesce
era regolata da norme consuetudinarie e ogni quartiere aveva i suoi
venditori: i parsonali, ad esempio, vendevano soprattutto nelle
piazze di S. Lucia, del Mandracchio e della Pietra mentre i
bazzarioti in quelle di Garitta, Pignasecca, Porta S. Gennaro,
Pennino, Porto e Visitapoveri56.
Qualche anno dopo, in un’inchiesta sull’alimentazione, alcuni
studiosi napoletani osservavano che il popolo minuto facesse in
generale poco uso di pesci freschi perché il loro prezzo era
superiore alla carne di vacca, d’agnello, di maiale e di gallina. I
pesci servivano solo per rompere la monotonia del pasto a base di
pane e maccheroni. Nelle famiglie povere ogni tanto si preparavano
zuppe a base di vavose, ruonchi, marvizzi, pesci palombo e pesci
spinosi come sparagliuni, scurmi e castagna. Apprezzato era anche
un misto di pesci minuti chiamata fravaglia e un’altra mescolanza di
pesciolini detti mazzamme. Si preparavano in svariati modi anche
sarde, piccole alici (perché quelle più grandi si vendevano a caro
prezzo) e soprattutto polpi, cucinati in zuppa o in bianco e conditi
con olio e limone. Nei giorni di festa si andava nelle bettole per
mangiare la frittura di guarracini, sauri, saurielli, mazzuni,
tremolelle, pescatrici, fiche, suace e cazzilli di re, ma si trattava di
pesci già in via di putrefazione, cucinati con grassi rancidi e oli
cattivi57.
Il pesce pescato lungo le coste non era sufficiente a soddisfare la
domanda e si importavano da ogni parte pesci secchi, affumicati e
salati. Diversi medici avvertivano i pazienti di non farne grande uso
perché difficili da assimilare, generavano sangue denso e
provocavano diverse malattie58. Nonostante i pareri dei sanitari, il
consumo di baccalame era notevole e le acque in cui si dissalavano,
emanavano esalazioni così fetide da indurre le autorità a ordinare
che il pesce si potesse raddolcire solo nei mercati59. Baccalà e
stoccafisso conquistarono il favore anche dei contadini
dell’entroterra che, specialmente in occasione delle feste,
cominciarono ad acquistarli perché erano gustosi e avevano un
prezzo accessibile60. Per la capacità di conservazione e per il prezzo
conveniente il baccalame era largamente consumato anche nelle città
marinare, nei villaggi lungo la costa e nelle isole. Durante la
gravissima carestia del 1674, i messinesi per contrastare il tormento
della fame, si nutrivano ogni giorno con mezzo pane a testa e tre once
di baccalà61. Nello stesso secolo, per una grave epidemia di peste
che stava decimando i napoletani, le autorità vietarono la vendita di
pesce salato perché si riteneva che, consumato in grandi quantità,
fosse una delle cause del morbo62.
Nel Settecento vascelli provenienti da ogni parte d’Europa
scaricavano nei porti italiani barili e ceste di alici, sarde, sgombri,
salmoni, storioni, tonni, anguille, merluzzi e altri pesci salati, seccati
o affumicati63. Nel 1784 giunsero a Napoli decine di bastimenti che
trasportavano pesce salato e affumicato tra cui 21 brigantini inglesi
carichi di baccalà e di aringhe e 4 grandi vascelli danesi pieni di
stoccafisso64. Nel porto arrivavano anche feluche genovesi e
siciliane che trasportavano sarde e alici: nel 1834 dalla sola Sicilia
si esportarono nella capitale 22.058 once di acciughe, 53.836 di
sarde salate e 10.687 di tonnina65.
Polpi, seppie, calamari e totani non avevano un gran mercato e,
non a caso, insieme ai pesci presi con la cannuccia, si potevano
vendere senza limitazioni e senza tasse66. La loro pesca si praticava
solo in certi periodi dell’anno e con metodi arcaici. Calamari e
totani erano catturati con un semplice ordigno chiamato làtero o
spugna, pezzo di piombo dalla forma di fuso avente a un estremo una
corona di uncini a cui s’innescava lardo. L’aggeggio era tenuto
sospeso nell’acqua con una cordellina: il calamaro, attratto
dall’esca, vi si avventava voracemente rimanendo attaccato agli ami.
I totani, che a volte raggiungevano grandi dimensioni, erano catturati
anche con le palanghesi o calando un merluzzo fissato all’amo, detto
guancio, a sua volta legato all’estremità di un’asta detta agguancia.
Le seppie, che pascevano presso luoghi arenosi poco distanti dalla
costa, si pescavano con il lanciatoio e, se le acque erano agitate, si
usavano le sporte, grandi nasse che s’immergevano di giorno e si
lasciavano la notte. Nelle zone scogliose le seppie si prendevano con
la mazza ma alcuni pescatori di buon mattino usavano anche
trascinare dalla poppa della barca una seppia femmina e, quando i
maschi per naturale istinto vi si avvicinavano, li afferravano col
coppo67.
Anche le tecniche per pescare i polpi erano arcaiche. In un saggio
del 1932 sulla loro pesca nel golfo di Napoli, Santarelli scriveva che
la più diffusa fosse quella a fuoco o a ogliu che si praticava di notte,
nei fondali rocciosi, quando il mare era calmo. Due pescatori, uno ai
remi e l’altro a poppa, dove era fissata una forte lampada ad
acetilene a tre o quattro becchi, prendevano posto sul guzzo e si
aggiravano presso le scogliere, dov’era più facile trovare le prede.
Di tanto in tanto spruzzavano olio con una piuma per rendere visibile
il fondale e, appena avvistato il polpo, il marinaio a poppa lo
infilzava con una lunga fiocina. La pesca col cacatrapene si attuava
trascinando sul fondo un pezzo di pietra bianca, generalmente un
frammento di marmo al quale erano fissati dei crostacei chiamati
mammunacchia. L’attrezzo era legato a una cordicella di canapa
lunga una quarantina di metri e il polpo, attratto dal bianco e dalle
esche, vi si avvolgeva con i suoi tentacoli e, tirato lentamente in
superficie, era preso col coppo. Per catturare i polpi che si
nascondevano tra gli scogli, i pescatori usavano la purpara, un
attrezzo formato da un pezzo di piombo con quattro uncini sui quali
erano conficcati granchi o mezze sarde. L’ordigno, legato a una
funicella, era lanciato e trascinato lentamente, così da consentire al
mollusco di avventarsi sull’esca e rimanere agganciato agli ami.
Nella pesca a scaccia, che si eseguiva nelle giornate senza vento,
con il mare calmo e in fondali bassi, si agitava fra le rocce una
pezzuola bianca legata all’estremità di un’asta più o meno lunga detta
mazza. Il polpo verace, scambiando il panno bianco per una preda,
usciva dalla tana e il pescatore lo infilzava con il lanzaturo. La
pesca con le lancelle, orioli d’argilla cotta dalla bocca ampia e con
due maniche, si praticava durante l’estate in prossimità degli scogli
chiamati dai pescatori cuttiaturi. Vi si ponevano all’interno delle
pietre bianche per renderle pesanti e si calavano a basse profondità.
Ogni guzzo portava dalle trecento alle quattrocento lancelle legate
alla distanza di un metro e mezzo a una corda chiamata funiciello. La
«visita» alle lancelle, che i polpi pensavano fossero buone tane, era
fatta di giorno perché di notte erano in giro in cerca di cibo. La pesca
con le sporte si praticava in estate tra gli scogli e in inverno nelle
zone dette ciglio, dal nome di un’alga allungata. Le sporte erano
nasse di giunchi legate a una corda di paglia alla distanza di otto
metri, costruite in modo che il polpo, una volta entrato per mangiare
le esche, non potesse più uscire. All’interno delle nasse si mettevano
vari tipi di crostacei e si aggiungevano pietre per mantenerle sul
fondo in posizione orizzontale68.
Santarelli annotava che i polpi fossero molto richiesti dai
napoletani e di sera nei quartieri non mancavano venditori ambulanti
che li vendevano lessi e conditi con salsa piccante. Nel golfo ogni
anno se ne prendevano circa trecento quintali e in inverno, quando la
pesca era meno abbondante per via del mare agitato, arrivavano
soprattutto dalla Sardegna dove se ne pescavano oltre cento quintali.
Il polpo sinisco o asinesco, come lo chiamavano i popolani, era
preso in grande quantità con le reti nelle zone sabbiose ma non era
molto apprezzato perché difficile da cuocere e di sapore insipido69.
Quello ricercato era il purpo verace o purpu di scoglio, specie se
piccolo, più saporito e delicato di quelli più grandi70. Per intenerirne
la carne, si bagnavano nell’acqua di mare e si battevano sugli scogli
o con una mazza di legno, quindi si ponevano all’interno di ceste che
i marinai agitavano ripetutamente in modo da farne arrizzare i
tentacoli e secernere una leggera schiuma bianca71.
1. Fernand Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini
e le tradizioni, Bompiani, Milano 1999.
2. Giuseppe Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità
relativamente al Regno di Napoli, per Vincenzo Flauto, Napoli
1788, pp. 123-127.
3. Lazzaro Spallanzani, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti
dell’Appennino, nella stamperia di Baldassarre Comini, Pavia 1793,
t. IV, pp. 308-318; Commissione compartimentale di pesca, La pesca
del pesce-spada in Calabria, tip. P. Lombardi, Reggio Calabria
1906; Rocco Sisci, La caccia al pesce spada nello Stretto di
Messina, Sfameni, Messina 2005; Agatino D’Arrigo, La pesca del
pescespada in Calabria dal II secolo a.C. ai nostri tempi, in Atti
del 1 Congresso storico calabrese, Cosenza 15-19 settembre 1954,
pp. 403-423; Giorgio Picciotto, Le formule greche usate un tempo
nella pesca del pescespada nello stretto di Messina, Moti, Palermo
1965; Giovanni Sole, La foglia di alisier. Calabria e calabresi nei
diari di viaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 382-388;
Mico Morabito, La pesca del pesce-spada nel mare di Palmi, in
Folklore della Calabria, in «Rivista di Tradizioni Popolari»,
Società Calabrese d’Etnografia e Folklore, a. III, n. 2, Palmi 1958,
pp. 74-78.
4. Cfr. Ilario Tranquillo, Istoria apologetica dell’antica Napizia,
oggi detta il Pizzo, nella stamperia di Carmino Pedagna, Napoli
1725, pp. 104-106; Francesco Paolo Avolio, Osservazioni pratiche
intorno la pesca, corso e cammino de’ tonni, presso la Società
Tipografica, Messina 1816; Atti della Commissione reale per le
tonnare, tip. Eredi Botta, Roma 1889; Le tonnare di Pizzo.
Materiali, documenti, ricerche, Qualecultura - Jaca Book, Vibo
Valentia 1991.
5. Cfr. Melchiorre Gioia, Filosofia della statistica, da’ torchi del
Tramater, Napoli 1831, pp. 249-260.
6. Vite degli antichi filosofi moralissime e delle loro elegantissime
sentenze cavate da Diogene Laerzio e da altri antichi autori,
appresso all’Arcivescovado, Firenze 1593, p. 23.
7. Francesco Negri (a cura di), Lettere di Alcifrone, presso Salvi e
Ripamonti, Milano 1806, pp. 20-36.
8. Vincenzo Padula, Industria terreni e stato delle persone in
Calabria (dal “Bruzio”), Padula ed., Roma 1978, pp. 137-146.
9. Raffaele Lombardi Satriani, Credenze popolari calabresi, Fratelli
De Simone, Napoli 1951, p. 79.
10. Vincenzo Padula, op. cit., pp. 137-146.
11. Giuseppe Chiapparo, La marineria tropeana nelle sue tradizioni
e consuetudini, Prampolini, Catania 1939, p. 167. Cfr. Giovanni
Sole, La pesca e il mare nella Calabria tradizionale, in
«Daedalus», n. 7-8, luglio-dicembre 1991 e gennaio-giugno 1992,
pp. 93-124; Id., Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800. Pagine
di storia sociale, Amministrazione Provinciale, Cosenza 1985, pp.
114-123; Alida Clemente, Il mestiere dell’incertezza. La pesca nel
golfo di Napoli tra XVIII e XX secolo, Guida, Napoli 2005.
12. Cfr. Francesco di Paola Avolio, Delle leggi siciliane intorno
alla pesca, dalla Reale Stamperia, Palermo 1805.
13. Cfr. Valdo D’Arienzo, Biagio Di Salvia (a cura di), Pesci,
barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età
contemporanea, Atti del quarto Convegno internazionale di studi
sulla storia della pesca, Fisciano-Vietri sul Mare-Cetara, 3-6 ottobre
2007, Franco Angeli, Milano 2010.
14. Petizione documentata dei pescatori siciliani al Parlamento
Nazionale sulla necessità, pubblica e privata, di modificarsi alcune
disposizioni del codice per la marina mercantile, concernenti
l’esercizio della pesca, stab. di Giuseppe Pellai, Firenze 1869, p. 8.
15. Cfr. Pietro Coccoluto Ferrigni, La piccola pesca e le paranzelle,
tip. di Odoardo Sardi, Livorno 1866.
16. Leonardo Dorotea, Sommario storico dell’alieutica che si
esercita nelle provincie meridionali e della legislazione correlativa
alla stessa, stab. tip. di F. Vitale, Napoli 1863, pp. 6-8.
17. Cfr. Nicolò Joele, Difesa della proibizione della pesca con
tartane francesi, anche ad una, a tenor del Generale Editto del fù
Cons. Coll. del 1729, s.e., Napoli 1738.
18. Cfr. Leonardo Dorotea, op. cit., 1863.
19. Giuseppe Genè, Dei pregiudizi popolari intorno agli animali,
Tommaso Vaccarino, Torino 1869.
20. Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 61-62 Apelle Dei, Ittiologia,
piscicoltura e pesca nella provincia senese, tip. A Moschini, Siena
1871, pp. 61-62; Giuseppe Antonio Pasquale e Giulio Avellino,
Flora medica della provincia di Napoli, dai tipi di Azzolino e
Compagno, Napoli 1841, p. 87; Antonio Vaccari, Sulla tossicità di
due piante indigene italiane usate come veleno per i pesci:
Oenanthe Crocata L. e Daphne Gnidium L., tip. L. Cecchini, Roma
1906.
21. Saggio sopra le malattie più comuni alla gente di campagna e
sopra il metodo di medicarle. Opera utile e necessaria a qualunque
genere di persone, s. e., Milano 1784, pp. 11-15.
22. Etienne Tourtelle, Trattato d’igiene ossia dell’influenza delle
cose fisiche e morali sull’uomo e dei modi di conservare la salute,
co’ tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli, Venezia 1842, pp. 203-208. Cfr.
Saggio sopra le malattie più comuni alla gente di campagna e
sopra il metodo di medicarle, s.e., Milano 1784.
23. Giuseppe Bernoni, L’igiene della tavola dalla bocca del popolo,
ossia proverbi che hanno riguardo all’alimentazione raccolti in
varie parti d’Italia, tip. di Giuseppe Cecchini, Venezia 1872, pp. 39,
47.
24. Prediche del beato F. Giordano da Rivalto, in Collezione di
sacri oratori italiani, tip. della Speranza, Firenze 1833, pp. 296-
297.
25. Johann Peter Frank, Sistema completo di polizia medica, presso
Pirotta e Maspero, Milano 1807, p. 177. Cfr. La teologia del
chiostro overo la santità e le obbligazioni della vita monastica,
nella stamperia di Antonio de’ Rossi, Roma 1731, pp. 146-148. Cfr.
Massimo Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la
tavola, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 80-87.
26. Pompeo Sarnelli, Lettere ecclesiastiche, appresso Antonio
Bortoli, Venezia 1716, p. 24.
27. Vangelo secondo Matteo, XV, II, in Moraldi L. (a cura di), op.
cit., p. 1129.
28. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 8, 7, in Moraldi L. (a cura di),
op. cit., p. 1281.
29. Lodovico Thomassin, Trattato dei digiuni della Chiesa, Lucca,
appresso Sebastiano Domenico Cappuri, 1742, pp. 57-58.
30. Anselmo Costadoni, Dissertazione sopra il pesce come simbolo
di Gesù Cristo presso gli antichi cristiani, dal Monastero di San
Michele presso Murano, Venezia 1749. Cfr. Johann Cyprian,
Dissertatio philologica de nomine Christi ecclesiastico acrosticho
piscis, Literis Goezianis, Lipsiae 1699.
31. Vincenzo Maria De’ Nobili, Opere predicabili contenenti
lezioni sacro- morali. Panegirici e discorsi sacri, all’insegna del
Cicerone, Venezia 1766, pp. 58-59.
32. Giacomo Picenino, La chiesa di Gesù Cristo vendicata ne’ suoi
contrassegni e né suoi dogmi contro le impugnazioni presentate,
appresso Gio. Battista Recurti, Venezia 1724, p. 533. Cfr. Daniello
Concina, La Quaresima appellante dal foro contenzioso di alcuni
recenti casisti al tribunale del buon senso e della buona fede del
popolo cristiano sopra quel suo precetto del digiuno, presso
Simone Occhi, Venezia 1756, pp. 179-180.
33. Giuseppe Rigetti, Del digiuno e della Quaresima, tipografia
delle Belle Arti, Roma 1834, pp. 95-96; Ludovico Thomassin,
Trattato dei digiuni della Chiesa, appresso Sebastiano Domenico
Cappuri, Lucca 1742, pp. 57-58.
34. Ateneo, op. cit., VII, 313f, vol. II, p. 759. Cfr. I frammenti della
gastronomia di Archestrato, cit., p. 15.
35. Plinio, op. cit., vol. II, p. 345.
36. Paolo Giovio, op. cit., p. 18.
37. Della famosissima compagnia della Lesina. Dialogo, capitoli e
raginamenti. Con l’aggiunta d’una nuova Riforma, Additione &
assottigliamento della unta della Lesina. Alla quale si è rifatto il
manico, venuto meno per l’uso continuo de’ Fratelli. Et infine si
danno i ricordi di Filocerdo della casata delli sparmiatori
all’Academia, e compagnia dell’una, & dell’altra Provincia della
Lesina Maggio e minore, Dove trattasi di nuovi, & utilissimi
precetti dalla compagnia a massari suoi raccolti dall’economo
della spilorceria e di nuovo ricorretta, per Antonio Colaldi, Orvieto
1600, p. 23. Cfr. Giulio Cesare dalla Croce, La vera regola per
mantenersi magro con pochissima spesa, scritta da Messer
Spilorcione de’ Stitichi, Correttore della nobilissima Compagnia
della Lesine, am. Agocchion Spontato suo compare. Opera
utilissima per tutti coloro, che patiscono strettezza di borsa, presso
gli Heredi di Bartolomeo Cochi, al Pozzo rosso, Bologna 1622.
38. Ateneo, op. cit., VI, 224c, vol. II, p. 546.
39. Ivi, VI, 225c, vol. II, p. 547.
40. Ivi, VI, 225c, vol. II, p. 548.
41. Ivi, VI, 226b, vol. II, p. 550.
42. Ivi, II, 224c, vol. II, p. 546.
43. Ivi, VI, 228b, vol. II, p. 553.
44. Ivi, VI, 227a, vol. II, p. 551.
45. Ibidem.
46. Ivi, VI, 226b, vol. II, p. 549.
47. Arte di conservare alimenti tanto vegetabili che animali
impiegati particolarmente nell’economia domestica pel nutrimento
dell’uomo, dalla tip. di Commercio, Milano 1824, pp. 43-45.
48. Ateneo, op. cit., VI, 224c, vol. II, p. 546.
49. Carlo Rollin, Storia antica e romana, a spese del Nuovo
Gabinetto Letterario, Napoli 1829, p. 183.
50. Ateneo, op. cit., VI, 275b, vol. II, p. 651.
51. Capitolazione sopra la Grassa, ed altre cose spettanti
all’officio de gli Edili, da osservarsi nella Città di Ravenna, e suo
distretto, appresso gli stampatori Camerali & Archiepiscopali,
Ravenna 1649, pp. 19-22.
52. Privilegii et capitoli con altre gratie concesse alla fedeliss.
Città di Napoli, & Regno per li Sereniss. Rì di Casa de Aragona,
per Pietro Dusinelli ad istantia di Nicolò de Bottis, Venetia 1588, p.
72.
53. Supplementum pragmaticarum novissime editarum ab anno
MDCCXII usque ad annum DCCXVIII, t. VI, p. 14-15; Istoria delle
leggi e magistrati del Regno di Napoli, nella stamperia Simoniana,
Napoli 1767, pp. 219-221; Lorenzo Cervillini, Direttorio della
prattica civile e criminale, nella stamperia di Giovan Francesco
Paci, Napoli 1723, pp. 38-39; Nuova collezione delle prammatiche
del Regno di Napoli, nella stamperia Simoniana, Napoli 1803, pp.
228-229. Cfr. Ginesio Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del
Regno di Napoli, a spese di Andrea Migliaccio, Napoli 1772, p.
177.
54. Lettera dell’abate Scucrulla intorno all’abolizione dell’assisa
del pesce mandata da Sorrento à 23 di Luglio 1790 al signor F.D.,
in Signorelli P., Opuscoli vari, stamperia Orsiniana, Napoli 1793, t.
III, pp. 130-151. Cfr. Giacinto Bellitti, Considerazioni sulla libertà
dell’annona e sull’abolizione dell’assisa del pesce, s.e., Napoli
1791; Francesco Mario Pagano, Ragionamento sulla libertà del
commercio del pesce in Napoli, s.e., Napoli 1789; Pietro Patrizj,
Per gli Arrendamenti del Reale, e del Grano a rotolo del Pesce. In
esclusione della dinunzia loro fatta nella Regia Camera della
Sommaria Commessario il dottiss. Presidente Sig. D. Gennaro di
Ferdinando, s.e, Napoli 1772.
55. Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, legislazioni ec. ec. ec.
del nuovo Veneto Governo Democratico, dalle stampe del cittadino
Gatti, Venezia 1797, vol. VIII, pp. 52-55, 118.
56. Giacinto Bellitti, op. cit., p. 54.
57. Achille Spatuzzi e Luigi Somma, Sull’alimentazione del popolo
minuto in Napoli, stamperia della R. Università, Napoli 1863, pp.
39-47; Errico Renzi, Sull’alimentazione del popolo minuto di
Napoli, stamperia della R. Università, Napoli 1863, pp. 25-29.
58. Fulvio Gherli, op. cit., pp. 164-165; Ugo Benzo, Regole della
sanità et della natura de cibi, per gli Heredi di Gio Domenico
Tarino, Torino 1620, p. 497.
59. Giambatista De Luca, Il dottor volgare, ovvero il compendio di
tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più
ricevute in pratica, coi tipi della Società Italiana, Firenze 1843, p.
660; Giornale delle udienze della Corte di Cassazione e delle Corti
Reali, della tip. dell’Ateneo, Napoli 1827, p. 458.
60. Gino Capponi, Cinque lettere di economia toscana lette
nell’Accademia dei Georgofili, coi tipi della Galleria, Firenze 1845,
p. 70. Cfr. Codice gastrologico economico per istruzione dei
giovani che vogliono professare l’arte della cucina, credenziere e
liquorista e per quelli che vogliono dilettarsi in simili arti, per i
tipi di G. Galletti, Firenze 1841, pp. 71-74; Ippolito Cavalcanti,
Cucina teorico-pratica col corrispondente riposto ed apparecchio
di pranzi e cene, dalla tip. di G. Palma, Napoli 1839, pp. 82-85.
61. Giovanni Battista Romano Colonna, Della congiura de’ ministri
del re di Spagna contro la fedeliss. ed esemplare città di Messina.
Racconto istorico. Parte seconda nella quale si contengono le
gloriose imprese della città di Messina, le vergognose fughe de gli
Spagnuoli, la penuria e la fame da i cittadini, appresso Gio e
Giacomo Anisson e Gio Posuel, Lione 1678, p. 55.
62. Carlo Botta, Storia d’Italia continuata da quella di
Guicciardini sino al 1789, tip. e lib. Elvetica, Capolago 1833, p.
151.
63. Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due
Sicilie, n. 44, dalla Stamperia Reale, Napoli 1826, p. 153.
64. Francesco di Paola Avolio, Delle leggi siciliane intorno alla
pesca, dalla Stamperia Reale, Palermo 1805, p. 40.
65. Giornale di statistica compilato dagl’impiegati nella Direzione
Centrale della Statistica di Sicilia, della Reale Stamperia, Palermo
1836, vol. I, p. 15. Cfr. Attilio Zuccagni Orlandini, Corografia
fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole corredata di
un atlante di mappe geografiche e topografiche e di altre tavole
illustrative, presso gli Editori, Firenze 1842, p. 396; Itinerario
italiano o sia descrizione dei viaggi per le strade più frequentate
alle principiali città d’Italia, presso gli editori Pietro e Giuseppe
Vallardi, Milano 1824, p. 281.
66. Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, nella
stamperia Simoniana, Napoli 1767, pp. 215-216.
67. Adolfo Targioni Tozzetti, La pesca in Italia. Documenti raccolti
per cura del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio del
Regno d’Italia, tip. del Reale Istituto Sordo-Muti, Genova 1871, pp.
410-411.
68. Mario Santarelli, La pesca del polpo (Octopus vulgaris) nel
golfo di Napoli, Bulletin de l’Institut Océanographique, n. 597, 30
avril, Monaco 1932, pp. 1-6.
69. Stefano delle Chiaie, Memorie sulla storia e notomia degli
animali senza vertebre del Regno di Napoli, stamperia della Società
Tipografica, Napoli 1829, vol. IV, pp. 39-49.
70. Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896, p. 216.
71. Adolfo Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 408-410; Leonardo
Dorotea, op. cit., p. 12; Achille Costa, La pesca nel golfo di Napoli,
in Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali
Economiche e Tecnologiche di Napoli, II serie, t. VII, pei tipi del
commendatore G. Nobile, Napoli 1870, pp. 73-76; Mario Santarelli,
La pesca del polpo (Octopus vulgaris) nel golfo di Napoli, Bulletin
de l’Institut Ocèanographique, Monaco 1932.
Il tabù del polpo
Plutarco riconosceva che il divieto dei pitagorici di mangiare
alcuni pesci e molluschi rimane oscuro1.
Malgrado i tabù appaiano spesso insensati, essi si riferiscono a
una realtà concreta e, se la realtà è complessa e varia, complessi e
vari sono anche i loro significati. Queste accezioni, a volte
completamente diverse, possono convivere data la natura dinamica
del tabù, che ne consente la modifica senza che si creino
contraddizioni. È impossibile tracciare un quadro unico sul
significato del tabù del polpo anche perché esso non si sottrae ai
mutamenti politici, sociali ed economici. Il tabù è un imperativo
categorico soggetto a contaminazioni, nel tempo assume forme e
contenuti modellati sui bisogni degli uomini. Se oggi il polpo
rappresenta un cibo buono da mangiare, secoli fa era considerato un
alimento abominevole; quella che oggi appare come una bizzarra
proibizione, non lo era affatto per l’uomo antico. Il tabù è una realtà
vivente perché possiede valore sentimentale per l’individuo e per il
gruppo: prima del significato c’è il tabù stesso e l’effetto prodotto
sugli uomini. Il problema, dunque, non è solo quello di coglierne i
significati ma di intenderne l’operatività e il senso immediato.
È arduo far luce su un prodotto culturale remoto, trasposizione di
significati profondi e inconsapevoli. Un tabù è difficile da
comprendere poiché, come il mito, è per sua natura bizzarro e
illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione, non risponde a
domande e non fornisce spiegazioni2. Il suo scopo è offuscare e non
chiarire, affascinare e non persuadere, dare risposte e non porre
domande3. Gli uomini non capiscono il senso di alcuni tabù ma vi si
immedesimano anche contro i propri interessi: non è importante
come gli uomini pensino nei tabù, ma come i tabù s’impongano
all’insaputa4.
I pitagorici nascondevano le motivazioni dei tabù e le rendevano
un punto di forza della comunità, fondata su legami che prevedevano
l’obbligo della segretezza. Lo stesso Pitagora non ha lasciato nulla di
scritto e sulla sua persona è discesa una coltre di mistero. Le regole
dell’ordine si trasmettevano da maestro a discepolo con l’obbligo di
mantenere segreti i dogmi della setta. Apuleio ricorda che Pitagora,
il primo a dare nome e vita alla filosofia, insegnava il silenzio e
l’educazione all’ascolto5.
Un tabù è tale perché si presta a diverse interpretazioni.
Giamblico sosteneva che per alcuni detti pitagorici mancasse una
giustificazione razionale: il divieto di spezzare il pane, ad esempio,
per alcuni significava non dover dividere ciò che univa mentre, per
altri, tale gesto offendeva gli dei, rendeva vili in guerra o era di
cattivo auspicio6. Aristotele pensava che la proibizione di
raccogliere le briciole di pane cadute per terra avesse lo scopo di
abituare i discepoli a mangiare con parsimonia o fosse connessa alla
morte di qualcuno, mentre per Aristofane la ragione dell’usanza
risiedeva nel fatto che le briciole appartenessero agli eroi o ai
«daimoni»7.
Il divieto di mangiare polpi e molluschi può avere spiegazioni
diverse e tutte abbastanza valide. Diodoro Siculo raccontava che gli
egiziani veneravano alcuni animali, li accudivano con gran cura e
alla morte li imbalsamavano e seppellivano nelle grotte. Chi
uccideva bestie sacre era condannato alla pena capitale e accadeva
che se un uomo era sorpreso accanto al corpo di un animale senza
vita, giurasse disperato d’averlo rinvenuto già morto. Durante le
gravi carestie granarie, gli egiziani si erano «pasciuti» spesso di
carne umana ma mai furono accusati di avere mangiato anche un solo
«atomo» di animale divino. Diodoro scriveva che la ragione del
divieto fosse religiosa poiché si riteneva che in un tempo
primordiale, per disprezzo della cattiveria umana, gli dei si fossero
trasformati in animali: ucciderli o nutrirsene significava, dunque,
dannarsi per sempre. Secondo altri la proibizione aveva motivazioni
di carattere militare: dato che gli eserciti erano spesso sconfitti in
battaglia per il disordine che regnava tra le truppe, i faraoni
stabilirono che sugli stendardi dei reparti fossero disegnate immagini
di pesci, uccelli, insetti e mammiferi, da non uccidere o mangiare in
caso di memorabili vittorie. I tabù relativi ad alcuni animali
rispondevano anche a preoccupazioni d’ordine politico. Gli antichi
re avevano imposto il culto di animali differenti nelle province in
modo che le comunità, risentite una con l’altra a causa del disprezzo
altrui per il proprio cibo sacro, non si alleassero contro lo Stato.
Diodoro aveva osservato che le regioni confinanti del regno fossero
in continua discordia per il mancato rispetto verso gli animali sacri e
che tale divisione fosse presente nelle singole comunità poiché ogni
classe sociale aveva alcune bestie cui rendere onori divini. Per
Diodoro il divieto di mangiare certi animali aveva soprattutto una
spiegazione economica: essi erano più utili da vivi che da morti. I
buoi aravano la terra e aiutavano i contadini nei trasporti, le pecore
davano lana, latte e formaggio, il cane braccava le prede e difendeva
le case, i gatti tenevano lontani i topi dai villaggi, l’ibilo cacciava i
serpenti velenosi e le locuste che distruggevano i campi, l’icneumone
scovava e mangiava le uova dei coccodrilli, rettili a loro volta
oggetti di culto perché la loro presenza teneva lontane dalle sponde
del Nilo le bande di predoni arabi e africani8.
Diodoro terminava le proprie riflessioni ricordando che gli
animali sacri erano rispettati e amati perché non consumavano cibi
destinati alla mensa degli uomini, come lenticchie, fave e grano.
Anche i pesci non intaccavano le risorse alimentari umane ma, pur
rappresentando un’immensa fonte di nutrimento, erano considerati
esseri imperfetti perché utili solo come cibo9. Anche altre specie
animali, come i maiali, davano solo carne ma si potevano allevare,
mentre i tentativi di allevare pesci si erano rilevati deludenti e
dispendiosi. Marrone scriveva che Ortenzio, per costruire le
peschiere a Baulì, spendeva più in cibo per i pesci che in vitto per
gli asini: per un somaro bastavano uno schiavo, un po’ d’orzo e
dell’acqua mentre per sfamare i pesci erano necessari molti operai e
grandi quantità di pesce salato. Lucullo aveva fatto scavare
addirittura un canale sotterraneo per fare entrare acque di mare nelle
sue peschiere che, costruite più per piacere della vista che per
profitto, contribuivano a vuotare la borsa piuttosto che riempirla10!
Il tabù è un prodotto culturale complesso e per molti studiosi il
termine va utilizzato con gran cautela. Steiner sostiene che nella
categoria dei tabù sono rientrate troppe cose del tutto differenti tra
loro e che nella cultura occidentale si è abusato indiscriminatamente
e impropriamente del termine11. Freud invitava a riflettere sulla
differenza tra divieti e tabù mentre Radcliffe-Brown ricordava che
l’uso della parola tabu nel linguaggio polinesiano avesse un
significato più vasto del termine «proibito» e, proponeva di usare il
termine «proibizione rituale» per quelle credenze secondo cui una
maggiore o minore sventura colpisse chi infrangeva le norme dello
status rituale12.
I tabù alimentari del mondo antico, come molti miti, rivelano una
complessità tale da spingerci a pensare che resteranno indecifrabili.
Baudrillard scrive che ogni interpretazione si oppone alla seduzione
e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia13. E
Calvino aggiunge che qualsiasi spiegazione impoverisce e soffoca il
tabù o un mito, la cui enorme ricchezza di significati non può essere
rivelata dalla logica di un ragionamento14. Il tabù può essere riferito
a natura, storia, superstizione, scienza, religione, psicologia,
medicina o economia e sembra avere un senso in ciascun campo. È
un fenomeno sociale totale che, per le sue caratteristiche, investe
ogni ambito della vita dell’uomo e della società; è una realtà
culturale complessa che può essere analizzata in prospettive
molteplici e complementari ed è del tutto inutile trovare origini o
spiegazioni poiché spesso contiene in sé motivazioni spesso in
contraddizione o addirittura in opposizione15.
Sul polpo gli antichi scrivevano tutto e il contrario di tutto.
Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché
per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava
catturare. Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca
d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori
dall’acqua. Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali
intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i
colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente
ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per
impedire che queste potessero chiudersi.
Secondo alcuni studiosi il polpo era un animale che scappava di
fronte alla minaccia mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per
intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di
vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai
nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi
tentacoli16. Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di
fori cambiasse colore come quella di un camaleonte a causa della
sua paura17. Per altri studiosi il polpo era un animale coraggioso e,
quando giungeva a una certa grandezza, conseguiva una forza tale da
essere considerato una «tigre del mare». Olao Magno Gotho
raccontava che l’animale fosse feroce, crudele, aggressivo e che
preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al
combattimento; aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai,
pescatori e palombari18. Maier sosteneva che il polpo era il simbolo
del coraggio e raffigurato nelle monete di alcune città della Magna
Grecia esprimeva la forza e il carattere guerriero degli abitanti19.
Giovanni Fiore, interpretando una moneta di Turio sui cui lati
erano raffigurati un delfino e un polpo, scriveva che il primo
simboleggiava la volontà di girare come un pellegrino per il mondo,
il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, la sedentarietà e la cura
per i beni20. Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse
descritto dagli antichi come un dissipatore di sostanze e un
divoratore senza ragione: gli egiziani, ad esempio, nei geroglifici lo
utilizzavano per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della
propria potenza21.
Per Ateneo e Olao Magno il polpo era l’emblema della libidine,
infedele alla compagna e sempre in giro per appagare le voglie
sessuali, debilitandosi a tal punto da divenire preda d’innocui
pesciolini che lo divoravano nella sua stessa tana. Gioia scriveva,
invece, che il polpo fosse un animale tranquillo, tanto terribile e
feroce quando affrontava il nemico quanto dolce e affabile nei
confronti della famiglia. Disinteressato alle conquiste femminili,
dopo la caccia tornava sotto il tetto coniugale e la compagna si
sentiva protetta e appagata dalla sua fedeltà e dal suo amore22.
Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di
mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura
e a non disprezzare le altre. Lo stesso san Paolo si era comportato
come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone
leggi e tradizioni23. Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e
altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare, un pesce
molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori
senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere
nefandezze e soddisfare i loro interessi venali24.
L’elenco di opinioni discordi sul polpo potrebbe continuare.
Eliano e Picinelli, ad esempio, sostenevano che fosse così avido e
ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che
mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro
cibo25. Ateneo e Plinio scrivevano che le mutilazioni dei polpi
fossero da attribuire ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie
alla vischiosità delle membra, sfuggivano la morsa tentacolare26.
Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa
rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica: egli
simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia, vizi
riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i
Siracusani. D’altro parere lo studioso Testa, secondi cui il polpo
incarnava l’immagine della città siciliana. In alcuni piombi di navi
mercantili il mollusco era raffigurato con una stella marina, per
simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove
dimoravano i polpi27. Secondo alcuni il polpo era l’animale marino
che incarnava le cattive abitudini degli uomini ed era indicato dai
predicatori cristiani come simbolo del demonio, ma in alcune città
marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla
nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla
puerpera28.
I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e
coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi. Un proverbio antico
diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che
non erano né tutte buone e né tutte cattive29. Il pensiero mitico va
oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza
contrastarsi, sono aspetti complementari di una realtà unica.
L’octopus indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il
soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina: questo
rapporto dialettico e la convivenza degli opposti alimentavano il suo
mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si
compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno
accanto all’altro.
Importanti sono le riflessioni sui pesci del cuoco e scalco
Domenico Romoli, soprannominato «Panonto». Alla fine del
Cinquecento scriveva che non fosse consigliabile mangiare pesci
perché di scarso nutrimento, particolarmente dannosi e difficili da
digerire. Egli spiegava che esistevano tre tipi di pesci: di mare, di
fiume e d’acqua dolce e salata. I meno buoni da mangiare erano
senza dubbio quelli delle acque dolci, la cui l’umidità era superiore
rispetto a quella dell’acqua salata. I pesci marini erano più caldi e
meno viscosi degli altri perché la salsedine, intiepidendoli, li
rendeva magri e quindi di più facile digestione. I pesci che vivevano
in mare si dividevano a loro volta in due specie: quelli che vivevano
lungo la costa e quelli che vivevano in alto mare; questi ultimi, anche
se meno saporiti, erano più assimilabili e più idonei alla salute
dell’uomo. Pascendo in acque fredde e umide i pesci di fiume erano
più grassi e densi e, di conseguenza, più difficili da assimilare.
Quelli dei fiumi impetuosi erano da preferire a quelli dei fiumi che
scorrevano pigramente e, tra questi, i migliori erano i pesci che
vivevano in acque dominate da venti di tramontana. Le acque chiare
e veloci intenerivano le carni dei pesci, facevano perdere grossezza
e toglievano il cattivo odore, mentre le acque lente e torbide
rendevano le carni grasse, pesanti e sgradevoli. I pesci dei fiumi
rapidi e pietrosi erano migliori di quelli che abitavano in fiumi
placidi e fangosi, quelli che vivevano in fiumi arenosi superiori a
quelli degli stagni melmosi. I pesci meno buoni da mangiare erano
quelli che vivevano nelle acque spesse e torbide delle paludi: le loro
carni si corrompevano presto e generavano umori nocivi allo
stomaco. Sebbene fossero gustosi, anche i pesci dei laghi e delle
peschiere non erano consigliabili. I pesci che passavano dal mare in
acque dolci ingrassavano e diventavano più pesanti, mentre i pesci di
acqua dolce che passavano in mare diventavano più leggeri. I pesci
con carne molle, viscosa e grassa erano più nocivi per la salute degli
uomini, generavano sangue cattivo ed erano più difficili da digerire;
meglio scegliere i pesci piccoli rispetto ai grandi e quelli con la
carne dura rispetto a quelli con la carne molle. I pesci di taglia
media erano più apprezzabili di quelli di taglia piccola e grossa e tra
quelli di taglia media erano migliori quei pesci che non erano piccoli
o grossi. I pesci che avevano le scaglie erano da preferire a quelli
lisci, quelli con scaglie dure e spesse a quelli con scaglie molli e
sottili e quelli con molte spine a quelli che ne avevano meno. Le
parti mobili dei pesci, come la coda, erano migliori perché più facili
da smaltire e, tra queste, le più lodevoli erano quelle dei pesci grassi
rispetto a quelli magri30.
I ragionamenti di Romoli contenevano indubbiamente conoscenze
dettate dall’osservazione e dall’esperienza ma molte congetture non
avevano alcun fondamento o, perlomeno, erano discutibili. Egli
collocava i pesci in una scala di valori, un sistema di coppie
concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente
e il secondo negativamente. Analogamente, Pitagora raccomandava
ai discepoli di onorare gli dei prima dei daimoni, i daimoni prima
degli eroi, gli eroi prima dei genitori e i genitori prima dei parenti31.
Il filosofo considerava il mare un mondo estraneo agli uomini e
quindi i pesci che lo abitavano non erano buoni da mangiare e i più
immondi erano i molluschi, i crostacei e i melanuri dalla coda nera32.
La religione ebraica proponeva una scala di valori dei cibi
dividendoli tra puri e impuri, leciti e illeciti, mondi e immondi33. Per
Medici, studioso del Settecento, era poco credibile che Dio avesse
fornito una lista di animali pericolosi per la salute o che favorivano
pensieri poco onesti. A chi sosteneva che la carne in paesi caldi
come la Giudea fosse di nocumento al corpo e all’anima, obiettava
che ciò era vero anche per gli animali consentiti. La tesi secondo cui
alcune bestie fossero vietate perché simbolicamente rappresentavano
vizi e difetti degli uomini (come la pusillanimità della lepre, la
sordidezza del porco, l’ignoranza della civetta, la rapacità dello
sparviero e l’arrendevolezza del cammello) era senza fondamento
perché in ogni animale si potevano intravedere aspetti positivi e
negativi. Prive di fondamento anche le argomentazioni secondo cui,
vietando di mangiare senza spiegazione alcuni animali, Iddio avesse
messo il popolo ebraico in condizioni di totale ubbidienza: avendo
creato il mondo e gli uomini, non aveva certo bisogno di ricorrere a
questi mezzi per essere ricordato e venerato. Molti sostenevano che
gli ebrei dividessero gli animali in mondi e immondi, per affermare
il proprio primato sulle altre popolazioni; asserzione poco credibile
dato che molti animali consentiti e proibiti erano tali anche per i
popoli vicini come gli egiziani34. I rabbini non erano in grado di dare
spiegazioni convincenti alle proibizioni alimentari. Riguardo ai
pesci, ad esempio, sostenevano che bisognasse mangiare solo quelli
con pinne e squame perché le prime consentivano un moto regolare
nelle acque e le seconde difendevano il corpo dalle impurità. Gli
altri pesci erano immondi perché, vivendo nei fondali e nella melma,
avevano carni che opprimevano lo stomaco e offuscavano la mente35.
Tale ragionamento poteva avere anche una sua logica ma gli ebrei
non avevano una tradizione marinara, non conoscevano le abitudini e
le caratteristiche delle specie marine e, non a caso, nelle sacre
scritture non è citato un sol nome di pesce36.
Si è molto discusso sui significati filosofici, economici, sanitari,
superstiziosi, religiosi e magici legati alle singole proibizioni degli
ebrei ma è difficile spiegare perché fosse consentito mangiare la
carne di pecora piuttosto che di lepre, di giraffa piuttosto che di
cammello, di vacca piuttosto che di cavallo, d’anatra piuttosto che di
struzzo, di cavalletta piuttosto che di serpente, di tacchino piuttosto
che di struzzo, di capra piuttosto che di maiale, di salmone piuttosto
che di storione e di cefalo piuttosto che di polpo. Bianchi Giovini
scriveva che la distinzione tra cibi puri e impuri degli israeliti non
fosse fondata su principi morali, religiosi o sanitari ma provenisse
da remoti principi e simboli che si perdevano nella notte dei tempi e
che ignoravano loro stessi37.
Alcuni tabù alimentari del mondo antico sono simili a tante
credenze bizzarre e incomprensibili diffuse nel mondo popolare. Nel
1876, Dorsa scriveva che le donne del contado cosentino traevano
auspici per i bachi da seta dai vangeli cantati nei giorni di Pasqua.
Quando il prete intonava il vangelo «secunnu Marcu», la bigattaia
che pensava ai filugelli esclamava «i cuculli s’ammàttulanu» (cioè i
bozzoli crescono abbondantemente), mentre quando il prete leggeva
il vangelo «secunnu Luca», esprimeva la sua paura mormorando «‘u
sìricu s’affuca» (cioè i bachi muoiono prima di fare i bozzoli)38. Lo
studioso di tradizioni popolari racconta, inoltre, che in alcuni paesi
le siricatrici credevano che assaggiare fichi nel sabato santo
rendesse i bozzoli molli e malati, mentre mangiando castagne secche
i bozzoli sarebbero cresciuti pieni e sani39.
È difficile spiegare perché il vangelo di Marco fosse propizio ai
bachi e quello di Luca sfavorevole e che il raccolto dei filugelli
andasse male o bene a seconda del cibo mangiato dalle bigattaie.
Non riusciremo neanche a spiegare perché il giovedì per i bachi era
funesto e il venerdì propizio o perché i semi dei bachi messi in una
pezzuola ricavata dalla camicia di un uomo si sarebbero schiusi con
successo e risposti in quella di una donna sarebbero morti. È inutile
cercare le ragioni di tali credenze, poiché prive di senso e, del resto,
ciò che in alcune zone era vietato o cattivo, in altre era consentito o
buono. Nello stesso territorio del cosentino, in paesi come Acri,
l’influenza dei vangeli sui bachi da seta era intesa diversamente. Se
le donne sentivano invocare San Marco, sconsolate dicevano «Santu
Marcu: ‘u siricu si ni ‘mmàrca!» (san Marco: il baco s’imbarca per
l’aldilà), mentre se sentivano invocare san Luca, dicevano contente
«Santu Luca: ‘u sìricu s’ammagliùca» (San Luca: il baco cresce e
s’ingrossa)40.
L’impressione che certi tabù siano frutto di superstizioni e
ignoranza è fallace, in realtà gli antichi osservavano attentamente il
mondo naturale. Difilo di Sifno, in un trattato sugli alimenti per
malati e sani, analizzava con attenzione i pesci marini più conosciuti
indicandone le abitudini e le caratteristiche organolettiche. Scriveva,
ad esempio, che i pesci di scoglio fossero saporiti, leggeri e poco
nutrienti, mentre quelli pelagici, sostanziosi, pesanti e piuttosto
indigesti; i ghiozzi, bianchi e di piccola taglia, erano teneri e di
odore delicato, succulenti e di facile digestione mentre quelli gialli,
chiamati kaulìnai, erano duri, magri e pesanti; lo scaro e la keris
avevano le carni delicate, erano facili da digerire e salutari per
l’intestino, mentre per la cernia nera erano buone quelle parti vicino
la testa e la coda e pesanti e indigeste quelle del corpo. Gli scorfani
di colore rosso che vivevano in acque profonde erano più sostanziosi
di quelli catturati vicino alla costa; lo sparo aveva carni gradevoli,
tenere, diuretiche e buone per lo stomaco ma era pesante e indigesto
se cotto in padella; la triglia era saporita ma di difficile digestione a
causa delle carni dure, soprattutto se fritta o cotta alla brace; la
razziera era delicata al palato, quella stellata più tenera e succosa,
quella liscia puzzava e contraria all’intestino. La seppia, specie se
bollita, era tenera e gustosa, facile da smaltire e salutare poiché il
succo che rilasciava rendeva più fluido il sangue; il polpo stimolava
il desiderio sessuale ma era duro e indigesto e tanto più energetico
quanto più era grande41.
L’ateniese Mnesiteo, nel trattato sugli alimenti, scriveva che i
pesci da trancio, fossero pesanti ma, una volta digeriti, dessero un
gran nutrimento. Quelli privi di squame, come i tonni, erano squisiti
perché le carni erano grasse, anche se a pesanti e di difficile cozione,
particolarmente adatte a essere salate o arrostite. Le specie chiamate
«scuoiabili», come le razze, avevano una carne friabile e
maleodorante e, tuttavia, se bollite purgavano l’intestino più di
qualsiasi altro pesce. I pesci di scoglio come ghiozzi, scorfani e
passere fornivano gran nutrimento, si digerivano in fretta, non
lasciavano scorie e non provocavano flatulenza ma dovevano essere
preparati con scarso condimento. Se lessati, tordi e merli di mare si
assimilavano bene, erano diuretici e più purgativi per l’intestino dei
pesci di scoglio. A causa degli umori cattivi, visibili mentre erano
trattati, i polpi producevano flatulenza ed erano difficili da digerire;
la bollitura, però, toglieva gli umori negativi dalla carne, mentre la
grigliatura la rendeva dura e indigesta42.
Profonde erano le conoscenze sugli animali anche nel mondo
popolare. Le contadine cosentine che allevavano i bachi da seta,
attraverso l’esperienza e le conoscenze apprese, sapevano bene
come allevare i filugelli. Dopo averle sempre accusate di essere
ingenue, ignoranti e credulone, in occasione della pebrina che
atrofizzava i bachi da seta, i ricercatori della Reale società
economica della Calabria citra, riconobbero che le bigattaie
sapevano estrarre il seme dalle migliori farfalle per la propria
industria nonostante non avessero studi «baconomici e zoologici». Le
«siricatrici» erano consapevoli del fatto che ciò che accadeva ai loro
«vermuzzi» non fosse causato solo da forze soprannaturali,
chiedevano aiuto alla Madonna e protezione al colore rosso, ma
avevano sperimentato che lo scirocco e il freddo facevano ammalare
i bachi e prendevano precauzioni per difenderli. Ponevano nella
pezzuola che conteneva i semi bachi un chiodo e cera benedetta ma
sapevano che la cova dei semi bachi era delicata e bisognava
mantenere in soffitta una temperatura costante. Pensiero teoricoscientifico e pensiero pratico-religioso convivevano nelle contadine:
da una parte proponevano una sapienza magica, dall’altra
applicavano un pensiero razionale, da una parte si rivolgevano alle
arti occulte, dall’altra al sapere scientifico43.
Contrariamente agli ebrei che ritenevano grave peccato durante i
digiuni quaresimali mangiare molluschi perché privi di sangue, i
monaci cristiani di rito greco potevano mangiare solo pesci che ne
fossero privi come polpi, seppie, ostriche, mitili e chiocciole di
mare44. I sentimenti che stanno alla base di una proibizione non
possono essere analizzati isolatamente, acquistano senso se inseriti
in un apparato concettuale che li esprime, nel livello inconscio dove
risiede la struttura profonda del pensiero. La classificazione di ciò
che contamina e di ciò che è puro rientra in un sistema complesso, in
un quadro che stabilisce con precisione obblighi e proibizioni.
Pitagora, ad esempio, concepiva l’universo come un cosmo, dando
valore a quello che è limite, proporzione, forma e armonia. Per
scoprire l’ordine che si nasconde dietro il disordine, gli uomini eletti
devono riportare tutto a un numero limitato di principi opposti l’uno
all’altro. Il filosofo deve dedicare la propria esistenza a insegnare la
pratica della misura nei riguardi di istinti, desideri e pulsioni
corporee e convincere tutti a rispettare i canoni divini dell’ordine
cosmico con la persuasione o con la forza. Il compito del saggio non
è quello di conoscere più cose ma di scoprire le vie razionali che
conducono all’ordine del mondo e alla salvezza dell’anima e di
porre una misura nei riguardi degli istinti. Filolao raccontava che per
i pitagorici la cosa più bella fosse l’armonia, l’unità del molteplice
composto e la concordanza delle discordie.
La salute fisica e psichica degli uomini risulta dall’equilibrio e
dalla mescolanza proporzionata di qualità che secondo la legge
naturale si oppongono due a due: umido e secco, freddo e caldo,
amaro e dolce, chiaro e scuro. La salute non è altro che l’armonia dei
contrari: la predominanza di un elemento sugli altri, turba la
condizione di equilibrio45. Il compito del legislatore era quello di
dettare regole e stabilire ciò che fosse puro o impuro, lecito o
illecito, sacro o profano. Secondo Aristotele, il dualismo
fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e
male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio
dell’illimitato e il bene del limitato46. Attraverso le proibizioni,
Pitagora proponeva agli uomini un codice etico per stare nel mondo,
i tabù erano un meccanismo logico per mettere ordine nel reale
contraddittorio e caotico. Gli uomini, incapaci di governarsi da soli
perché condizionati dagli istinti naturali, avevano bisogno di un
minaccioso potere superiore che desse moderazione e ordine47.
Il modo di ragionare di filosofi e religiosi che imponevano i tabù
era semplice: il mondo era un insieme di ordine e disordine, di
coppie contrassegnate positivamente o negativamente. Essi legavano
le specie permesse o proibite al buono o cattivo, alla purezza o
all’impurità, al sacro o al profano e lo facevano perché dovevano
introdurre delle distinzioni per ordinare il mondo e creare un sistema
razionalmente armonico. La divisione tra cibi consentiti e cibi
proibiti non era legata alle proprietà intrinseche degli alimenti ma al
fatto che fosse necessario differenziare le specie segnate da quelle
non segnate.
I divieti alimentari di sacerdoti egiziani, rabbini e pitagorici
avevano, dunque, un senso formale, erano senza contenuto e senza
significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico
che ordinava il mondo. Il tabù del polpo faceva parte di una struttura
mentale che rispondeva al principio dell’unione di termini contrari.
Le proibizioni facevano parte di un codice concettuale che
contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per
porli in relazione. Per Lévi-Strauss l’attività mentale dell’uomo
tende a organizzarsi intorno a una struttura binaria: dualità,
alternanza, doppio e simmetria non costituiscono i fenomeni da
spiegare, ma i dati della realtà mentale e sociale nei quali
riconoscere i punti di partenza di ogni tentativo di spiegazione. Le
opposizioni sono utilizzate per decifrare la realtà, costituiscono
l’aspetto centrale nel passaggio dallo stato di natura allo stato di
cultura e rappresentano una delle molle principali della creatività
naturale, il nucleo più profondo e più antico dello spirito umano48.
1. Opuscoli di Plutarco, cit., pp. 441-447.
2. Sigmund Freud, Totem e Tabù ed altri saggi di antropologia,
Newton Compton, Roma 1974, p. 93.
3. Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 203.
4. Claude Lévi- Strass, Il crudo e il cotto, Mondadori, Milano 1990,
p. 27.
5. Apuleio, op. cit., pp. 492-493.
6. Giamblico, op. cit., XVIII, 86, p. 381; Diogene Laerzio, op. cit.,
VIII, 35, pp. 223-225.
7. Ivi, 34, p. 223.
8. Biblioteca storica di Diodoro Siculo, cit., pp. 161-176.
9. Cfr. Marco Martello, Cenni di filosofia igiologica ossia filosofia
della salute, co’ tipi di Varchi e Grassini, Macerata 1838, p. 198.
10. Marco Terenzio Varrone, Dell’agricoltura, tip. di Gio. Silvestri,
Milano 1851, pp. 262-265. Giuseppe Averani, op. cit., pp. 28-31.
11. Cfr. Franz Baermann Steiner, Tabù, Boringhieri, Torino 1980, p.
8. Cfr. Danila Visca, La scoperta del tabu, La Goliardica Editrice
Universitaria, Roma 1986; Carmela Pignato, Totem mana tabù.
Archeologia di concetti antropologici, Meltemi, Roma 2002.
12. Alfred R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società
primitiva, Jaca Book, Milano 1972, p. 146.
13. Jean Baudrillard, Della seduzione, Cappelli, Bologna 1980, pp.
77-78.
14. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, Einaudi, Torino 1988, p. 6.
15. Cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello
scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e
altri saggi, Einaudi, Torino 1965.
16. Niccolò Serpetro, op. cit., p. 323.
17. Opuscoli morali di Plutarco Cheronese filosofo, & historico
notabilissimo, appresso Fioravante Prati, Venetia 1598, pp. 194-195.
18. Olao Magno Gotho, op. cit., pp. 272-273.
19. Marco Maier, Il Regno di Napoli e di Calabria descritto con
medaglie arricchito d’una descrittione compendiosa di quel
famoso regno, ed illustrato d’una succinta dichiaratione intorno
alle sue medaglie cavata da i più celebri ed approvati scrittori si
antichi come moderni, appresso Antonio Boudeto, Lione 1717, p.
16.
20. Giovanni Fiore, Della Calabria illustrata, per li Socij Dom. e
Ant. Parrino e Michele Luigi Mutij, Napoli 1691, p. 334.
21. Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e
particolare de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue
bianco, al negozio di libri all’Apollo, Venezia 1820, vol. I, pp. 449450.
22. Melchiorre Gioia, Esercizio logico sugli errori d’ideologia e
zoologia ossia arte di trar profitto dai cattivi libri, coi tipi di
Giovanni Pirotta, Milano 1824, pp. 205-206; Pierre Denys de
Montfort, op. cit., p. 434.
23. Mario De’ Bignoni, Elogii sacri nelle solennità principali di
nostro Signore, della beata Vergine Maria, & altri Santi celebrati
dalla Santa Chiesa, appresso Francesco Storti, Venetia 1652, pp.
321-323.
24. Ivi, p. 322.
25. Filippo Picinelli, op. cit., p. 331.
26. Ateneo, op. cit., VII, 516e, vol. II, p. 768; Plinio, op. cit., vol. II,
p. 345.
27. Francesco Testa, Piombi antichi mercantili, in Opuscoli di
autori siciliani, Palermo, nella stamperia di Rapetti, Palermo 1775,
t. XVI, p. 50.
28. Ateneo, op. cit., VII, 317c, vol. II, p. 769. Cfr. Lorenzo
Stramusoli, Apparato dell’eloquenza, nella Stamperia del
Seminario, Padova 1700, p. 216; Ippolito Falcone, Narciso al fonte
cioè l’uomo che si specchia nella propria miseria, presso Gio
Gabriel Hertz, Venetia 1702, p. 177. Gasparo Ferrucci, Pratiche
quaresimali, presso Cristoforo Zane, Venezia 1730, p. 307.
29. Pio Rossi, Convito morale per gli etici, economici, e politico,
appresso i Guerigli, Venetia 1677, p. 265.
30. La singolare dottrina di M. Domenico Romoli soprannominato
Panonto, dell’ufficio dello Scalco, de i condimenti di tutte le
vivande, le stagioni che si convengono a tutti gli animali, uccelli,
& pesci, banchetti di ogni tempo, e mangiare da apparecchiarsi di
dì, in dì, per tutto l’anno a Principi. Con la dichiarazione della
qualità delle carni di tutti gli animali, & pesci, & di tutte le
vivande circa la sanità, presso Gio. Battista Bonfaldino, Venetia
1593, pp. 233-247; 363-347. Cfr. Castore Durante, Il tesoro della
sanità. Nel quale s’insegna il modo di conservar la sanità e
prolungar la vita. Et si tratta della natura de’ cibi, e de’ rimedij
de’ nocumenti loro, appresso Guglielmo Facciotti, Roma 1632, pp.
254-257; Michele Savonarola, Trattato utilissimo di molte regole,
per conservare la sanità, dichiarando qual cose siano utili da
mangiare, & quali triste: & medesimamente di quele che si bevono
per Italia. Aggiuntovi alcuni dubij molto notabili, eredi di Giovanni
Padovano, Venetiis 1554, pp. 49-53.
31. Eliano, Storia varia, IV, 17, in Maurizio Giangiulio, op. cit., p.
133.
32. Bernardino Baldi, op. cit., p. 29. Cfr. Claudia Cerchiai,
L’alimentazione del sapiente e dell’iniziato, in L’alimentazione nel
mondo antico, Ministero per i Beni Culturali, Istituto Poligrafico
dello Stato, Roma 1987, pp. 133-135.
33. Giulio Morosini, Via nella fede mostrata à gli Ebrei, nella
stamperia della Sacra Cong. de Prop. Fide, Roma 1683. Cfr. Leon
Modena Rabi, Historia de riti ebraici: vita & osservanza de
gl’Hebrei di questi tempi, appresso li Prodotti, Venetia 1669, pp.
47-54.
34. Paolo Medici, Riti e costumi degli ebrei descritti e confutati,
nella nuova stamperia di Pietro Gaetano Viviani, Firenze 1746, pp.
126-135.
35. Cfr. Benedetto Frizzi, Dissertazione seconda di polizia medica
sul Pentateuco in riguardo ai cibi proibiti e altre cose a essi
relative, con molte note critiche e fisiche, per Lorenzo Manini
Regio stampatore, appresso Pietro Galeazzi, Cremona 1788, pp. 4247. Levitico, XI, in Vecchio Testamento che contiene il secondo e
terzo libro del Pentateuco o sia l’Esodo e il Levitico, nella
stamperia Arcivescovile, Firenze 1782, pp. 331-340. Cfr. Franco
Voltaggio, L’arte della guarigione nelle culture umane, Boringhieri,
Torino 1992, pp. 311-315.
36. Benedetto Frizzi, op. cit., pp. 42-47.
37. Aurelio Bianchi Giovini, Biografia di fra Paolo Sarpi teologo e
consultore di Stato della Repubblica Veneta, Poligrafa italiana,
Firenze 1849, p. 241.
38. Vincenzo Dorsa, La tradizione greco-latina negli usi e nelle
credenze popolari della Calabria Citeriore, Forni, Sala Bolognese
1983, p. 140; L’Istituto Bacologico Consorziale Autonomo per la
Calabria e attività svolta negli anni 1924-925; 1925-926; 1926927, Tip. Riccio, Cosenza 1927, p. 159; Giovanni Sole, Bachi e
tabù. Credenze magico-religiose nella sericoltura calabrese,
Museo della Seta, Mendicino 2007; Id., Secunnu san Luca ‘u sìricu
s’affuca. Tabù e credenze magico-religiose delle bigattaie
calabresi, in Alario L. (a cura di), Cultura Materiale, cultura
immateriale e passione etnografica, Rubbettino, Soveria Mannelli
2009, pp. 363-384.
39. Vincenzo Dorsa, op. cit., p. 140; L’Istituto Bacologico
Consorziale Autonomo per la Calabria, cit., p. 159.
40. Giuseppe Abbruzzo, C’era una volta la bachi-sercicoltura.
Storia, tradizione, folklore, in Abbruzzo G., Filippelli P., Graziani
A., Serra N., La bachi-sericoltura in Calabria, Cooperativa don
Milani, Acri 2003, pp. 73-74.
41. Ateneo, op. cit., VIII, 355b-356d, vol. II, pp. 881-886.
42. Ivi, VIII, 357b-358d, vol. II, pp. 887-889.
43. Vincenzio M. Greco, Sull’andamento dell’industria serica in
provincia di Calabria Citra nell’anno 1864. Rapporto letto alla
Reale Società Economica dal Segretario Perpetuo presso la
medesima, tip. dell’Indipendenza, Cosenza 1865, p. 22.
44. Storia degli ordini monastici, religiosi, e militari, e delle
congregazioni secolari dell’uno e dell’altro sesso, fino al presente
istituite, con le vite de’ loro fondatori, e riformatori, per Giuseppe
Salani e Vincenzo Giuntini, Lucca 1737, p. 194; Gabrielle Bremond,
Viaggi fatti in Egitto, superiore et inferiore, libro III, per Paolo
Moneta, Roma 1679, libro III, p. 51; Ludovico Thomassin, Trattato
dei digiuni della Chiesa, appresso Sebastiano Domenico Cappuri,
Lucca 1742, p. 255.
45. Giamblico, op. cit., XXX, 174, pp. 447-451.
46. Aristotele, Etica nicomachea, cit. Giangiulio M. (a cura di), op.
cit., p. 91.
47. Cfr. Giovanni Sole, Belli e Brutti. Apollineo e dionisiaco ad
Alessandria del Carretto, Centro Editoriale e Librario, Università
degli Studi della Calabria, Rende 1998; Id., Il teatro dei Belli e dei
Brutti in una comunità montana calabrese, in Costantino V., Fanelli
C. (a cura di), Teatro in Calabria 1870-1970. Drammaturgia
repertori compagnie, Monteleone, Vibo Valentia 2003, pp. 281-294;
Id., La dialettica degli opposti in un carnevale calabrese, in Faeta
F., Faranda L., Geraci M., Mazzacane L., Niola M., Ricci A., Teti V.
(a cura di), Il tessuto del mondo. Immagini e rappresentazioni del
corpo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2007, pp. 185-194.
48. Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela,
Feltrinelli, Milano 1984, p. 99.
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Ulyssis Aldrovandi, De reliquis animalibus exanguibus, Baptistam
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Tecnologiche di Napoli, pei tipi del commendatore G. Nobile,
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Verissima, e distinta relazione d’un spaventoso mostro marino
ritrovato il mese caduto l’anno presente nell’acque di Cadiz dal
capitan Daniel Montagna da Napoli, e si ritrova presente a Corfu e
in breve verrà in Venezia. Nella quale s’intende la morte di undici
uomini uccisi nella sua nave, ed altri danni, appresso Gio. Battista
Occhi, Venezia 1764.
Joannes Jonstonus, Historiae naturalis de piscibus et cetis, Impensa
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Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare
de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, vol. I, al
Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820; Le opere di Buffon
nuovamente ordinate ed arricchite della sua vita e di un
ragguaglio dei progressi della storia naturale dal MDCCL in poi
dal conte di Lacepede, vol. XXXVIII, al negozio di libri all’Apollo,
Venezia 1820.
Pierre Denys de Montfort, Storia naturale, generale e particolare
de’ molluschi, animali senza vertebre e di sangue bianco, vol. I, al
Negozio di Libri all’Apollo, Venezia 1820; Le opere di Buffon
nuovamente ordinate ed arricchite della sua vita ed un ragguaglio
dei progressi della storia naturale dal MDCCL in poi dal conte di
Lacepede, vol. XXXVIII, al negozio di libri all’Apollo, Venezia
1820.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Giuseppe Jatta, I cefalopodi viventi nel Golfo di Napoli
(sistematica), R. Friedländer & Sohn, Berlin 1896.
Indice
Polpo immondo
Polpo e anima
Polpo progenitore
Polpo libidinoso
Polpo adulatore
Polpo avido e tiranno
Polpo mostro
Polpo archetipo
Polpo e identità
Polpo e storici
Diogene e il polpo
Polpo in cucina
Polpo e mercato
Il tabù del polpo
Tavole
STAMPATO IN ITALIA
nel mese di ottobre 2017
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